Risultati da 1 a 9 di 9
  1. #1
    Roderigo
    Ospite

    Predefinito Sabra e Chatila senza giustizia

    Dal 16 al 18 settembre 1982. Una strage lunga 40 ore e tremila morti
    Sabra e Chatila senza giustizia


    Giancarlo Lannutti

    «Il paesaggio sfida qualsiasi descrizione. Un'incarnazione dell'orrore, una visione dopo un uragano. Case distrutte, in tutto o in parte, rottami di cemento e di ferro, grovigli di fili elettrici. Auto polverizzate dai carri armati o dai missili aggiungono una dimensione di barbarie a questo spettacolo spaventoso. Un puzzo acre di cadaveri aleggia sulle macerie». Chi scrive queste drammatiche parole è Amnon Kapeliouk, giornalista israeliano fra i più noti, autore nel dicembre 1982 del dossier: "Sabra e Chatila - Inchiesta su un massacro", che all'epoca fece scalpore mettendo in luce in modo documentato e impietoso le responsabilità degli ambienti militari di Tel Aviv e dell'allora ministro della Difesa (e oggi primo ministro) Ariel Sharon.
    Ma il brano sopra citato non si riferisce al massacro di Sabra e Chatila: Kapeliouk lo ha scritto nel maggio scorso su "Le Monde Diplomatique" al termine di una nuova inchiesta, questa volta nel campo profughi di Jenin, teatro di un nuovo "crimine di guerra" - come lo definisce senza mezzi termini egli stesso - commesso dall'esercito di Israele. In questi giorni ricorre il ventesimo anniversario della tragedia di Sabra e Chatila, e il fatto che Amnon Kapeliouk sia costretto a ricordarlo occupandosi di un'altra tragedia la dice lunga su come vanno le cose in Medio Oriente. Dopo venti anni, vediamo vanificati e consumati i passi avanti, le speranze o forse le illusioni che hanno caratterizzato l'ultimo decennio del secolo scorso; e questo ci aiuta a cogliere il senso di quel massacro di venti anni fa, a mettere in luce l'infame disegno strategico che lo rese possibile e che rende oggi possibile quanto sta accadendo sotto i nostri occhi. Molto opportuna dunque l'iniziativa della casa editrice Crt di ripubblicare integralmente il libro di Amnon Kapeliouk, uscito allora a cura della rivista "Corrispondenza internazionale" per la traduzione di Giancarlo Paciello (autore anche di un recente e documentato saggio su: "La nuova Intifada", edito dalla stessa Crt). La nuova edizione (maggio 2002, pagg. 119, euro 10,00) è del tutto identica alla precedente ed è corredata da una prefazione di mons. Hilarion Capucci e da una introduzione di Stefano Chiarini, promotore del Comitato "per non dimenticare Sabra e Chatila" che in questi stessi giorni ha promosso dall'Italia una folta delegazione sui luoghi del massacro.

    Di Sabra e Chatila è stato scritto tanto, anche su queste colonne, che è superfluo rifarne in dettaglio la storia. Introducendo il 16 settembre nei campi profughi i miliziani al comando di Elie Hobeika, il comando e il governo di Tel Aviv sapevano benissimo quali fossero le intenzioni dei falangisti, che non le avevano minimamente nascoste; e lo stesso vice-inviato americano nella regione Morris Draper cercò invano di impedire che ai miliziani fosse dato via libera. La strage andò avanti per oltre 40 ore a colpi di arma da fuoco, di coltello, di ascia; i soldati israeliani impedirono a chiunque (in particolare ai giornalisti) di avvicinarsi ai campi ma anche di uscirne, ricacciando di fatto indietro chi cercava di fuggire, e ne illuminarono di notte il cielo con i bengala per agevolare i movimenti dei miliziani. Il massacro venne fermato solo alle 10 del 18 settembre, quando la notizia era diventata ormai di pubblico dominio. Il numero preciso delle vittime è tutt'ora ignoto, i calcoli e le stime più attendibili lo collocano intorno ai tremila morti, ma potrebbero essere anche di più. L'esecrazione e la protesta della opinione pubblica e del movimento pacifista israeliano - che portò il 25 settembre nelle strade di Tel Aviv 400mila manifestanti - costrinsero il governo a istituire una commissione d'inchiesta, la Commissione Kahane, che il 7 febbraio 1983 approvò un rapporto contenente severe censure nei confronti in primo luogo del ministro della Difesa Sharon (che fu costretto a lasciare l'incarico) ma anche del primo ministro Beghin e dei vertici militari. Ma a parte la costituzione di Sharon - rimasto peraltro nel governo a diverso titolo - nessuno dei responsabili della strage ha mai pagato il suo debito con la giustizia, salvo - in un certo senso - il capo falangista Elie Hobeika, ucciso nel gennaio scorso a Beirut in un oscuro attentato, che tutti in Libano (e non solo) hanno attribuito ai servizi israeliani, preoccupati di chiudere la bocca a un testimone scottante e divenuto per di più inaffidabile, alla luce delle sue successive vicende politiche e personali. Proprio in quei giorni era attuale l'ipotesi di un processo contro Sharon di fronte alla giustizia del Belgio. L'inchiesta di Amnon Kapeliouk è più scarna di quella della Commissione Kahane ma nella sostanza più approfondita e soprattutto priva di reticenze. Frutto di un lavoro iniziato il giorno successivo al massacro e protrattosi per due mesi, ricostruisce nei minimi dettagli le circostanze di quanto accade in quei terribili giorni e le decisioni, le mosse e gli atteggiamenti delle autorità militari israeliane, soprattutto quelle impegnate "sul campo"; valga in proposito come esempio la frase di un ufficiale riportata da Kapeliouk secondo la quale «chi fa entrare una volpe nel pollaio non si meravigli poi se i polli verranno divorati». Non è da stupire dunque se Kapeliouk, pur sottolineando che «nessuno può ignorare il contributo positivo del rapporto (della Commissione Kahane, ndr), che illumina alcuni aspetti della complicità e della responsabilità di molti capi militari e civili israeliani», dia però dell'operato della Commissione un giudizio nel complesso alquanto critico. Il relativo capitolo, pubblicato in appendice, si intitola non a caso: "La montagna ha partorito un topolino" e si conclude con queste parole: «Il rapporto della Commissione Kahane ha, senza dubbio, dei meriti ma presenta altresì gravi lacune. Non chiude questa orribile storia, in alcun modo. Tutte le responsabilità dirette devono essere colpite. Contrariamente a quanto afferma il rapporto Kahane, queste non sono esclusivamente libanesi».

    A vent'anni di distanza queste parole mantengono la loro validità, anzi la vedono accresciuta. E i martiri palestinesi di Sabra e Chatila - donne, vecchi, bambini, gente di ogni età e condizione - attendono ancora giustizia.


    Liberazione 17 settembre 2002
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  2. #2
    Roderigo
    Ospite

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    A vent'anni dal massacro nel campo palestinese di Sabra e Chatila
    Una strage in attesa di giudizio
    Le responsabilità dell'allora ministro della difesa Ariel Sharon


    Anna Maria Costantini - Beirut - nostro servizio

    «Non capivamo cosa stesse accadendo. Io vivevo ai limiti del campo profughi di Chatila, sono stata prelevata dai miliziani falangisti assieme ad altre 18 persone; ci fecero percorrere la via principale del campo. Durante il percorso i falangisti, senza neanche fermarsi, sparavano a qualunque cosa si muovesse: non so quante persone uccisero, mentre altre le fecero aggiungere alle nostre fila. Ci portarono al centro del campo, lì vedemmo che era stata scavata una fossa comune: i corpi erano ammassati gli uni sugli altri, uno spettacolo orrendo. I miei fratelli erano andati in città, seppi dopo che in quel tragitto uno di loro perse la vita a causa dell'esplosione di una bomba. Di Hadid, l'altro mio fratello, non ho saputo più nulla. Mi auguro che torni. I miei parenti in Palestina, mi hanno detto di aver saputo che nel carcere di Gaza c'è un uomo con il suo stesso nome, ma l'assedio non gli permette di andare a vedere. Questa è la sua tessera, l'ho rinnovata ogni anno nella speranza di rivederlo. E questo - mostra un foglio ingiallito dal tempo - è un atto del catasto: dimostra che la mia famiglia possedeva delle proprietà in Palestina. Lo conservo da 54 anni: vedete c'è scritto Jaffa ed è datato 1947. Ho visto molte cose quei giorni di vent'anni fa ma proprio non ce la faccio a raccontarle». Parla composta e con un filo di voce una dei familiari dei martiri di Sabra e Chatila, i campi situati nella periferia a sud di Beirut che dal pomeriggio del 16 alla mattina del 18 settembre del 1982 furono teatro di un massacro che ha contato dai due ai tremila morti.
    Da pochi giorni ottomila fedayn avevano lasciato il Paese dopo la firma dell'accordo che vedeva il governo di Tel Aviv impegnarsi a non invadere il settore musulmano di Beirut, dove vivevano i profughi palestinesi. Alla sigla dell'accordo anche le forze multinazionali occidentali, presenti nel Paese per proteggere i profughi palestinesi, avevano abbandonato la città.

    Quando le truppe falangiste cristiano-maronite entrarono nei campi, c'erano donne, anziani e bambini. Il massacro si compì con l'apporto logistico dell'esercito israeliano che fornì agli alleati miliziani anche i bengala per illuminare a giorno il campo non appena scese la sera.

    La carneficina fu scoperta solo il 18 settembre: le immagini di quell'orrenda ecatombe fecero il giro del mondo. Gli occhi dell'umanità videro corpi gonfi, sgozzati, mutilati, teste impalate, bambini schiacciati da bulldozer, centinaia di cadaveri torturati e accatastasti che, sotto il sole cocente di un settembre nero, andavano già in putrefazione.

    A dirigere l'operazione dei tre giorni di sangue a Sabra e Chatila è Elie Hobeika, allora capo dei servizi di informazione delle "Forze Libanesi". Una Commissione d'inchiesta disposta da Israele, lo dichiarò il diretto responsabile di quell'orrendo massacro; la stessa Commissione stabilì che «indirettamente ma personalmente responsabile» era anche l'allora Ministro della Difesa e attuale Premier israeliano Ariel Sharon, che venne costretto alle dimissioni. I famigliari dei martiri sono oggi in attesa di un giudizio in cassazione della Corte di Bruxelles, che vede come imputato proprio Sharon. Nel 1983, infatti, il Belgio vara una legge che consente ai suoi tribunali di giudicare i cittadini stranieri per crimini di guerra e contro l'umanità anche se commessi all'estero. A vent'anni dall'eccidio nessuno ha ancora pagato per il massacro di Sabra e Chatila. Un migliaio di persone sono considerate "desaparecidos": furono consegnate dai falangisti all'esercito israeliano, ma non furono mai ritrovate. I corpi delle migliaia di profughi palestinesi uccisi tra il 16 e il 18 settembre giacciono in qualche ignota e polverosa fossa comune.

    Oggi, a vent'anni di distanza, i profughi che abitano nel campo di Chatila sono oltre 20mila, tra registrati e non, in un fazzoletto di terra di un chilometro quadrato. Dall'82 il Governo libanese vi ha costretto anche i 16mila che vivevano ai limiti del campo, ed impedisce tutt'ora di varcare con nuove costruzioni quel perimetro. I palazzi continuano a salire, piano dopo piano, in costruzioni che sfidano le leggi di gravità. Le risorse che l'Unrwa (United Nations Relief and Works Agency's) ha a disposizione, sono le stesse dagli anni '80, ma il numero dei profughi è aumentato notevolmente.

    «Dall'82 la situazione dei profughi è nettamente peggiorata - afferma Rashid Khatib, membro della Ong Norwegian People's Aid - il ritiro dell'Olp e e la Guerra del Golfo hanno acutizzato la situazione. Il Governo libanese introduce sempre nuove leggi discriminatorie per gli stranieri: leggi che poi gravano soprattutto sui profughi palestinesi. Non abbiamo diritto alla proprietà privata, non abbiamo diritto di occupazione, non abbiamo diritto ad assistenza sanitaria pur essendo costretti a pagare le tasse sulla salute. Non abbiamo neanche più diritto all'istruzione: da quest'anno le tasse per accedere agli studi primari si sono quintuplicate, le rette universitarie sono dieci volte tanto. Nessun diritto alla salute per i malati cronici, di cancro o sopra i 60 anni, mentre per gli altri l'Unrwa partecipa ad un terzo delle spese».

    La situazione dei profughi è al collasso. Nei campi il fetore - dovuto allo smog, all'immondizia lasciata a marcire in alti cumuli ai lati della strada, la mancanza di acqua potabile e la penuria di quella imbevibile - rende l'aria irrespirabile. Le vie su cui si affacciano i palazzi non superano mai il metro di larghezza, la luce del sole non riesce a filtrare nei piani bassi, la corrente elettrica viene distribuita da un unico generatore, da cui si dipartono interminabili fila aggrovigliate di cavi, appena un paio di metri sopra le teste. Fogne a cielo aperto scorrono in rivoli nelle strade fangose anche d'estate; qui, l'inverno, l'acqua dei reflui si mescola alla pioggia e all'immondizia, formando nauseabonde piscine che contribuiscono a peggiorare una situazione igienica già al tracollo.

    Liberazione 15 settembre 2002
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  3. #3
    Roderigo
    Ospite

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    Oltre la metà al di sotto della soglia di povertà
    I campi profughi oggi


    In Libano, secondo i dati forniti dall'Unrwa vivono oggi 376.472 rifugiati palestinesi, ma i dati non comprendono i profughi senza permesso, di fatto inesistenti per il Governo e per le Nazioni Unite. Attualmente, questa comunità rappresenta l'11.1 % della popolazione libanese. Circa il 55% dei rifugiati vive nei campi, dove la densità della popolazione oscilla tra i 48.280 e le 133.433 persone per Kmq. I rapporti delle Nazioni Unite del 2000 stimano che il 60% dei profughi vive al di sotto della soglia di povertà, mentre i dati Unrwa valutano al 36% i rifugiati palestinesi che non hanno alcuna fonte di reddito. Il 40% dei profughi non ha alcuna occupazione. Le statistiche dell'Unicef sui "bambini di strada" in Libano, indicano che il 18% su un 23% totale è costituito da bambini e adolescenti palestinesi.


    Liberazione 15 settembre 2002
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  4. #4
    Roderigo
    Ospite

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    Yom Kippur a Sabra
    La strage di Sabra e Chatila nella memoria di un'infermiera ebrea americana che, vent'anni dopo, torna nei luoghi in cui aveva assistito ai massacri dell'esercito israeliano. Per pregare e ricordare, per onorare le vittime e incontrare i sopravvissuti, i profughi «ancora oggi in attesa di poter tornare nella loro patria»


    ELLEN SIEGEL

    Tra poche ore arriverò a Beirut, per la prima volta dopo vent'anni, per partecipare alla commemorazione del ventesimo anniversario del massacro nei campi profughi di Sabra e Chatila. Arrivai la prima volta a Beirut nell'agosto del 1972, trent'anni fa, quasi per caso nel corso di un viaggio in Europa. Sino ad allora in tutta la mia vita non avevo mai incontrato un arabo a eccezione di un dottore che lavorava nell'ospedale ebraico nel quale avevo fatto il tirocinio di infermiera. Nella seconda metà degli anni `60 mi ero resa conto che Israele e alcuni paesi arabi erano in guerra tra di loro e che in conseguenza del conflitto un popolo, quello palestinese era stato esiliato dal suo paese. Molti di loro erano divenuti rifugiati e vivevano in ripari di fortuna. Mi avevano detto che il popolo ebraico era un «popolo senza terra» e che la Palestina era «una terra senza popolo». Ero confusa. Chi viveva quindi in quelle baracche? Decisi di capire meglio.

    Arrivai a Beirut alla fine di agosto e cominciai a cercare informazioni sulla realtà palestinese. Feci molte domande, lessi molto. A settembre presi un taxi e andai in un campo profughi a Bourj el Barajneh. Una visita che avrebbe cambiato la mia vita. Le condizioni di vita erano tremende: fogne a cielo aperto, tetti di lamiera, niente acqua potabile. Andai all'ospedale e qui degli anziani, tremando, mi dissero delle case che erano stati costretti a lasciare quando nel 1948 venne creato Israele. Mi fecero vedere le foto dei loro ulivi, aranci, frutteti, case, della loro terra. Molti avevano ancora la chiave di casa. Mi dissero che erano nati a Jaffa, Haifa, Acre. Mi avevano detto che si trattava di città israeliane. Scoprii che quegli stessi posti erano stati la terra di migliaia di palestinesi. I rifugiati mi dissero che «erano in attesa di tornare» alle loro case. In un solo giorno mi resi conto che quel che mi avevano insegnato a tale proposito da bambina alla scuola ebraica non era vero.

    Mentre ero lì appresi che degli atleti israeliani erano stati uccisi alle olimpiadi di Monaco. Partii con il cuore pieno di angoscia. In un certo senso non sono mai partita. Il ricordo del campo sarebbe sempre rimasto con me. Pochi giorni dopo arrivò la rappresaglia israeliana. Decisi di fare l'infermiera volontaria con la mezzaluna rossa palestinese e andai al Sud. Le devastazioni erano incalcolabili. Vidi una macchina che era stata schiacciata da un carro armato. Dei membri della famiglia che erano a bordo non rimaneva nulla. Com'era possibile che la mia gente avesse fatto qualcosa del genere?

    Passai lo Yom Kippur, il giorno del pentimento, a Beirut, nella bellissima vecchia sinagoga sefardita adorna di bellissimi pezzi della Judaica. Mi fermai ancora un po' a Beirut e poi andai in Israele, nella West bank e a Gaza. Infine a Londra e negli Usa. Intanto a Beirut i palestinesi vivevano un'esistenza di stenti, sempre in attesa del «ritorno».

    Nel giugno del 1982 durante l'invasione del Libano ogni notte vedevo alla televisione i bombardamenti israeliani degli affollati quartieri della città. L'esercito israeliano bloccava l'entrata nei campi di generi alimentari e di farmaci salvavita. Decisi di andare di nuovo volontaria a Beirut. Non tutti gli ebrei potevano sopportare quanto Israele stava facendo.

    Arrivai alla fine di agosto. La devastazioni erano molto estese. Interi palazzi distrutti, resti di bombe a biglia e altre armi sparsi ovunque - gran parte dei quali con la scritta «made in Usa». Ebbi difficoltà, sul piano umano a lavorare. Non avevo mai visto esseri umani con ferite così estese e devastanti eppure ancora in vita. Giovani accecati, coperti di bende dove una volta avevano le gambe. Bruciature così gravi, al volto, al corpo, ovunque - giovani, neonati, anziani, donne. Venni assegnata al Gaza hospital nel campo di Sabra dove ancora una volta tutti si apprestavano a ricostruire le loro case e le loro vite. Le forze dell'Olp erano state evacuate. Gli Stati uniti avevano mediato un'intesa: gli israeliani avrebbero posto fine alla guerra se l'Olp con Arafat avesse lasciato il paese. I palestinesi non avevano più alcuna protezione. Arrivò una forza multinazionale.

    Verso il 10 settembre le forze multinazionali lasciarono Beiriut. Quattro giorni dopo, il 14 settembre, il presidente libanese, appena eletto, Bashir Gemayel, venne ucciso. Era il leader del partito falangista il cui odio per i palestinesi era assoluto. L'esercito israeliano a questo punto entrò a Beirut per «liberare i campi dei rimanenti terroristi palestinesi e assicurare l'ordine». L'esercito circondò i campi di Sabra e Chatila. Impedì ai residenti di fuggire e bloccò ogni entrata. All'alba del 15 settembre udii gli aerei isrealiani sorvolare il campo, rompendo il muro del suono. Colpi di arma da fuoco riecheggiarono per tutta la giornata e si intensificarono verso sera.

    Il giorno dopo, il sedici settembre, migliaia di abitanti dei campi arrivarono all'ospedale per cercarvi rifugio. Erano terrorizzati gridavano «Kataeb (falangisti), Israele» e facevano il segno di come si viene sgozzati. Feci entrare più gente possibile, circa 2.000 persone, gli altri, almeno altrettanti, restarono davanti al portone. Dentro l'ospedale c'era il caos. Arrivavano continuamente corpi di gente uccisa e all'obitorio non c'era più posto. I bombardamenti di artiglieria pesante continuarono per tutto il giorno. Quella sera io e altri sanitari salimmo sulla terrazza dell'ospedale e da qui vedemmo i bengala illuminare a giorno alcune parti dei campi. Ogni bengala era seguito da raffiche di mitragliatrice. Non si sentiva null'altro. Nessun grido, nulla. Gli aerei israeliani continuarono a sorvolare il campo per tutta la notte.

    Il giorno seguente, il 17 settembre, quasi tutti i sanitari palestinesi e libanesi lasciarono l'ospedale, così come tutti coloro che vi avevano cercato rifugio. Il direttore aveva saputo che il pericolo era vicino. Nel pomeriggio evacuammo tutti i feriti in grado di muoversi. Rimasero solo gli altri. Tra questi c'era un ragazzino chiamato Munir, ferito a una gamba, a un braccio e alla mano che perdeva molto sangue.

    Per tutto il giorno continuarono assordanti esplosioni e raffiche di armi automatiche. Si stavano avvicinando. Un fumo denso, cominciò a entrare dalle finestre che si aprivano per le esplosioni. Trasportammo i pazienti al primo piano e mettemmo del nastro adesivo sui vetri. La luce andò via e si operava con le torce elettriche. Quella sera riuscirono a raggiungere l'ospedale alcuni rappresentanti della Croce rossa ed evacuarono alcuni dei feriti più gravi tra i quali Munir. Improvvisamente, a notte i bombardamenti cessarono. Si sentiva solo il crepitio delle armi automatiche. Il calare del sole, quel giorno, segnò l'inizio di Rosh Hashanah, il nuovo anno ebraico.

    Riuscii a dormire per qualche ora. All'alba mi svegliò un'altra infermiera. C'era troppo silenzio, dalla strada non si sentiva alcun rumore. Guardai fuori da una finestra dell'ospedale. Davanti al portone c'erano una dozzina di soldati in tuta mimetica con le insegne della falange. Stavano portando via gli abitanti dalla zona dell'ospedale e ci ordinarono di scendere al piano terra perché dovevamo andar via ma saremmo tornati presto. Dopo un lungo negoziato ruscimmo ad ottenere che alcuni sanitari potessero rimanere al capezzale dei feriti più gravi.

    Ci portarono lungo la principale strada del campo la via Sabra e ci ordinarono di continuare a camminare senza voltarci nonostante le sventagliate di mitra a destra e a sinistra. Per la strada c'erano cadaveri ovunque, quasi tutti erano stati uccisi con un colpo alla testa. Gli abitanti del campo stavano ai due lati della strada e ci facevano il segno della vittoria. Avevano paura per noi e noi per loro. Man mano che avanzavamo lungo la strada il numero dei soldati andava aumentando. Molti di loro sembravano esausti, le divise sporche, non rasati, irascibili. I soldati comunicavano con qualcuno con delle radio trasmittenti portatili. Arrivati ai confini del campo cominciarono ad insultarci. Ci chiamavano non cristiani perché «curavamo i terroristi», «comunisti, socialisti». Poi si fecero consegnare i passaporti. Un bulldozer con delle scritte in ebraico stava alacremente lavorando in un largo spiazzo dove una volta sorgevano delle case. Girato l'angolo di via Sabra ci misero contro un muro pieno di fori di proiettili. Davanti a noi circa 40 soldati. Passarono alcuni minuti e il plotone di esecuzione abbassò i fucili e tornò dentro il campo. Successivamente sono venuta a sapere che alcuni ufficiali israeliani stavano seguendo tutto quel che avveniva nel campo e fermarono una possibile esecuzione di cittadini stranieri. Venimmo condotti per essere interrogati in un edificio dell'Onu abbandonato. Finito l'interrogatorio ci portarono dall'altra parte della strada in un palazzo di oltre cinque piani che dominava il campo, il comando avanzato dell'esercito israeliano. Ci dettero acqua e frutta e una troupe telvisiva riprese la scena. Molti soldati portavano la chippa e i paramenti della preghiera. Era Rosh Hashanah il giorno che segna l'inizio del periodo di dieci giorni di riflessione e pentimento dell'anno ebraico. Il Libro della vita viene aperto, dobbiamo riparare gli errori commessi e mettere ordine nelle nostre vite. Uscimmo dal campo e arrivammo a Beirut. Poco dopo andai in Siria per un breve periodo e poi tornai di nuovo al Gaza hospital di Sabra. Uno dei miei pazienti era Munir ormai fuori pericolo e in convalescenza. Mi raccontò la sua terribile storia: praticamente tutta la sua famiglia era stata massacrata. Restavano in vita solamente suo fratello Nabil e sua sorella. Era stato costretto a giacere sul cadavere della madre uccisa per tutta la notte cercando di vivere e di non muoversi.

    Il 31 ottobre lasciai definitivamente Beirut. Andai a Gerusalemme a testimoniare davanti alla commissione di inchiesta Kahan e poi tornari negli Stati uniti. Negli ultimi venti anni ho continuato a lavorare per un sempre crescente e articolato movimento per la pace ebraico e per le attività palestinesi di aiuto e sostegno nel campo sanitario. Munir e Nabil alla fine sono arrivati negli Usa e siamo diventati amici. Ogni anno vado alle cerimonie in sinagoga e il nuovo anno cade sempre vicino all'anniversario della strage. Ogni anno prego da sola, per mio conto, che questo conflitto finisca. Spero nella pace e nella fine di tante sofferenze.

    Ho raccontato questa mia storia molte volte. Ho anche scritto molto sulla mia esperienza ma non ero più tornata. Quest'anno ho deciso di tornare a Beirut. La storia di Sabra e Chatila non passerà mai ed è divenuta una parte importante della storia della Palestina e di Israele. Ariel Sharon che al momento del massacro era ministro della difesa ora è primo ministro. Le indagini sul massacro e sulle responsabilità israeliane continuano. Nuovi elementi continuano a emergere. Quest'anno vorrei ripercorrere, senza clamori, quella marcia dal Gaza hospital al comando avanzato israeliano. Voglio rendere omaggio a coloro che sono caduti e a coloro che sono sopravvissuti. Il ricordo è molto importante nell'ebraismo moderno. Voglio ricordare e onorare, visitare la fossa comune, andare dalla sorella di Munir e di Nabil l'unica sopravvissuta della famiglia. La cerimonia del ricordo avrà luogo il 16 settembre, lo Yom Kippur. Passerò così il mio giorno del pentimento a Sabra. Questo triste campo profughi sarà la mia sinagoga. Ho sollecitato e ho ricevuto un incoraggiante messaggio per la comunità palestinese in Libano da parte della Coalizione, israeliana, delle donne per una giusta pace.

    Gli anziani che incontrai nel mio primo viaggio se ne sono andati da lungo tempo, sepolti in terra libanese. I loro figli e i loro nipoti sono ancora nei campi. Non è cambiato molto in questi trent'anni: le fogne a cielo aperto sono sempre lì, così come le baracche di una sola stanza con il tetto di bandoni. Dell'acqua corrente non c'è ancora traccia.

    E i palestinesi aspettano ancora di tornare alla loro terra.

    (traduzione Stefano Chiarini)
    il manifesto 15 settembre 2002
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  5. #5
    Roderigo
    Ospite

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    Campo di morte
    Venti anni dopo, il ritorno sui luoghi del massacro.
    Parlano i testimoni della strage di Sabra e Chatila del 16-18 settembre 1982, quando l'esercito di Tel Aviv circondò i campi profughi palestinesi alla periferia sud di Beirut e vi fece entrare le milizie falangiste libanesi incaricate di «ripulirli» dagli oltre «2000 terroristi» che per l'allora ministro della difesa Ariel Sharon, erano rimasti nel campo


    STEFANO CHIARINI - INVIATO A BEIRUT

    «La sera del sedici settembre stavamo cenando quando abbiamo sentito e poi visto della gente correre e gridare aiuto. Che c'erano molti uccisi e sgozzati per le strade ma la guerra era appena finita e non pensavamo che potesse succedere qualcosa del genere. Così non siamo fuggiti. Poi è cominciato l'inferno». Sian Balqish racconta con un filo di voce quegli eventi di fine estate di venti anni fa quando l'esercito di Tel Aviv circondò i campi profughi palestinesi alla periferia sud della città e vi fece entrare le milizie falangiste libanesi incaricate di «ripulirli» dagli oltre «2000 terroristi» che secondo Sharon erano rimasti a Sabra e Chatila. Le operazioni di «pulizia» erano coordinate dal comando avanzato israeliano che si trovava sul tetto di un palazzo di cinque piani proprio davanti al campo, da dove era possibile osservare gli sviluppi della mattanza. Partiti i fedayin alla fine di agosto e forti della promessa degli Usa che l'esercito israeliano non sarebbe entrato a Beirut ovest i palestinesi quella notte di 20 anni fa erano tranquilli.

    Il «solito» rastrellamento

    Le scuole stavano per riaprire i battenti e nel campo era tutto un costruire di nuovo le povere case distrutte dai bombardamenti israeliani. Tanti abitanti di Chatila, come la famiglia di Sian, rimasero a casa pensando che si trattasse del «solito» rastrellamento, del «solito» bombardamento. Sian Balqish, parla lentamente, con un filo ci voce, in una sala affollata fino all'inverosimile, ricavata da un terrazzo coperto alla meglio con dei bandoni di metallo. Pe espresso divieto del governo libanese è vietato ricostruire alcunché nelle zone circostanti il perimetro del campo del 1948 rase al suolo prima nel 1982 e poi di nuovo tra l'85 e l'87 durante l'assedio del movimento sciita «Amal». I 15.000 abitanti del campo di Chatila, palestinesi ma anche immigrati poveri degli altri paesi arabi, non possono far altro che costruire in altezza appoggiando una costruzione all'altra in modo tale che queste, richiudendosi sui vicoli di poco più di un metro, maleodoranti per le acque nere che vi scorrono si sostengano l'una con l'altra. Ne deriva che i bambini non hanno alcun posto dove giocare e vivono in una sorta di permanente penombra, senza sole.

    L'incontro con le famiglie delle vittime e con i sopravvissuti è una delle svariate attività organizzate a Beirut in occasione del ventesimo anniversario della strage, da un coordinamento unitario promosso dal quotidiano della sinistra libanese As Safir, dal Comitato internazionale «per non dimenticare Chatila», dal manifesto e dal coordinamento delle Ong arabe e palestinesi operanti in Libano, che per la prima volta si è formato per commemorare adeguatamente l'uccisione di ben 2.000 profughi palestinesi e cittadini libanesi avvenuta tra il pomeriggio del sedici e la mattina del 18 settembre del 1982. Protagoniste dell'iniziativa anche le forze politiche palestinesi che in questa occasione sono riuscite a mettere da parte distinguo e serie differenze politiche. Del resto la situazione nei campi è così disperata e i pericoli di guerra così vicini che la commemorazione di quest'anno è particolamente sentita in Libano, quasi stesse rivivendo, alla vigilia di una nuova guerra, i prodromi della stessa tragedia. A confermare le paure le destre falangiste filo-israeliane, «protagoniste» di Sabra e Chatila, sono tornate in piazza ieri ad Ashrafie, il quartiere bene loro roccaforte, per ricordare l'uccisione il 14 settembre del 1982 in un attentato di Bechir Gemayel, il loro capo, appena eletto alla presidenza con il sostegno israeliano.

    Il clima in cima alla palazzina di Beit Atfal Assomoud è insostenibile e non solo per il caldo. Una decina di familiari portano le foto dei loro congiunti uccisi o scomparsi e ci mostrano i fogli del catasto dove viene attestata le loro proprietà a Jaffa, Haifa, in Galilea. Sian Balqish racconta poi come, ormai senza più possibilità di fuga, sentì per tutta la notte urla, spari, grida, e nel cielo vide esplodere i bengala che indicavano la strada ai macellai. Una decina di giovani, appena adolescenti, tentò anche di resistere o almeno di ritardare l'avanzata dei killer con l'aiuto di due mitra e tre pistole. Un gesto di resistenza che pur simbolico, ritardò la tabella di marcia dei massacratori e avrebbe potuto salvare la vita di molti se la comunità internazionale avesse fermato la mano del boia Sharon il giorno dell'inizio della mattanza o persino nella notte tra il 17 e il 18. Ma nessuno intervenne. L'importanza di quell'atto dei resistenza sta anche nel fatto che le milizie falangiste da quel momento furono costrette ad usare la armi da fuoco, contravvenendo agli ordini degli ufficiali israeliani e non più solo coltelli e accette, allertando così molti altri abitanti del campo.

    Eppure quasi sino alla fine molte famiglie, chiuse in casa per i bombardamenti israeliani, non capirono cosa stesse succedendo. I falangisti arrivarono alla casa di Sian a Sabra solamente il sabato mattina presto: «Sono scesa in strada con tutti gli altri del mio palazzo e ho visto una quarantina di falangisti con un israeliano che stavano rastrellando gli abitanti della zona attorno al Gaza Hospital. Un dipendente palestinese dell'ospedale si era messo un camice per confondersi con i medici stranieri ma è stato subito scoperto e giustiziato. Ai lati della strada c'era una teoria di poveri corpi torturati e smembrati. Una bimba di pochi mesi era stata schiacciata dai cingoli di un blindato. Un inferno. Le uccisioni non conoscevano sosta. Nei pressi della fossa comune alcuni falangisti costringevano i ragazzi a strisciare da una parte all'altra della strada e quando arrivavano vicino ad un cumulo di sabbia uccidevano che non era stato abbastanza veloce...».

    «Gli uomini caricati sui camion»

    E continua: «Noi donne siamo andate alla città sportiva e li ho visto, oltre ai falangisti anche gli uomini di Haddad (le forze del Libano meridionale create da Israele ndr).e gli israeliani che caricavano gli uomini e i giovani su dei blindati e sui camion e li portavano via». Dove, non si è mai saputo. L'infaticabile opera di ricerca della sociologa Bayan el Hout è riuscita in questi vent'anni, rischiando la vita, a rompere il velo del silenzio e ad individuare i nomi di oltre 1399 vittime della strage ma la stima degli scomparsi, ci dicde allargando le braccia, è ancora più difficile. Ma nel corso dell'ultimo anno, anche grazie ai giornalisti inglesi Robert Fisk e Julie Flint, sono cominciate ad emergere precise testimonianze su centinaia di uomini presi dai falangisti e interrogati dagli agenti israeliani alla «citta sportiva» nei pressi di Sabra e poi misteriosamente scomparsi. Testimonianze assai pericolose per Sharon in quanto se emergessero della prove in merito nel corso del dibattimento in Belgio presso la Corte di Cassazione, la sua responsabilità «indiretta» nel massacro in quanto ministro della difesa e dei suoi generali diventerebbe a questo punto diretta. Inoltre secondo Bayan el Hout il massacro in realtà non sarebbe affatto finito alle otto del mattino del 18 settembre, come sostenuto dalla commissione di inchiesta israeliana presieduta dal giudice Kahan ma almeno sino alle dodici e trentra di quella mattina portando a 43 le ore della macelleria. Senza che nessuno cercasse di fermarla.

    Molti degli scomparsi sarebbero stati uccisi nel pomeriggio di quel giorno, anche donne e ragazze, e in quegli successivi. «Non avete idea degli orrori che ancora non conosciamo» aggiunge piena di indignazione Bayan el Hout. «Nella mia zona - sostiene la signora Masharawi, quasi piangendo- sono scomparsi almeno un centinaio di giovani, gente per bene, che studiava, anche all'estero e che non avevano fatto nulla di male.Anche mio marito scese con i ragazzi in strada mentre io con le bambine sono stata protetta da una famiglia di vicini libanesi che mi hanno accolto nella loro casa. Alcune ore dopo abbiamo cominciato a cercare gli uomini. Gli israeliani ci dissero che li stavano interrogando a Beirut e che sarebbero tornati. Siamo andate dove mi avevano detto ma non abbiamo più trovato nessuno. Alcuni testimoni ci dissero che invece li avevano portati prima all'aeroporto e poi a Beirut est. Non c'è la faccio più a non sapere la verità». Cè anche chi, incredibilmente, spera ancora che i suoi cari siano vivi e che chiede al mondo di conoscere la verità . Tra queste Raja Sdren una delle «madri di Chatila»: «Mio fratello venne portato a Beirut ma di lui non si è saputo più nulla. Poi alcuni mesi fa un parente a Gaza mi ha detto che in una prigione israeliana c'è uno che si chiama come lui. Vorrei andarci ma come faccio? Purtroppo neppure i miei parenti possono più uscire dal loro villaggio e andare a verificare. Non so proprio cosa fare ma ho ricominciato a sperare. Noi siamo di Jaffa, Abbiamo un campo e degli aranceti. Vedi qui ci sono tutti i dati di mio fratello e della nostra proprietà». Così dicendo tira fuori da un pacchettino di cellophane un documento di 54 anni fa del catasto all'epoca britannica e una tessera di suo fratello: «Sai, la rinnovo ad ogni scadenza quando torna potrebbe servirgli».

    il manifesto 15 settembre 2002
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    "Nell'inferno di Sabra e Chatila"

    di Bruno Marolo* - 1986 SUGARCO ed.

    Cominciamo dunque da Sabra e Chatila: La prima strage poteva essere evitata? La forza multinazionale intervenuta nell¹Agosto 1982 per sovrintendere all¹esodo dei combattenti palestinesi lasciò il Libano tra il 10 e il 13 settembre. Il massacro nei campi palestinesi cominciò tre giorni dopo.
    Chi fece partire i soldati, quando si sapeva benissimo che sarebbe stato il diluvio? Chi impedì loro, quando tornarono per far fronte alla nuova emergenza, di fare in modo che a Sabra e Chatila non dovesse scorrere tanto altro sangue? La richiesta ufficiale di intervento di una forza multinazionale di interposizione fu consegnata il 19 Agosto 1982 dal ministro degli Esteri libanese Fuwad Butros agli ambasciatori di Stati Uniti, Italia e Francia.
    Il piano fatto accettare dal mediatore americano Philip Habib a libanesi, palestinesi e israeliani prevedeva l¹intervento di 800 soldati americani, 800 francesi e 400 italiani per garantire l¹ordine durante il ritiro delle forze dell¹OLP da Beirut. Il mandato della forza multinazionale era di un mese, dal 21 Agosto al 21 Settembre, e avrebbe potuto essere rinnovato su richiesta dei libanesi in caso di necessità.
    Tutti i combattenti palestinesi avrebbero dovuto essere partiti entro il 4 Settembre e in seguito la forza multinazionale avrebbe ³collaborato con l¹esercito libanese per portare una sicurezza durevole in tutta la zona di operazioni². Una sicurezza durevole. Era questa la principale condizione su cui aveva insistito il capo dell¹OLP Yasser Arafat, che rinfacciò poi ai paesi garanti di aver mancato ai patti. Nel Luglio 1983, in un¹intervista televisiva che gli feci a Tunisi, mi disse di aver avuto "precise garanzie" per l¹incolumità dei civili palestinesi da Philip Habib.
    Il 17 Settembre dello stesso anno, a Tripoli nel Libano dove era tornato in cerca di fortuna che non ebbe, mi parlò di ³impegni scritti². Ma non aveva documenti da esibire. Vergata nero su bianco c¹era soltanto quella generica promessa di ³sicurezza durevole² che non fu mantenuta. Il primo scaglione della forza multinazionale (347 paracadutisti della legione straniera francese) sbarcò a Beirut il 21 Agosto rispettando il calendario stabilito, e il giorno stesso una nave greca portò qualche centinaio di fedayin verso l¹esilio. Arafat lasciò il Libano a fine Agosto e, dopo un breve scalo in Grecia, arrivò il 3 Settembre a Tunisi, dove il direttore del ministero degli esteri francese Francis Gutman lo aspettava per consultarlo sulle prospettive che si schiudevano in medioriente.
    Il primo Settembre il presidente americano Ronald Reagan aveva annunciato il suo piano di pace: ritiro di Israele dai territori occupati e costituzione in Cisgiordania di una regione autonoma palestinese in "qualche modo associata" con la Giordania. Ero andato anch¹io a Tunisi per raccogliere la prima reazione di Arafat. Ma non era del piano Reagan che egli voleva discutere con Gutman.
    Era preoccupatissimo per la sorte di Sabra e Shatila e supplicò il diplomatico francese di adoperarsi perché la forza multinazionale rimanesse in libano anche dopo il 21 Settembre. "Altrimenti", avvertì, "sarà una carneficina".
    Un fatto nuovo aveva reso più acuto il pericolo.
    Il 23 Agosto il Parlamento libanese, riunito nel settore Est di Beirut controllato dagli israeliani e dai loro alleati falangisti, aveva eletto Beshir Gemayel presidente della repubblica. La scelta era avvenuta prima che la forza multinazionale fosse al completo: i marines americani sarebbero sbarcati soltanto il 25 Agosto e il battaglione dei bersaglieri italiani "Governolo", comandato dal colonnello Bruno Tosetti, li avrebbe raggiunti il 26. In una Beirut ancora preda al caos Israele aveva spinto al potere l¹uomo che per anni aveva armato e sostenuto nella crociata contro l¹OLP.
    Trentaquattro anni, corporatura tozza, una predilezione per le tute mimetiche e un¹abilità notoria nel maneggiare mitra e coltello, Beshir era il figlio più giovane del capo storico falangista Pierre Gemayel e si era affermato come uomo forte del partito. Aveva poche idee ma chiarissime. Una soprattutto: non un solo palestinese armato doveva rimanere nei 10452 chilometri quadrati del Libano. "I palestinesi devono capire", mi diceva in quei giorni uno dei suoi portavoce, che in Libano per loro non c¹è più posto e se partiranno sarà meglio per tutti. Prenderemo in mano la situazione a Sabra e Chatila, questi focolai di sovversione sfuggiti per troppo tempo a ogni controllo². Replicai che stringendo il tizzone ardente anche la mano del potere rischiava di bruciarsi. Risposta: "No, perché sarà una mano di ferro".
    Questo programma spaventava non soltanto i palestinesi, ma gli stessi libanesi musulmani che avevano combattuto contro Beshir. Non mancavano naturalmente i notabili che correvano a giurare fedeltà al nuovo padrone ma neppure i gruppi armati che si preparavano a vendere cara la pelle. Anche dopo la partenza dei fedayin nel settore ovest di Beirut rimanevano milizie potenti: i "Morabitun", nasseriani, gli sciiti del movimento "Amal", i comunisti, i drusi del partito socialprogressista di Walid Jumblat avevano blindati e mortai. Prima di andarsene i palestinesi avevano consegnato loro le armi pesanti. Non era poi detto che le "Forze libanesi" le milizie cristiane di Beshir, avrebbero avuto facilmente partita vinta. Per imporre la sua autorità su Beirut ovest il presidente eletto aveva ancora bisogno dell¹aiuto di Israele: La forza di interposizione gli era d¹intralcio.
    Del resto, neppure i paesi che avevano mandato le truppe erano entisiasti all¹idea di lasciarle ancora a lungo nella gola del lupo. L¹evacuazione delle forze dell¹OLP fu conclusa il primo settembre, in anticipo sul programma stabilito da Philip Habib, e nei giorni successivi i tre contingenti della forza multinazionale preparavano i piani per andarsene tra il 10 e il 16 settembre, una settimana prima cioè della scadenza (rinnovabile) del 21 prevista in origine.
    Mentre la polizia di Beshir Gemayel affilava le armi, anche i più moderati tra i musulmani mostravano di aver paura. Nei quartieri in cui probabilmente ci sarebbe stata battaglia si trovavano le loro famiglie. Il 6 Settembre il primo ministro Shafiq Wazzan e una delegazione di notabili sunniti chiesero ai comandanti della forza multinazionale che rimanessero fino a quando le truppe israeliane non avessero tolto l¹assedio a Beirut. Il 10 Settembre, cedendo alle insistenze dei musulmani, il ministro degli esteri cristiano conservatore Fuwad Butros dichiarò ³Il governo libanese desidera la presenza a Beirut della forza multinazionale almeno fino al 21 Settembre². Era una richiesta ufficiale? ³No², si schermì il ministro, "questo è soltanto il nostro desiderio". Wazzan e Butros erano allora le massime autorità in Libano. Secondo la costituzione, Beshir Gemayel non avrebbe assunto la presidenza fino al 23 settembre, un mese dopo l¹elezione.
    Ma l¹uomo del momento era lui e prevalse la sua volontà. Il rinnovo del mandato della forza multinazionale, ³desiderato² dal governo, non venne chiesto ufficialmente. In questa fase una ferma politica degli Stati Uniti e dei loro alleati europei avrebbe forse potuto evitare il massacro, salvare il Libano e porre le premesse per un negoziato in cui il problema libanese avrebbe potuto essere affrontato insieme con quello palestinese. Bastava che le truppe israeliane si ritirassero di qualche chilometro e la forza multinazionale si assumesse il compito di pacificare Beirut ponendo come condizione il disarmo di tutte le milizie comprese quelle cristiane. Ma nessuno osò prendere l¹iniziativa. Tra il 9 e il 10 Settembre si imbarcarono i marines. Il giorno dopo se ne andarono i bersaglieri e il 13 Settembre anche i francesi presero il largo. Per l¹invasione di Beirut ovest il campo era libero. ³Nei prossimi giorni assisterete a un bello spettacolo, una cosa veramente grossa², confidò Beshir a un giornalista suo amico. Le milizie cristiane si concentrarono a Shweifat, sulla collina che domina l¹aeroporto di Beirut.
    Ai loro piedi si stendevano, facile preda, i campi di Sabra e Chatila indifesi dopo la partenza dei fedayin. Anche la forza multinazionale che avrebbe potuto e dovuto difenderli se n¹era andata. Il 12 Settembre le ³Forze libanesi² cominciarono ad ammassare a Shweifat non soltanto i camion per il trasporto delle truppe ma anche i bulldozer che sarebbero serviti per demolire i campi e scavare le fosse comuni. Beshir Gemayel sapeva, allora, in quale spaventosa strage di innocenti si sarebbe risolta la conquista di Sabra e Chatila? Se anche egli aveva pianificato il massacro, non visse abbastanza per vederlo. Il 14 Settembre una carica di tritolo esplose nella roccaforte cristiana di Ashrafie ed egli fu tra i ventuno morti. Scoperto ed arrestato dalle "Forze libanesi" una settimana dopo, l¹attentatore, Habib Shartuni, confessò di appartenere al ³Partito social nazionalista siriano², un movimento libanese collegato con Damasco, e di aver agito in nome dei suoi ³ideali politici². Soltanto con il tempo sarebbero emersi i particolari della congiura. Il padre di Shartuni, un cristiano nemico dei falangisti, era stato ucciso dalle squadre di Beshir Gemayel nei primi anni della guerra civile. Nel 1979 il giovane Habib chiese udienza a Beshir. ³Mio padre è morto², gli disse, e io non so dove andare.
    Sono libanese come voi, cristiano come voi. Lasciate che torni ad abitare ad Ashrafie"² Ashrafie è il quartiere cristiano di Beirut: All¹inizio della guerra civile le falangi dei Gemayel avevano cacciato dapprima i musulmani e i drusi, poi chiunque osasse manifestare un¹idea diversa dalla loro. La famiglia Shartuni possedeva qui un alloggio nello stesso edificio in cui era la direzione delle "Forze libanesi". Tra gli inquilini non avrebbe mai dovuto infiltrarsi un dissidente, per elementari ragioni di sicurezza. Ma Beshir Gemayel ebbe uno dei suoi slanci di paternalismo e prese il figlio del nemico morto sotto la sua protezione. Habib Shartuni andò ad abitare con la sorella un piano sotto l¹ufficio di Gemayel e cominciò subito a preparare l¹attentato. Aveva giurato di vendicare il padre e insieme decapitare le "Forze libanesi". Cento grammi per volta, superando i controlli delle guardie di Beshir che cominciavano a conoscerlo bene e a fidarsi di lui, portò l¹esplosivo in casa fino a metterne insieme 25 chili. Un lavoro durato tre anni. Il ³Partito social nazionalista siriano² gli aveva procurato un detonatore con radiocomando di fabbricazione giapponese, abbastanza perfezionato perché le onde della radio falangista, che trasmetteva dallo stesso quartiere, non provocassero l¹esplosione nel momento sbagliato. Quando Beshir Gemayel venne eletto presidente, Habib Shartuni decise di agire.
    Bisognava liberare il Libano dal dittatore prima che fosse troppo tardi. Da un bar presso casa telefonò alla sorella, l¹attirò fuori con un pretesto per salvarle la vita e fece scoppiare la bomba. La morte del presidente eletto fece precipitare la situazione. La mattina dopo, 15 Settembre, le truppe di Israele invasero Beirut ovest. Il 16 Settembre il generale israeliano Amir Drori, comandante del fronte nord, ricevette in un ufficio del porto di Beirut il nuovo capo delle "Forze libanesi" Fadi Frem e il responsabile dei servizi speciali Elias Hobeika. Venne deciso di affidare ad Hobeika il comando dell¹operazione a Sabra e Chatila. Da Shweifat, le "Forze libanesi" scesero verso l¹aeroporto occupato dagli israeliani e da qui raggiunsero Beirut attraversando il sobborgo sciita di Uzay. Per segnalare la strada avevano tracciato ai crocevia, dove sarebbe rimasto visibile per molti mesi, il loro simbolo: un triangolo inscritto in un cerchio. Alle cinque di sera del 16 Settembre entrarono in Sabra e Chatila.
    Veniva buio e gli israeliani dai bordi dei campi sparavano razzi illuminanti per facilitare l¹irruzione. Alle sette un gruppo di donne palestinesi corse achiedere aiuto ai soldati del generale Drori, uno dei quali avrebbe poi testimoniato davanti alla commissione d¹inchiesta: ³Le donne gridavano che i falangisti stavano ammazzando la gente a caso. Avvertii i miei ufficiali ma mi risposero che era tutto in regola"² Una prima ondata di civili in fuga si riversò nella "foresta dei pini", un parco che era l¹orgoglio della città prima di essere ridotto dalle bombe israeliane ad una distesa di tronchi senza vita. Fu qui che si diffusero le prime notizie del massacro. Un giovane palestinese, Zakaria Sheikh, soccorse una donna piangente e da lei seppe quello che stava avvenendo. Sull' unica grande strada, sempre piena di polvere o fango, che attraversa Chatila c¹era il negozio di bicicletta di un tale Abu Walid Harb.
    La donna abitava nella baracca accanto. Il marito e il figlio più grande si erano messi in salvo qualche ora prima, quando era giunta voce che stavano arrivando le milizie cristiane. Ma lei era rimasta, con il figlio più piccolo. Gli arabi, in genere, non ammazzano donne e bambini. Sono le mogli che restano a custodire la casa quando gli uomini scappano. Una legge non scritta della guerra impone di rispettarle. Ma quella sera le ³Forze libanesi² volevano vendicare Beshir Gemayel e non avevano più legge.
    Quando tre miliziani sfondarono la porta, la donna strinse più forte il bambino, come cercando di nasconderlo tra le vesti. Un uomo l¹afferrò per il collo mentre gli altri le strappavano il figlio dal petto. Ridevano. Sbatterono il bambino in un angolo e presero la mira con i fucili. ³Non uccidetelo², gridò la donna, ³per amor di Dio, no!². Si buttò avanti per ripararlo con il suo corpo, fu ricacciata con il calcio del fucile nel petto. E ridevano. Il bambino cominciò a strisciare, piano paino, tremando, verso la madre. Uno dei tre miliziani l¹afferrò per un piede, come si afferra un pollo, e lo ributto nell¹angolo. ³Uccidete me invece², gridava la donna, "in nome di Dio, pietà". "No, è lui che vogliamo. Tra pochi anni diventerebbe un terrorista". Adesso non ridevano più. Il bambini gridava "Mamma, mamma" quando una raffica gli crivellò il corpo. Nella stessa strada abitava il vecchio Abu Diab con la figlia di diciassette anni, Aida.
    Pensava di non aver nulla da temere perché era cristiano. Palestinese, ma cristiano. La sua morte ebbe una testimone, Umm Wisam, una vecchia che viveva nella stanza accanto e che nascosta dietro un mobile in cucina, udì, attraverso una parete sottile, lo schianto della porta sfondata e subito dopo una raffica di mitra. Alcuni proiettili bucarono il muro. Anche qui gli intrusi ridevano. Ci fu un rumore come di lotta, ma come avrebbe mai potuto lottare il settantenne Abu Diab contro un manipolo di miliziani in armi?
    Poi un grido, inconfondibile, e allora Umm Wisam capì: stavano violentando Aida, Aida che adesso gemeva debolmente mentre il padre ripeteva con voce bassa e fremente un¹unica frase: "Dio vi maledica". Un nuovo urlo, terribile, si spense tra il crepitare di altre raffiche. Un breve, profondo silenzio sullo sfondo del cannone che in lontananza continuava a tuonare, poi i passi dei miliziani che se ne andavano. Umm Wisan osò uscire soltanto il giorno dopo, quando ormai le milizie si erano spostate verso altri quartieri di Sabra e Shatila. Il corpo di Abu Diab era sull¹uscio, braccia e gambe legate, un grande squarcio sulla spalla sinistra, vicino al collo.
    Lo squarcio di un¹accetta. Aida, seminuda, stava sul pavimento, il petto e il collo profondamente graffiati, due fori di pallottola vicino al cuore. La vecchia cercò di ricomporle le vesti e soltanto allora si accorse che dal ventre spuntava il manico di una baionetta. Dal tetto di un caseggiato che domina Chatila gli ufficiali israeliani seguivano l¹operazione. Per tutta la notte e per tutto il giorno seguente le ³Forze libanesi² si abbandonarono ad un macello sistematico. Mentre alcune compagnie procedevano al rastrellamento, altre bivaccavano in un edificio abbandonato presso l¹ambasciata del Kuwait pronte a dar loro il cambio.
    Gli israeliani fornivano i viveri: sul posto venne poi trovato un mucchio di scatolette di carne con le etichette in caratteri ebraici. I palestinesi in età di portare un¹arma venivano concentrati in uno stadio in rovina al margine di Chatila.
    Molti vennero uccisi prima di arrivarci. I morti venivano seppelliti nei crateri aperti dalle bombe dell¹aviazione durante l¹estate e coperti dalla terra smossa dai bulldozer. Molti non vennero più ritrovati. Selma, tredici anni, è scampata per caso al massacro. "Eravamo in cinque", racconta, "mio padre, mia madre, mio fratello, la nonna ed io. Rimango soltanto io.
    Era la sera del 16 Settembre. Stavamo da ore nascosti in un rifugio e siamo usciti perché non potevamo più respirare. I falangisti scendevano dalle dune al bordo del campo di Chatila. La mia gente è corsa loro incontro, agitando fazzoletti bianchi e implorandoli di non sparare. Hanno cominciato a far fuoco sugli uomini. Poi, anche sulle donne e i bambini. Mi sono nascosta in un gabinetto e di lì ho visto ammazzare la mia famiglia e quasi tutti i miei vicini. "Il quartiere veniva rastrellato casa per casa. Gli uomini venivano uccisi subito, le donne e i bambini venivano portati in uno spiazzo, davanti a casa mia. A un certo punto ho messo il naso fuori dalla finestra e un falangista mi ha sparato, senza colpirmi. Poi ha detto a una vicina di venirmi a chiamare. Ero stata chiusa cinque o sei ore nel gabinetto, soffocavo. Sono uscita nel buio e il falangista ha puntato una torcia elettrica per vedere se ero una ragazza o un ragazzo. ³Sei palestinese?", ha gridato, "voi palestinesi volevate rubarci il Libano". "Sullo spiazzo c'era la famiglia di mio zio. Mio cugino di nove mesi piangeva.
    Il falangista ha gridato: "Perché piange? Mi ha rotto le scatole", e gli ha sparato in una spalla. Io ho supplicato di risparmiarlo e allora lui lo ha afferrato per una gamba e con una baionetta lo ha ucciso. "In qul momento è arrivato mio zio Feisal. Un tipo picchiatello, che rideva o parlava da solo, oppure si metteva a cantare all¹improvviso. Ho implorato i falangisti che non gli sparassero: "Avete ucciso tutta la mia famiglia, mi resta soltanto lui". Siamo rimasti così tutta la notte, mentre i razzi illuminanti esplodevano alti sopra di noi. "Al mattino sono arrivati camion e furgoni per raccogliere i cadaveri. I falangisti hanno detto a mio zio Feisal di aiutarli. Tra i mucchi di corpi senza vita Feisal ha trovato sua madre. Per tutta la notte aveva canterellato senza capire cosa stava succedendo ma allora si è messo a piangere, perché sua madre era morta. ³Hanno portato i cadaveri nello stadio e li hanno messi nelle buche scavate dai bombardamenti aerei di quell¹estate. Poi hanno condotto nello stadio anche noi e ci hanno detto di aspettare.
    Ci hanno tenuto lì fino alla mattina di sabato 18 Settembre. Ho visto un bambino di due anni, figlio dei miei vicini, sepolto vivo sotto il corpo di sua madre. L¹ho tirato fuori, ho trovato una coperta e gliel¹ho buttata addosso. Non so cosa ne è poi stato di lui. ³Il sabato i falangisti se ne sono andati ordinandoci di non muoverci. Dopo un po¹ sono scappata, ho chiesto aiuto ad alcuni soldati israeliani, che mi hanno portata verso il centro con un¹auto e mi hanno lasciata andare. Ho dormito nel parco dell¹Università americana. Domenica sera sono tornata a Chatila, con altri vicini, per cercare le nostre famiglie.
    Le strade del campo erano coperte di cadaveri. Sono tornata a casa. Ho trovato mio zio Feisal, quello che li aveva aiutati a raccogliere i corpi dei morti. Prima di andarsene avevano ammazzato anche lui." La notizia della strage cominciò a circolare venerdì 17 Settembre e alcune ambasciate informarono i loro governi. Le "Forze libanesi" adesso dovevano fare in fretta. Spararono allora su tutto ciò che ancora si muoveva a Chatila, alla rinfusa, senza più curarsi di raccogliere i cadaveri che rimasero accatastati nella polvere dei vicoli. Intanto altri reparti rastrellavano i quartieri di Sabra e Fakhani, ammassando centinaia di prigionieri tra le macerie dello stadio bombardato presso i campi palestinesi.
    Di questi ostaggi non si sarebbe saputo più nulla: soltanto una parte venne ritrovata nelle fosse comuni. La mattina di sabato 18 Settembre l¹operazione era conclusa. Un plotone di soldati israeliani entrò finalmente in Sabra e Chatila. Fece cessare la strage ma lasciò che gli assassini se ne andassero per la strada da cui erano venuti portando con loro i prigionieri. Nessuno saprà mai il numero esatto dei morti: 460 secondo l¹inchiesta ufficiale libanese, duemila secondo le valutazioni dei superstiti. Le fosse comuni scavate dalle "Forze libanesi" non vennero mai più aperte. L¹esercito libanese, che intervenne qualche giorno dopo, si limitò a sgomberare in fretta e furia i corpi rimasti insepolti a Chatila: soprattutto libanesi sciiti, uccisi a caso dalle milizie ebbre d¹odio. La preoccupazione principale dei soldati libanesi non era certamente di far luce sul massacro. L'ordine era di distruggere il maggior numero possibile delle baracche i cui abitanti erano morti o scappati, prima che fossero riparate e servissero a perpetuare l¹odiata presenza palestinese. La strage di Sabra e Chatila raggiunse lo stesso effetto che i terroristi israeliani avevano attenuto 35 anni prima a Deir Yassin, un villaggio della Palestina i cui abitanti furono fatti a pezzi dai seguaci del futuro primo ministro Menachem Begin.
    I superstiti fuggirono atterriti lasciando il campo libero ai conquistatori. Soltanto donne e bambini troppo poveri per sapere dove andare rimasero accampati tra le rovine. Ed erano loro, testimoni che l¹inchiesta ufficiale non volle mai ascoltare, a raccontare che sotto le case demolite dai militari, sotto il terreno spianato dai bulldozer, erano rimasti molti cadaveri che nessuno aveva interesse a contare. I corpi recuperati venivano gettati in una buca all¹ingresso di Chatila, presso l¹unica fontana cui le donne del campo potevano allora attingere l¹acqua. Soltanto dopo l¹insurrezione dei musulmani di Beirut ovest nel Febbraio 1984 fu costruita qui una sorta di sacrario. Finchè la forza multinazionale, tornata dopo il massacro, rimase a Beirut per sostenere le autorità libanesi, queste non permisero che fosse posta una lapide sulla fossa comune, riconoscibile perché la terra ammucchiata in fretta sui morti formava una montagnola. Le delegazioni parlamentari europee che durante quel periodo venivano a spendere belle parole di circostanza sulla tragedia del popolo palestinese non mancavano mai di farsi scortare fino a questo Monte Calvario che per gli stranieri era diventato quasi un¹attrazione turistica. Ma i passanti libanesi non lo degnavano di uno sguardo e se i bambini palestinesi, che avevano madri e fratelli sottoterra, volevano ogni tanto portare un fiore, dovevano farlo prima dell'¹lba, quando ancora non circolavano le pattuglie dell¹esercito libanese sempre solerti nel reprimere questi atti sediziosi. L¹inchiesta ufficiale fu affidata al procuratore militare Asaad Germanos. Il massacro, secondo i testimoni, era stato compiuto da 1500 uomini che parlavano il dialetto di Beirut e indossavano l¹uniforme delle ³Forze libanesi². Beirut non è così grande da rendere impossibile l¹identificazione, tanto più che le indicazioni dei superstiti erano precise: tra gli assassini si erano distinti i reparti dei comandanti Elias Hobeika, Dib Anastas, Joe Edde, Pussy Ashar. Ma quando gli domandai se avrebbe interrogato questi personaggi, il magistrato rispose con altera dignità: ³Non posso lasciarmi influenzare dalle voci². No, il procuratore Germanos non andò a Sabra e Chatila, e i palestinesi superstiti che dalla "legalità" libanese avevano tutto da temere si tennero ben lontani dal suo ufficio. Dimostrarono maggior zelo gli inquirenti israeliani della commissione Kahane, che a un certo punto vennero anche a Beirut per documentarsi. Ma a loro interessava soltanto accertare le responsabilità morali del primo ministro Begin e del generale Sharon, ministro della Difesa. I nomi degli esecutori materiali dell¹eccidio non vennero mai resi pubblici nemmeno in Israele, con grande sollievo degli interessati. Il giorno in cui fu presentato il rapporto della commissione Kahane, nei quartieri cristiani di Beirut molta gente era incollata alla radio, per sapere se sarebbero stati pronunciati certi nomi. A Sabra e Chatila trovai invece l¹indifferenza più assoluta. Nessuno, letteralmente nessuno, aveva sentito le notizie. "E a noi che importa se Sharon perderà il posto?" mi disse la gente del campo. "Le sue dimissioni non faranno rivivere i nostri morti e nemmeno daranno a noi che siamo vivi una casa decente, un luogo dove stabilirci sicuri che domani non saremo noi ad essere scannati². Parole profetiche, perché alcuni tra i palestinesi che interpellai quel giorni sarebbero poi stati messi a morte dagli sciiti.
    Il 21 Giugno 1983 anche il procuratore Germanos concluse la sua inchiesta con un¹affermazione meravigliosamente levantina: Israele veniva indicato come responsabile morale del massacro del quale non si trovavano gli esecutori materiali. Né il partito falangista né le ³Forze libanesi² che ne sono l¹organizzazione militare, sostenne il procuratore, avevano dato ai miliziani l¹ordine di fare una strage. Era dunque impossibile distinguere fra "azioni di guerra" e "crimini individuali" e il verdetto fu di non luogo a procedere.
    Da quel momento in Libano di Sabra e Chatila non si parlò più. La stampa locale rispettò la consegna del silenzio, quella straniera venne censurata. Soltanto una volta, nel Settembre 1983, mentre già infuriava la rivolta dei musulmani e dei drusi contro il regime, il muftì sciita Abdel Amir Kabalan, una delle massime autorità religiose, sbottò durante una predica: "Se il governo avesse perseguito i colpevoli delle stragi con lo stesso impegno messo nel censurare la stampa che ne parlava, ora non ci sarebbero nuovi massacri in tutto il Libano." Nuove guerre insanguinano oggi la bolgia libanese. La strage di Sabra e Chatila è quasi dimenticata, come tante altre in questa parte del mondo: la "Quarantena" di Beirut, Tell Ez Zaatar, Damur, Hama in Siria, nomi a cui il tempo ha tolto ogni significato.
    Ma forse i soldati italiani che per diciassette mesi hanno montato la guardia presso la fossa comune non dimenticheranno tanto presto. Erano tornati in Libano all¹indomani di Sabra e Chatila per difendere i superstiti, vennero coinvolti nel sostegno di un regime che arrestava e torturava le vittime, e proteggeva gli assassini.

    *Bruno Marolo, giornalista italiano, è stato testimone degli eventi più drammatici prima come inviato della "Gazzetta del Popolo" di Torino e poi come corrispondente dell¹Ansa. Inviato in Libano nel 1973 ha assistito nell¹ottobre seguente alla guerra arabo-israeliana sul fronte del Golan. Nel 1980 ha assunto la direzione, a Beirut, dell¹ufficio di corrispondenza dell¹Ansa per il Libano e il Medio oriente. Nel 1985 gli è stato assegnato il premio Ischia per i servizi sulle stragi di Sabra e Chatila

  7. #7
    Roderigo
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    1982-2002: Sabra e Chatila

    by Niquinohomo Tuesday September 10, 2002 at 04:28 PM
    http://italy.indymedia.org/news/2002/09/80157.php

    Ricordiamo il percorso che portò al massacro di Sabra e Chatila di cui il 16 settembre ricorrono i venti anni. Riprendere le file di questa vicenda è molto più che un'operazione di memoria storica, in un momento in cui la linea politica di Ariel Sharon, uno dei protagonisti della vicenda, sta conducendo un'offensiva contro il popolo palestinese che per certi versi ricorda molto le dinamiche dell'operazione che portò a Sabra e Chatila.

    La verità su Sabra e Chatila è, a grandi linee, nota da tempo, grazie alle testimonianze dei sopravvissuti ed al lavoro di giornalisti, storici, associazioni, familiari delle vittime, gruppi pacifisti ecc.. Anche i nomi e le responsabilità sono note, e con tanto di prove. Nonostante questo, nessuno fino ad oggi è mai stato condannato o inquisito per Sabra e Chatila. Anzi, sia Sharon che i capi delle milizie falangiste che perpetuarono materialmente in passato hanno goduto e continuano a godere di fortuna politica, e hanno ricoperto cariche importanti in Libano e Israele.

    un passo indietro: La guerra in libano

    Per capire la strage di Sabra e Chatila è necessario fornire alcuni dettagli minimi sulla situazione in libano nel 1982. In quell'anno il Libano è già da sette anni attraversato da una sanguinosissima guerra civile fomentata da interessi geopolitici esterni al paese. In primis, quelli della Siria e di Israele. Sullo sfondo la guerra fredda e il conflitto USA-URSS. Le cause scatenanti della guerra erano sostanzialmente di natura etnico-religiosa; dalla data della sua indipendenza (1943), in Libano vigeva un singolare accordo (il "patto nazionale") che sanciva la divisione dei poteri fra le due comunità principali, quella cristiana maronita e quella musulmana, che storicamente avevano sempre avuto pochi contatti fra di loro - la cosa era evidente anche nella separazione in due della città di Beirut, con ad est il quartiere cristiano, a ovest quello musulmano.

    Il "patto nazionale" prevedeva una formale spartizione delle cariche istituzionali: il presidente dello stato doveva essere un cristiano, il primo ministro un sunnita, il presidente del parlamento uno sciita. Questo equilibrio, già fragile, fu di molto incrinato dall'arrivo in massa di profughi palestinesi, che si stabilirono in Libano sin dal 1948 e, soprattutto, dopo l'annessione della Cisgiordania da parte di Israele nel 1967. In seguito agli avvenimenti di "settembre nero" del 1970 - quando re Hussein cacciò con la forza dalla Giordania tutti i combattenti palestinesi - anche l'OLP trasferì a Beirut le sue sedi logistiche.

    La presenza dell'OLP in territorio Libanese iniziò un'escalation di scontri fra i palestinesi e buona parte della comunità cristiana, organizzatasi nel frattempo in formazioni paramilitari denominate falangi - ora diventate un partito politico. Il conflitto fu subito strumentalizzato da Israele, vide quello scontro come un'occasione per liberarsi dell'OLP, e dalla Siria, che inviò delle truppe in Libano con lo scopo di estendere la sua egemonia su quel paese, cercando di compensare ai danni di quel paese la perdita delle alture del Golan. A complicare la situazione ci si mise anche il conflitto USA - URSS, che iniziarono ad appoggiare rispettivamente le forze militari Siriane ed Israeliane.

    L'intervento di Israele in Libano

    Con questo scenario, nella realtà molto più complicato di quanto descritto sopra, si arriva all'intervento Israeliano in Libano nel 1982. La causa occasionale fu il tentato assassinio dell'ambasciatore Israeliano Argov avvenuto a Londra il 4 giugno 1982. Attribuito dal mossad a un'organizzazione palestinese dissidente, il fatto fornì il pretesto per lanciare la cosiddetta operazione "Pace in Galilea", in realtà già preparata da molto tempo.

    Originariamente, l'operazione prevedeva un incursione in territorio libanese di soli 40 km. Ma Ariel Sharon, attuale primo ministro di Israele e a quel tempo ministro della difesa, decise di continuare l'offensiva fino a Beirut, a quanto pare - ma le circostanze di tutta la vicenda rimangono oscure - senza consultare né il primo ministro Begin né altri membri del governo. Dopo due mesi di assedio Israeliano su Beirut - che costò 18000 morti e 30000 feriti, in maggioranza civili - e la consapevolezza da parte Israeliana che un intervento all'interno della città sarebbe stato un suicidio sia militare che politico, si aprì la strada ad una soluzione negoziale.

    Il 19 agosto il ministro degli esteri libanese richiese ufficialmente l'intervento di una forza multinazionale di interposizione. Secondo il piano messo a punto dal mediatore statunitense Philip Habib, le forze dell'OLP sarebbero state evacuate da Beirut entro il 4 settembre, sotto la protezione di un contingente neutrale composto da 800 soldati americani, 800 francesi e 400 italiani, che sarebbe rimasta in Libano fino al 21. Le operazioni si svolsero senza problemi del previsto, e tutti i componenti dell'OLP avevano già lasciato il Libano per il primo settembre. Il contingente multinazionale lasciò invece il paese il 10, in anticipo rispetto al calendario stabilito.

    Sharon e Gemayel preparano la strage

    La sorte di Sabra e Chatila probabilmente si decide in questi giorni. Giorni prima, per l'esattezza il 23 agosto, il parlamento libanese aveva eletto il nuovo presidente. Si trattava di Beshir Gemayel, cristiano e uno dei leaders delle falangi, uomo forte gradito ad Israele il cui piano, neanche troppo nascosto, era quello di cacciare via dal territorio libanese tutti i palestinesi ed, eventualmente, anche creare un Libano cristiano indipendente sul "modello" della creazione di Israele .In quel periodo, molti cristiani ritenevano la loro situazione uguale a quella degli ebrei nel 1948, e si aspettavano una soluzione del genere, con la creazione di uno stato Libanese cristiano e la cacciata della popolazione araba.

    Nonstante ufficialmente il suo mandato iniziasse il 23, Gemayel aveva già deciso di muoversi; fece pressioni perché la forza multinazionali di interposizione partissero il prima possibile e il 12 settembre incontrò lo stesso Ariel Sharon, che due giorni prima aveva dichiarato che in Libano rimanevano ancora 2000 "terroristi" palestinesi - alludendo agli inermi abitanti di Sabra e Chatila. Negli stessi giorni si assistette ad una grande concentrazione delle milizie cristiane in punti strategici intorno al campo. E anche di Buldoozer, che sarebbero stati usati per demolire le abitazioni e scavare le fosse comuni.

    Il 14 avvenne un altro colpo di scena. Gemayel rimase ucciso in un attentato compiuto da un certo Habib Shartuni, un libanese cristiano collegato con un movimento dissidente che dichiarò di aver agito per vendicare il padre, ucciso dalle milizie di Gemayel. In seguito si tenterà di coprire le responsabilità del massacro facendo passare l'irruzione delle milizie falangiste come un moto di rabbia causato dall'uccisione di Gemayel. In realtà, come mostrano le circostanze riportate sopra, la strage era già stata preparata durante i colloqui che lo stesso Sharon ammise di aver avuto con Gemayel e con altri esponenti dei falangisti.

    L'irruzione dentro Sabra e Chatila

    Il 15 settembre Sharon dette ordine alle truppe israeliane di non entrare nel campo, e contemporaneamente si istallò personalmente assieme ai vertici militari israeliani nel palazzo dell'ambasciata del Kuwait, dalle cui finestre si può osservare chiaramente il campo di Sabra e Chatila. L'esercito Israeliano, inoltre, iniziò a circondare il campo impedendo a chiunque di uscire e prese il controllo di tutti i punti strageci de Beirut ovest (la parte musulmana della città).

    Il 16 alle cinque del pomeriggio le truppe falangiste iniziarono ad entrare nel campo, che per tutta la durata della strage rimase circondato dall'esercito israeliano, perennemente informato della situazione e che dette sostegno logistico alle falangi sparando per tutta la notte granate illuminanti per facilitarne il lavoro. Per 40 ore le truppe falangiste poterono dunque compiere indisturbate la loro missione punitiva nei confronti degli abitanti del campo, completamente abitato da popolazione civile. Alla fine il bilancio sarà pesantissimo: centinaia le abitazioni distrutte e un conto delle vittime oscillante fra 700 (secondo la versione Israeliana) e 3500 (secondo fonti indipendenti), ma molte delle vittime furono deporate e uccise al di fuori del campo, e dunque il bilancio finale è molto incerto.

    Si possono leggere alcune testimonianze del massacro qui: http://www.indictsharon.net/massacres.shtml#testimonies

    La reazione in Israele

    La notizia della strage provocò una forte ondata di reazione in tutto il mondo, e provocò in Israele una crisi politica senza precedenti. Fu indetta per il 25 settembre una manifestazione a Tel Aviv, alla quale parteciparono circa 400000 persone. Negli scontri che seguirono, un manifestante rimase ucciso. Dopo vari giorni di proteste continue all'interno del paese, la Knesset dovette nominare una commissione di inchiesta presieduta dal presidente della corte suprema Yzthak Kahan. La commissione, pur riconoscendo le responsabilità morali di Sharon, pubblicò una relazione che tendeva a minimizzare di molto i fatti. L'unica conseguenza fu che Sharon dovette dimettersi dall'incarico di ministro della difesa, ma conservò comunque un posto all'interno del governo come ministro senza portafoglio. La sua carriera politica non ne era uscita più di tanto compromessa. Solo ultimamente una corte belga sta cercando di aprire un procedimento a suo carico per la strage di Sabra e Chatila.

    Puoi trovare qui il testo della relazione della commissione di inchiesta: http://www.israel-mfa.gov.il/mfa/go.asp?MFAH0ign0

    L'impunità totale continua anche per gli altri protagonisti del massacro. In Libano la vicenda fu subito rimossa dalla memoria collettiva, e nonostante i nomi di chi perpetuò materialmente il massacro siano noti da sempre non fu mai aperta nessun inchiesta. Molti dei capi falangisti godettero anche di una certa fortuna politica dopo la fine della guerra civile. Compreso Elias Hobeika, uno dei comandanti delle milizie più in vista, che divenne ministro in Libano negli anni '90 e che è stato ucciso in un attentato il 24 gennaio scorso. Proprio dopo aver manifestato la sua intenzione di testimoniare contro Sharon nella causa intentata in Belgio proprio per i fatti di Sabra e Shatila. In Israele, l'inchiesta condotta dal procuratore Germanos individuò alcune responsabilità "morali" da parte dell'esercito Israeliano, ma affermò l'impossibilità di distinguere fra azioni di guerra e crimini individuali. Nessuna persona fu dunque inquisita, e l'inchiesta fu archiviata.

    Molti documenti su Sabra e Chatila sono ancora coperti da segreto militare, e Israele si è sempre rifiutata di renderli pubblici. L'ultima richiesta in questo senso è stata respinta dalla corte suprema lo scorso 16 luglio.

    Fonti:

    http://www.geocities.com/indictsharon/Kapeliouk.doc la cronologia del massacro, come ricostruita dal giornalista israeliano Lapeliouk (inglese)
    http://www.sabraandchatila.org.uk comitato inglese per mettere sotto accusa Sharon (inglese)
    http://www.indictsharon.net indict sharon: sito che dà informazioni sulla causa promossa contro sharon (inglese)
    http://www.crif-grenoble.org/revue%2...se/art0045.htm (francese)
    http://www.tmcrew.org/int/palestina/...brachatila.htm nell'inferno di sabra e chatila (da tmcrew)
    http://www.cinemah.com/neardark/index.php3?idtit=854 scheda del film Sharon, l'accusato (italiano)

  8. #8
    Roderigo
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    Sabra e Chatila, il massacro. Anche israeliano

    reportage di Robert Fisk

    SANA SERSAWI parla con cautela, voce ferma, ma con molte pause, mentre ricorda gli eventi caotici, pericolosi e disperatamente tragici che le accaddero poco più di diciannove anni fa, il 18 settembre del 1982. Come sopravvissuta preparata a testimoniare contro il primo ministro Ariel Sharon, allora ministro della difesa israeliano, si ferma per un attimo alla ricerca, nella sua memoria, dei momenti più terribili della sua vita.
    "I miliziani delle forze libanesi ci trascinarono via dalle nostre case e ci portarono all'entrata del campo, dove era stata scavata un'enorme fossa. Dissero agli uomini di entrarci. Allora i miliziani spararono a un palestinese. Le donne e i bambini avevano camminato sui cadaveri per arrivare fino a quel punto, ma restammo davvero scioccati nel vedere quell'uomo assassinato di fronte a noi, e ci fu un'esplosione di urla delle donne. Fu allora che udimmo, negli altoparlanti, la voce degli israeliani che diceva 'Dateci gli uomini, dateci gli uomini'. Pensammo: 'Grazie a Dio siamo salvi'". Avrebbero scoperto che era una speranza falsa e crudele.

    Sersawi, incinta di tre mesi, vide suo marito trentenne, Hassan, e suo cognato, l'egiziano Faraj el-Sayed Ahmed, fermi tra la folla. "Dissero a tutti di camminare verso l'ambasciata del Kuwait, le donne e i bambini davanti, gli uomini dietro. Ci separarono. C'erano miliziani falangisti e soldati israeliani che camminavano ai lati. Riuscivo ancora a vedere Hassan e Faraj. Era come una sfilata. Eravamo centinaia. Quando arrivammo alla Città sportiva, gli israeliani raccolsero noi donne in una grande stanza di cemento e portarono gli uomini dall'altro lato dello stadio. C'erano molti uomini del campo, e non riuscivo più a vedere mio marito. Gli israeliani ci dicevano 'Sedute, sedute'. Erano le 11 di mattina. Un'ora più tardi ci dissero di andare via. Rimanemmo all'esterno, in mezzo ai soldati israeliani, ad aspettare i nostri uomini".
    Sana Sersawi aspettò sotto il sole cocente che apparissero Hassan e Faraj. "Alcuni uomini uscirono, nessuno al di sotto dei 40 anni, e ci dicevano di essere pazienti, che ancora c'erano centinaia di uomini dentro. Allora, verso le quattro del pomeriggio, uscì un ufficiale israeliano. Aveva occhiali da sole e ci disse in arabo: 'Che aspettate?'. Disse che non c'era più nessuno, che se ne erano andati tutti. C'erano camion israeliani che partivano carichi di bitume. Non potevamo vedere all'interno. E c'erano jeep, bulldozer e carri armati che facevano molto rumore. Restammo ancora lì e fece scuro, sembrava che gli israeliani stessero per andare via e diventammo molto nervose. Quando gli israeliani se ne andarono, entrammo. E non c'era nessuno. Nessuno. Ero sposata da appena tre anni. E non ho più rivisto mio marito".

    Gli occhi del mondo sono rivolti in questo momento all'Afghanistan, ma mercoledì [5 dicembre, ndr] un tribunale belga inizierà a esaminare un caso che ha molti scomodi parallelismi con l'attualità. Una legge promulgata nel 1993, consente ai tribunali belgi di giudicare cittadini stranieri per crimini contro l'umanità commessi all'estero; l'udienza di questa settimana dovrebbe decidere se Ariel Sharon può essere o meno processato per i massacri di Sabra e Chatila. E nella preparazione di questo caso emergono nuove prove impressionanti.

    Lo stadio dell'incubo

    Molte di queste prove riguardano lo stadio sportivo Camille Chamoun, la "Città sportiva". A soli tre chilometri dall'aeroporto di Beirut, quello stadio maledetto era un luogo ideale per tenere i prigionieri. Era stato un deposito di munizioni dell'Olp di Yasser Arafat e venne bombardato a più riprese dagli aerei israeliani durante la conquista di Beirut nel 1982, così che il suo gigantesco e distrutto interno sembrava le fauci di un incubo. I palestinesi avevano minato il suo interno cavernoso, ma il suo enorme spazio di magazzini sotterranei e gli spogliatoi degli atleti erano rimasti intatti. Era un punto di riferimento conosciuto a tutti gli abitanti di Beirut.
    A metà mattinata, il 18 settembre 1982 - all'incirca alla stessa ora in cui Sana Sersawi dice di essere stata portata allo stadio - vidi centinaia di prigionieri palestinesi e libanesi, forse più di mille, seduti nel suo deprimente e buio interno, sorvegliati dai soldati israeliani, da agenti dello Shin Beth in abiti civili, e da un gruppo di uomini che sospettai essere collaboratori libanesi. Gli uomini stavano seduti in silenzio, chiaramente provati. Notai che di quando in quando ne prelevavano qualcuno. Li facevano salire su camion dell'esercito israeliano o su veicoli dei falangisti, per portarli a "più approfonditi" interrogatori.

    Non avevo dubbi. A poche centinaia di metri da lì, dentro i campi profughi, forse 600 vittime dei massacri dei campi palestinesi di Sabra e Chatila imputridivano al sole; il fetore della decomposizione arrivava nello stesso modo ai prigionieri e ai loro sorveglianti. Faceva un caldo soffocante. Io, Loren Jenkins del Washington Post e Paul Eedle della Reuters eravamo entrati nelle celle perché gli israeliani pensarono - dato il nostro aspetto occidentale - che dovevamo essere membri dello Shin Beth. Molti dei prigionieri avevano la testa abbassata. Almeno i miliziani falangisti alleati di Israele - ancora infuriati per l'assassinio del proprio leader e presidente eletto, Bashir Gemayel - si erano ritirati dai campi profughi, terminato il massacro, e almeno adesso era l'esercito israeliano a farsene carico. Perciò, che potevano temere questi uomini?
    Riflettendo sul passato e ascoltando Sana Sersawi oggi, la nostra ingenuità mi dà i brividi. I miei appunti di quell'epoca, in seguito raccolti in un libro sull'invasione israeliana del 1982 e sulla guerra con l'Olp, contengono alcuni segnali di cattivo augurio. Incontrammo tra i prigionieri un impiegato libanese della Reuters, Abdullah Mattar, e ottenemmo la sua liberazione; Paul se lo portò in spalla. "Ci portano via, uno ad uno, per interrogarci", mi mormorò uno dei prigionieri. "Sono uomini di Haddad [miliziani della falange cristiana libanese]. In generale riportano le persone dopo l'interrogatorio, però non sempre. Alcuni non sono tornati". Allora un ufficiale israeliano mi ordinò di uscire. "Perché i prigionieri non possono parlare con me?", gli chiesi. "Possono, se vogliono, ma non hanno nulla da dire".

    Tutti gli israeliani sapevano

    Tutti gli israeliani sapevano quello che era successo nei campi. La puzza dei cadaveri era impressionante. Fuori passò una jeep falangista con la scritta "polizia militare", come se un'istituzione tanto esotica potesse essere associata con una banda di assassini. C'erano alcune troupe televisive. Una filmò i miliziani falangisti cristiani all'esterno della "Città dello sport". Filmò anche una donna che chiedeva a un colonnello israeliano, chiamato Yahya, di liberare suo marito. Il colonnello è stato identificato dall'Independent [il quotidiano britannico per il quale scrive Fisk, ndt]. Oggi è un generale dell'esercito israeliano.
    Lungo la strada principale, di fronte allo stadio, c'era una fila di carri Merkava israeliani, con gli equipaggi seduti sulle torrette, a fumare, che guardavano come gli uomini dello stadio venivano portati via, uno per uno o a coppie; alcuni venivano liberati, altri erano portati via dagli uomini dello Shin Beth o da libanesi con giubbotti color kaki. Tutti questi soldati sapevano quello che era successo nei campi. Uno dei conducenti del carro armato, il tenente Avi Grabovsky - successivamente sarà testimone davanti la commissione israeliana Kahan - aveva perfino visto, il giorno prima, come erano stati assassinati alcuni civili, e gli era stato detto di "non interferire".

    Nei giorni seguenti ci arrivarono notizie strane. Una bambina venne presa da un'auto, a Damour, dai miliziani falangisti e fu portata via, nonostante le suppliche rivolte a un soldato israeliano che era presente. La donna delle pulizie libanese, che lavorava in una televisione statunitense, si lamentò amaramente perché gli israeliani avevano arrestato suo marito. Non lo videro più. C'erano altre varie voci di gente "desaparecida". Scrissi nei miei appunti di quel tempo che "dopo Chatila i nemici 'terroristi' di Israele erano stati annichiliti a Beirut occidentale". Ma non avevo associato questa oscura convinzione con la "Città dello sport". E non avevo nemmeno riflettuto sui terribili precedenti di uno stadio sportivo in tempi di guerra. Non era stato uno stadio a Santiago, qualche anno prima, a riempirsi di prigionieri dopo il colpo di stato di Pinochet, uno stadio dal quale molti non tornarono?
    Fra le testimonianze raccolte dagli avvocati che cercano di accusare Ariel Sharon di aver commesso crimini di guerra, c'è quella di Wadha al-Sabeq. Dichiarò che venerdì 17 settembre, mentre il massacro era ancora in corso [e lei ancora non lo sapeva] dentro Sabra e Chatila, era a casa con la sua famiglia a Bir Hassan, giusto di fronte ai campi. "Arrivarono i vicini e dissero che gli israeliani volevano controllare i nostri documenti d'identità, così scendemmo e vedemmo gli israeliani e le forze libanesi [falangiste] per strada. Gli uomini stavano separati dalle donne". Questa separazione - con la sua terribile ombra di separazioni simili a Srebrenica durante la guerra in Bosnia - era una caratteristica comune di questi arresti di massa. "Ci dissero di andare alla 'Città dello sport'. Gli uomini restarono dov'erano". Tra gli uomini c'erano i due figli di Wadha, Mohammed, di 19 anni, e Alì, di 16, e suo fratello Mohammed. "Andammo alla 'Città dello sport', come ci dissero gli israeliani - ha detto - non ho più rivisto i miei figli e mio fratello".

    I sopravvissuti raccontano storie angosciosamente simili.

    Bahija Zrein dice che una pattuglia israeliana le ordinò di andare alla "Città dello sport" e si portò via gli uomini che erano con lei, compreso suo fratello di 22 anni. Alcuni miliziani - controllati dagli israeliani - lo caricarono su un'auto, con gli occhi bendati, dice lei. "Così sparì - segnala nella sua testimonianza ufficiale - e non l'ho più visto". Fu solo alcuni giorni dopo che noi giornalisti iniziammo a notare discrepanze nelle cifre dei morti. Mentre 600 cadaveri furono trovati dentro Sabra e Chatila, mille e ottocento civili furono classificati come "desaparecidos". Supponemmo, com'è facile fare in tempo di guerra, che li avevano uccisi nel periodo di tre giorni tra il 16 settembre e la ritirata degli assassini falangisti, il 18, e che i loro cadaveri erano stati sotterrati segretamente fuori dal campo profughi. Sotto il campo di golf, sospettavamo. L'idea che molti di quei giovani fossero stati assassinati lontano dai campi e dopo il 18, che le uccisioni avessero ancora luogo mentre giravamo per i campi profughi, non ci venne mai in mente.

    Perché non ce ne siamo accorti?

    Perché non ci venne in mente allora? L'anno successivo la commissione israeliana Kahan [commissione parlamentare d'indagine sui massacri di Sabra e Chatila, ndt] pubblicò il suo rapporto, condannando Sharon, ma fissando la sua indagine alle atrocità commesse il 18 settembre, con solo una vaga insinuazione - non spiegata - sul fatto che alcune centinaia di persone potevano essere sparite "attorno" a quella data. La commissione Kahan non intervistò alcun sopravvissuto palestinese, ma le si consentì di essere la narratrice della storia. L'idea che gli israeliani continuarono a consegnare prigionieri ai propri alleati assetati di sangue non ci venne in mente. I palestinesi di Sabra e Chatila adesso stanno portando le prove che questo fu esattamente quello che successe.
    Un uomo, Abdel Nasser Alameh, crede che suo fratello fu consegnato alla falange la mattina del 18 settembre. Una donna palestinese cristiana, chiamata Milaneh Boutros, riferì come un camion pieno di donne e bambini venne portato dai campi profughi fino al villaggio cristiano di Bifkaya, luogo di nascita dell'appena assassinato presidente cristiano Bashir Gemayel, dove un'addolorata donna cristiana ordinò l'esecuzione di un bambino di 13 anni che era nel camion. Gli spararono. Il camion deve aver passato almeno quattro posti di blocco israeliani sulla strada per Bifkaya. E, che il cielo mi salvi, ora mi rendo conto che ho conosciuto la donna che ha ordinato l'esecuzione del bambino.

    Prima che la mattanza nei campi profughi fosse finita, Shahira Abu Rudeina dice che la portarono alla Città dello sport dove, in uno dei centri detenzione sotterranei, vide un uomo ritardato mentale - sorvegliato dai soldati israeliani - che seppelliva cadaveri in una fossa. La sua testimonianza si potrebbe anche respingere se non avesse espresso gratitudine per un soldato israeliano che - dentro l'accampamento di Chatila, contro tutte le prove fornite dagli israeliani - aveva impedito che i falangisti assassinassero le figlie.
    Molto dopo la guerra, le rovine della Città dello sport furono abbattute e al loro posto i britannici costruirono un nuovo stadio di marmo. Lì cantò anche Pavarotti. Ma la testimonianza di quello che potrebbe trovarsi sotto il suo cemento - e le conseguenti terribili implicazioni - possono dare a Sharon più di una ragione per temere un'accusa.

    Tratto da Masiosare,
    inserto del quotidiano messicano La Jornada
    Settembre 2001

  9. #9
    Roderigo
    Ospite

    Predefinito

    PER RICORDARE SABRA E CHATILA

    Duemila abitanti palestinesi e libanesi dei campi di Sabra e Chatila, alla periferia di Beirut, vennero massacrati dal 16 al 18 settembre del 1982 da miliziani delle forze filo-israeliane, sotto la supervisione e con il sostegno logistico dell'esercito di Tel Aviv che aveva occupato da poche ore Beirut ovest. Pochi giorni prima le forze multinazionali che avrebbero dovuto difendere i campi profughi dopo la partenza da Beirut dei fedayin palestinesi e far rispettare l'impegno israeliano a non entrare nella parte occidentale della città assediata dal giugno precedente, si erano prematuramente ritirate. A diciott'anni di distanza non solamente nessuno ha pagato ma le vittime dell'eccidio ancora non hanno ricevuto una degna sepoltura. Di quasi mille corpi non si è saputo più nulla. La più grande e nota delle fosse comuni, situata all'ingresso del campo di Chatila, a pochi passi dall'ambasciata del Kuwait, è ridotta ad uno squallido campo polveroso nel quale vengono gettate le immondizie di un vicino mercato e detriti di ogni genere. Non una lapide, un segno che ricordi la presenza delle fosse comuni, che inviti al loro rispetto. Per questa ragione facciamo appello all'opinione pubblica italiana e internazionale, agli uomini di cultura, alla galassia delle Ong, ai politici, ai semplici cittadini, perché chiedano alle autorità libanesi, con le quali il nostro paese ha ottimi rapporti di cooperazione, che venga resa giustizia alle vittime del massacro dando loro una degna sepoltura. Che il loro sacrificio venga ricordato con una lapide, un monumento, un segno che aiuti a non dimenticare il dramma del popolo palestinese ancora esule dalla propria terra. A tal fine una delegazione di parlamentari, uomini di cultura e rappresentanti delle Ong si recherà a Beirut il 13 settembre in occasione del prossimo anniversario della strage.
    Il manifesto, Il comitato "Per non dimenticare Sabra e Chatila"

    Inviare le adesioni a: schiarin@ilmanifesto.it


    Hanno firmato l'appello:

    On. Giorgio Napolitano, Presidente Commissione Affari Costituzionali del Parlamento europeo - Sen. Ersilia Salvato, Vice-presidente del Senato - On. Achille Occhetto presidente Commissione esteri della Camera - On. Lucio Manisco, Europ. (Pdci) - On. Luisa Morgantini, Europ. (Prc) - On. Fausto Bertinotti, Segretario Prc - On. Luigi Vinci Europ. (Prc) - On. Giuseppe Di Lello, Europ. (Prc) - On. Carlo Leoni Responsabile Giustizia Ds - On. Giuseppe Giulietti Resp. comunicazione Ds - Sen. Giovanni Russo Spena (Prc) -On. Armando Cossutta, Pres. Pdci -On. Oiviero Diliberto, Segr. Pdci - On. Pasqualina Napoletano, Pres. gruppo Ds Parlamento Europeo - On. Vittorio Sgarbi (Gruppo Misto) -On. Marco Pezzoni Capogruppo Ds Comm. Esteri Cam. Dep. -Nicola Manca, Responsabile Rel. Int. Ds - On. Vincenzo Vita, Sott.rioalle Comunicazioni - On. Fulvia Bandoli (Ds) -On. Ramon Mantovani Resp. Est. Prc - On. Giorgio Malentacchi (Prc) -On. Maria Celeste Nardini (Prc) - On. Walter De Cesaris (Prc) - On. Franco Giordano Presidente Gruppo Parlamentare (Prc) - Alfio Nicotra, Resp. settore "Pace" Prc -On. Vito Leccese (Verdi) -On. Paolo Cento (Verdi) - On. Mauro Paissan (Verdi) - On. Mario Brunetti (Pdci) - On. Rino Piscitello (I Democratici)-On. Famiano Crucianelli (Ds) -On. Mauro Palma (Ppi) - On. Alberto Simeone (An) - On. Sandro Dal Mastro Delle Vedove (An) - On. Marisa Abbondanzieri, Comm. Est. Cam. Dep. (Ds) - On. Marcello Basso Comm. Dif. Cam.Dep. (Ds) -Gianfranco Brusasco, Resp. Medio Oriente Ds -Alfiero Grandi, Sottosegretario alle Finanze - On. Luca Cangemi (Prc) -Maria Lenti (Prc) - Tiziana Valpiana (Prc) - Ugo Boghetta (Prc) - Giuliano Pisapia (Prc). Luca Cefisi, Dip. Pol. Int. Sdi.
    Alessandra Mecozzi, Uff. Intern. Fiom Naz. -Mario Capanna - Luciano Neri - Amnesty International, Sez. Italiana - Riccardo Barenghi Direttore "Il Manifesto" - Nicola Zingaretti, Segr. Fed. Romana DS - José Luis Rhi-Sausi, Dir. Es. Cespi -Davide Riondino - Paolo Virzì - Carmen Llera Moravia - Ettore Masina - Saverio Tutino- Giulietto Chiesa - Gianni Tognoni, Presid. della Fondazione Internaz. "Lelio Basso" -Tom Benettollo, Presid. Naz. Arci - Luciano Ardesi, Segr. Naz. Lega Diritti dei popoli - Associazione "Un ponte per..." - Pier Luigi Sullo "Carta" - Vauro Senesi -Giancarlo Lannutti - Maurizio Mengoni - Riccardo Cristiano - Guido Moltedo, Lucio Magri, "Rivista del Manifesto" - Aldo Garzia, "Aprile" - Comitato Golfo -Associazione Guerre & Pace - Associazione Assadakah - Vittorio Bellavite - Manuela Palermi - Annalisa Mauro, Ifad - Andrea Amato, Pres. Imed - Giuseppe Soriero, Resp. Naz. Festa dell'Unità - Bruno Carchedi "Altra Europa" - Pino Sgobio (Pdci) -Tommaso Di Francesco - Maurizio Matteuzzi -Giuliana Sgrena - Michele Giorgio - Angela Pascucci, Le Monde Diplomatique/Italia - Silvia Boba - Nico Perrone, Univ. di Bari - Giorgio Riolo, "Punto Rosso" -Renzo Maffei, "Salaam Ragazzi dell'Olivo" -Giampiero Rasimelli, Ong Arcs - Agostino Bistarelli, Arci - Raffaella Bolini, Arci -Ass. di Amicizia Sardegna-Palestina - "Salaam Ragazzi dell'Olivo", Comitato milanese - Piero De Gennaro -Monica Morabito - Franco Ferioli, Chango - Raffaele K. Salinari, Cocis - Anna Schiavoni, Cocis -Umiliana Grifoni, Cospe, Firenze - Monica Mazzotti, coordinamento Gvc in Palestina - Vincenzo Di Serio, coop Gcv, Palestina - Caterina Amicucci, Segr. Naz. Sci - Luigi Anzellini (Pdci) - Gilberto Gilberti, Univ. di Parma - Geremia Buonafede, Cgil Funzione Pubblica Lazio - Fabrizio Ottavi, Cgil Funzione Pubblica, Lazio - Silvana Matta, Cgil - Maurizio Cabona - Flavia Giorgi - Daria Morandini - Massimo Greco - Guido Colombo -Pino Grillo - Alfonso De Filippi - Carlo Fabrizio Carli - Fabio Gabrielli -Tommaso Staiti di Cuddia - Mario Martone, Regista - Patrizio Esposito -Sirio Conte, Giannina Dal Bosco, Davide Berruti - Farshid Nuray, Assopace Nazionale - Sergio Finardi - Giorgio Stern e Letizia Giustolisi Rondi, "Salaam Ragazzi dell'Olivo", Trieste - Professori, studenti e infermieri del Gruppo Tenda dell'Università Cattolica, Facoltà di Medicina, Roma -Comitato G.Lazzati per la Costituzione - Tiziana Salmistraro Ass. Orlando, Bologna - Sinistra Giovanile, Federazione di Modena - Giuseppe Palmeri Direz. Prov. Com. Pol. Ds Genova - Gabriella Severi
    no, Univ. di Roma - Carlo Pona, Serv. Civ. Int. - Donne in Nero, Milano - Prof. Antonio Moscato, Univ. di Lecce - Francesco Paolo Bonadonna, Univ. di Pisa - Acea Onlus, Agenzia Stampa - Retedigreen.com Portale sull'ambiente e sulla memoria - Ass. Narni per la pace - Sergio Giulianati - Eugenio Pedone Lecce -Carlo Petrini -Manlio Triggiani -Gianluca Savoini - Bruna Miorelli (Radio Popolare) - Tiziana Boari -Sandro Provvisionato (TG5) - Vera Baldini (TG4) -Anna Migotto (TG4) - Enzo Bianchi -Francesco Andreini 100 Idee per la pace - Giovani Comunisti, Barletta - Ivana Stefani, Cantieri Sociali Riuniti di Alessandria - Tiziana Colombo - Tony Peratoner ReteRadie Resch - Roberto Frey Coord. regionale Verdi Marche - Silvia Rossi -Fiammetta Laconi -Stefano Gaeta - Massimo Lizzi - Franco e Natalia Corradini, Vercurago (Lecce) - Ciro Pesacane -Giorgio Forti e Annalucia Messina - Liliana Duca, Milano - Cristina Cattafesta - Pinuccia Cardullo - Gaby Naef - Salvatore Talia - Gabriella Grasso - Fulvio Carloni -Laura Trinchero - Susanne Scheidt - Loredana Vigo - Paola Loi - Silvia Rossi - Bruno Bonifacio -Nicoletta Rizzitelli - Nicola Melis - Redazione di "Indipendenza" - Lino Zambrano, Aicos.

    Adesioni internazionali: Noam Chomsky -Mem & Malcom Fox, Adelaide (Australia) - Prof. Sonia Dayan Herzbrun, Sociologa, Università Paris VII - Jamil Hilal, Palestina - Prof. Nassir Aruri, University of Massachussets - Khalil Osman -Barbara E. Harrel-Bond, American University in Cairo - Sue Turrell, GB - Wafaa Shaheen & Trees Zbidat Kosterman, Al Zahraa Arab Women Organisation in Sakhnin - Dominique Vidal, Le Monde Diplomatique - Francis A. Boyle, Professor of International Law, Champaine, Illinois, Usa - R. Khatib - Virginia Lea, Vallejo (California) - Hellen Siegel, Sirid Nolsoe - Tom Francis Ba, Centro per i sopravvissuti alla tortura, Dallas, Usa - Mona Younis PhD, New York - Bassam Marshoud - Murad Abu Khalaf - Davide Barsamian, Direttore "Alternative Radio", Usa - George Yaghnam - Nidal A.Barakat - Haitham Aranki, Arab Comm. Center Los Angeles - Shehrazad Muzher -John Wheat Gibson - Leah Barnet -Noel J. Saleh, Esq. Detroit (Usa) - Samah Abu Sharar -Dr. Jess Ghannam
    Karma Nabulsi, Pride Research Fellow Nuffield College, Oxford - N. Eaisha Pressimone -Mai Ghoussoub - Ribhi Huzien, Moustafa Huzien, Nina Huzien, Linda Huzien (Clifton, NJ Usa) -Faten Hazin, Abdeen Hazin, Haboob Hazin (Totowa, NJ Usa) - Haleema Hazin, Zeina Hazin, Sarah Hazin (Wayne, Nj Usa) - Omar Hazin, Mohammad Hazin (Teterboro, Nj Usa) -Haltham Huzien, Ayah Huzien, Hasan Huzien, Said Huzien, Ibrahim Huzien (Franklin Lakes, Nj Usa) - Issa Hazin, Faten Hazin, Adam Hazin, Bassam Hazin, Salah Hazin (Kinnelon, Nj Usa) -Wladimir Dimitrijevic - Jean Jacques Langedorf -Alain D. Altieri -Alain de Benoist - Mohammed Sidati, Ministro Rasd (Repubblica Araba Sahrawi Democratica) -Joseph Halevi, Univ. di Sydney e di Grenoble -Yanis Varoufakis, Dipt. Economia Università di Atene - Louis Haddad, Dipt. Economia Università di Sydney - Pino Scuro Radio Sbs Stazione Radio-TV Multiculturale, Sydney, Australia - Karen Nievwland, Clarens (Ch) - Christine Mc Leod -Amer Makhoul, Direttore di "Ittijah" Union of Arab Community Based Association (Palestine 48) - Muhammad Abu Daouf, presidente di "Ittijah" - Samia Shehadeh Nasser & Aboudi Nasser - "Najdeh" Lebanese Ngo, Chatila - Christopher Sjuve, Università di Oslo -Ghassan Bishara, Washington, Dc - Graham Usher, Giornalista - Grace Said,Chevy Chase, Md-Usa - Sari Abdallah -Elaine C. Hagopian, prof.emer. Sociologia, Boston - Imad Shehadeh, Chicago, Ill. - Aracoeli Ortiz, sindacalista Consejo Confederal delle CC.OO., Espana - Malika Ben Radi - Nadia Shehadeh -Nihaya Qawasmi-Dugan, copresidente del Palestinian Right to Return Committee Coalition, New York-NY - Aisling Byrne, Londra - Rima AlAlamy - Abraham Weizfield, JPLO, Montreal -Andrew Courtney, Al Awda, New York - Mustafa Hazin - Elias Zureik, Università di Toronto - Rana Othman - Adele Colantuono - Carla Benelli -Ciss, Gerico - Osama Hamdan, Gerusalemme -Laurie King-Irani, Chester Town, Maryland, Usa - Eyas Hmouz, Tennessee, Usa - Jennifer Loewenstein, School of Business, University of Wisconsin, Madison - Jim Rissman - Norman Finkelstein, Professore Hunter College, City University of New York - Susan Abulhawa, Biologist, Yardley, Pa, Usa - Salim Tamari, direttore dell'Istituto per gli studi di Gerusalemme - Nahed Dirbass, giornalista, Haifa -Sahera Dirbass, TV producer, Haifa - John Dixon, direttore del "Jerusalem Quarterly File", Gerusalemme

 

 

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