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da brividi.
fenomeno dei naziskin, che percorre certe frange sociali di alcuni paesi, è sorvegliato con allarmata attenzione dalle autorità, dalle istituzioni, dalle forze dell'ordine degli Stati democratici europei. Ma cosa può accadere alle istituzioni democratiche se slogan, obiettivi e magari azioni concrete analoghi a quelli di queste frange trovano il loro punto di riferimento o di stimolo in rappresentanze governative di quegli stessi Stati, come accade in Italia?
Il 15 settembre, a Venezia, gruppi di secessionisti della Lega hanno manifestato contro la Costituzione e le istituzioni della Repubblica, convocati dal ministro per le riforme istituzionali di questa stessa Repubblica. Il paradosso, oltre che clamoroso, suscita allarme. Lasciando da parte qualsiasi giudizio sullo scioglimento del partito separatista basco «Batasuna» da parte del governo Aznar, che qui non interessa, possiamo comunque dire, istituendo un'analogia, che sarebbe come se il governo Aznar avesse scelto quale ministro delle riforme istituzionali spagnole un leader del partito Batasuna.
In Italia, di fatto, la situazione è questa: l'attuale ministro delle riforme istituzionali (che ovviamente non sarebbe tale senza l'assenso del presidente della Repubblica) è un secessionista furente che odia la Repubblica italiana e che gira con magliette recanti la scritta «Io sono contro Roma».
Quella Roma capitale d'Italia nel cui parlamento siede come ministro.
Nella gazzarra contro l'Italia organizzata a Venezia da un ministro della Repubblica italiana è accaduto un fatto inquietante non solo per quello che è stato fatto dai manifestanti, ma anche per quello che non è stato fatto dalle forze dell'ordine e da chi deve garantire le istituzioni repubblicane. La casa di una cittadina italiana, la signora Lucia Massarotto, che esprime il proprio attaccamento per il tricolore esponendolo alla finestra di casa, come peraltro invita a fare il presidente della Repubblica da quando è presidente della Repubblica, è stata assediata dai secessionisti della Lega in un mare di insulti volgari. A differenza degli anni scorsi, il suo tricolore era stavolta listato a lutto. E ce n'era il motivo: nelle piazze del Veneto non dei signornessuno, ma persone che ricoprono cariche politiche nella nostra Italia, urlavano frasi di incitamento di questo tipo: «Prendiamogli le impronte del naso e dei piedi» (il sindaco di Treviso Gentilini, riferendosi agli extra-comunitari), bestemmiavano «Sono preti del diavolo che vanno convertiti al Vangelo della Lega» (lo stesso sindaco all'indirizzo dei religiosi della Caritas o vescovi che aiutano gli extra-comunitari), esortavano «Bisogna fare come i gondolieri, buttarli in acqua» (l'onorevole Borghezio). Intanto, sotto la finestra della signora Massarotto, la folla leghista gridava: «Secessione, secessione»; «La bandiera italiana mettetela nel cesso»; «Abbiamo un sogno nel cuore: bruciare il tricolore». Sono parole lugubri e funeree, luttuose per tutti gli italiani.
L'assalto alla casa della signora Massarotto è raccontato con spavalderia nell'organo leghista La Padania del 17 settembre, da una specie di corrispondente di guerra che deve aver scambiato la signora Massarotto per il Viet-Nam. Così l'inviato racconta le imprese leghiste nel suo valoroso servizio dal fronte: «Nonostante le diffidenze dei vigilantes (Nota: nel linguaggio del corrispondente, la polizia di Stato) riesco a citofonare alla signora. “Sono un giornalista di La Padania, volevo sapere se era disposta a fare due chiacchiere con me, o mi fa salire oppure scende e andiamo a bere qualcosa insieme”». La signora gentilmente rifiuta. Il corrispondente di guerra: «Provo a convincerla che non ho nessuna intenzione di mangiarla. Niente da fare. Rimango diverse ore sotto il suo balcone. Torno a suonare il campanello. Mi risponde con fare gentile. Non mollo. Torno alla carica altre cinque volte. I poliziotti ridono. Provo a scavalcare il palazzo (Nota: non so cosa significhi «scavalcare il palazzo» il corrispondente di guerra scrive così), ma è troppo alto. Intanto i leghisti le gridano di tutto. Iniziano a riempire la casa di adesivi del Carroccio utilizzando una lunga asta metallica». Il valoroso inviato dimentica di riferire che un manipolo di marines della Lega è riuscito a «sbarcare» sul portone del palazzo dove abita la signora Massarotto prendendolo a calci e a spallate. Non sono riusciti a sfondarlo perché i cosiddetti «vigilantes» lo hanno protetto. Ma l'eroico corrispondente di guerra non ha finito la sua battaglia. «La manifestazione è ormai finita, il popolo leghista torna a casa. Credono che io stia per andare, ma si sbagliano. Torno al citofono forse per la settima volta. “Le lascio la bandiera della Lega. La esponga”».
Con questo ordine al suo ostaggio, l'inviato Girardin (è il nome del corrispondente dal fronte) torna nelle retrovie. «È domenica anche per me», conclude. È il riposo del guerriero. Lo attende il piatto nazionale: una polenta fumante.
«Ho un sogno nel cuore: bruciare il tricolore», si può tranquillamente gridare in questa Italia di oggi. È triste veder bruciare bandiere. Una bandiera non è un governo, è un Paese intero, con tutti i suoi cittadini, la sua Storia, il suo passato glorioso e inglorioso, le sue sofferenze, il suo bello e il suo brutto. Quando qualcuno, tempo fa, in una manifestazione pacifista, bruciò la bandiera americana, la stampa di Berlusconi, e ovviamente la stampa rimasta libera, giustamente deprecarono il fatto, seppure ciascuno dal suo punto di vista.
Infatti, dentro quella bandiera data alle fiamme non c'era solo il Viet-Nam, il golpe in Cile, il segregazionismo, i sostegni alle varie dittature militari dell'America latina e dell'Indonesia, l'amministrazione Bush. Ci sono anche Lincoln, lo sbarco in Normandia, Martin Luther King, la libertà di stampa. Ma dopo Venezia dalla stampa di Berlusconi, che è come dire praticamente tutta la stampa italiana, non si è levata una sola voce di biasimo per il vilipendio alla nostra bandiera. È una sorpresa amara, perché se è triste veder bruciare in Italia la bandiera di un altro Paese, è intollerabile che si bruci la nostra o si tolleri chi si propone di farlo. O che la si vilipenda, senza che gli autori del vilipendio non vengano neppure denunciati e possano, dopo il reato, andare a mangiare la loro polenta-premio. Nel '20 gli squadristi cominciarono così, inveendo, minacciando e assaltando in questo modo alcuni luoghi dell'Italia democratica di Giolitti con l'impunità che l'indifferenza delle Istituzioni italiane consentì loro. Nel '22 l'Italia non era più del democratico Giolitti, apparteneva a Mussolini.
A un giornalista che le ha chiesto cosa pensa di fare alla prossima manifestazione leghista, la signora assediata, rea di essere italiana, ha detto che sta pensando di chiedere rinforzi. La sua paura degli scalmanati è condivisibile, ma non è pensabile che altri cittadini italiani debbano supplire al vuoto delle forze dell'ordine laddove le istituzioni sono minacciate. E non c'è dubbio che esse siano più minacciate a Venezia che sulle coste della Sicilia, dove sbarcano (o affogano) i poveracci. I poveracci chiedono aiuto, non aggrediscono la Repubblica.
Ancor più sorprendente ho trovato il silenzio del presidente della Repubblica. Perché un episodio del genere, oltre che l'applicazione del codice penale, meritava un monito grave da chi deve difendere il simbolo delle nostre istituzioni repubblicane. Mi chiedo: gli elogi del tricolore, l'educazione al tricolore, tutti gli inviti a conoscere la storia del tricolore repubblicano, cos'erano dunque? E l'esortazione ad esporlo nelle nostre case, come succede in altri Paesi, a che scopo? Forse perché quattro leghisti in canottiera che passano sotto casa nostra prendano a pugni e calci il nostro portone e ci riempiano di insulti