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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Un congedo e un impegno

    “Corriere della Sera”, 14 marzo 1972



    Mi allontano oggi dal Corriere, in un momento affannoso e drammatico della vita italiana, momento che vede in discussione equilibri e convinzioni radicate. Il giornale cui ho dedicato ogni mia forza per oltre quattro anni difficili, il giornale costruito con lo slancio solidale e l’impegno appassionato di tutta la redazione, è affidato al giudizio dei lettori; aumentati dal 1968, e in misura sensibile, nonostante tre scatti di prezzo susseguitisi nel giro di poco più di un anno. È stata una esperienza fondata su quattro direttrici fondamentali. Le riaffermo oggi, nel momento del congedo, non tanto come mete raggiunte quanto come obiettivi tenacemente perseguiti, in mezzo a difficoltà inimmaginabili, ad amarezze infinite.
    Un giornale libero, sempre: nell’informazione e nel commento. Geloso della sua indipendenza, immune da influenze o comunque da suggestioni esterne. Non legato a centri di potere, franco nella critica e nel dissenso. Amico personale del presidente Saragat a ventiquattro anni, non ho esitato ad attaccare il disimpegno del ’68 e a non condividere la scissione socialista del ’69, attribuiti l’uno e l’altra, a ragione o a torto, all’ex capo dello Stato. Fautore tenace e convinto della collaborazione fra laici e cattolici come la sola alternativa al disfacimento della democrazia italiana, non ho lesinato critiche anche durissime agli infelici e zoppi governi quadripartiti che hanno caratterizzato questa infeconda e tormentata legislatura. Durante le recenti elezioni per la presidenza della Repubblica, ho tenuto il Corriere al di fuori di ogni preferenza smaccata e sospetta, non meno che di ogni ostracismo pregiudiziale e infondato.
    Questo giornale è qualcosa più di un grande quotidiano d’informazione, è il simbolo stesso della civiltà laica e democratica del nostro paese, fondata sulla ragione e sulla tolleranza. Ecco perché il Corriere si è coerentemente battuto in questi anni, nella linea di separazione fra Chiesa e Stato, per l’autonomia del potere civile in ogni occasione, dal divorzio al referendum, pur sforzandosi di non offendere mai la coscienza dei credenti nei punti di fede, che valgono più di tutti i compromessi e o gli armistizi fra i potenti. Ed ecco perché ha patrocinato una linea di ferma tutela della legalità repubblicana, e dello Stato di diritto, sempre minacciato dalla violenza di parte, ma nell’ambito della Costituzione e al di fuori di ogni seduzione autoritaria e reazionaria, anche mascherata coi comodi schemi dei “blocchi d’ordine” o delle “maggioranza silenziose”. Non meno che con le fughe nell’integralismo, magari ammantato con l’efficienza o con le pseudoriforme costituzionali. Un giornale aperto, in secondo luogo. Non più dogmatico, non più categorico, non più chiuso nella fortezza delle sue convinzioni; ma disponibile al dialogo, pronto alla registrazione di tutte le voci, anche molteplici e contraddittorie, della società civile non meno che delle diverse ideologie. Non a caso la formula dei dibattiti e delle tavole rotonde, che tanti consensi ha raccolto, è entrata in questi anni al giornale: senza preclusioni, senza discriminazioni settarie e su tutti i temi, dalla contestazione ai diritti civili. E non a caso ai dibattiti si sono alternate le grosse inchieste in “équipe”, basate sul lavoro dei più illustri e dei più oscuri, senza greche né gradi: come l’indagine sulle regioni consegnata nei volumi di “Italia settanta”.
    Un giornale fondato sulla cooperazione di tutti coloro che concorrono alla sua costruzione, in terzo e fondamentale luogo. Non era una impresa facile. Il mio primo obiettivo fu di colmare il distacco fra le figure di primo piano, legate alla giusta celebrità della firma, e la redazione, l’anonima e silenziosa redazione riunita nella stanza leggendaria descritta da Corrado Alvaro: quella che è la forza vera, e irrinunciabile, di un giornale. Mi sono sforzato, come ho potuto, di elevare il rango della redazione, di aumentarne il prestigio, di allargarne la funzione operativa nella vita quotidiana del Corriere. Senza schemi preconcetti e da manuale, che finiscono spesso in paurose smentite. Ma col desiderio costante e mai ammainato di un rapporto umano, di una comprensione dei problemi e di una conseguente, paziente, risoluzione, giorno per giorno, degli infiniti casi che a un direttore si pongono. Il mio più caro ricordo, in quest’ora di distacco dal Corriere, è nella stanza di redazione del giornale, là fra i colleghi impegnati al controllo dei titoli e alla valutazione dei testi.
    In questo spirito si colloca l’epilogo positivo delle trattative condotte dal comitato di redazione con l’editore per la fissazione dei “diritti” dei giornalisti nella vita dell’impresa e nelle future nomine dei direttori. Una trattativa contro la procedura che ha finito per toccare questioni di sostanza: una vera e propria svolta nel giornalismo italiano. Al di là di ogni pur legittima rivendicazione personale che è stata da me stesso preventivamente scartata dopo l’affettuosa solidarietà del primo giorno, le conclusioni di via Solforino si riallacciano al clima di autentica collaborazione con l’intero corpo redazionale, traducono nella carta di un accordo, che i lettori vedranno nella colonna affiancata, lo spirito di oltre quattro anni di lavoro collegiale e comune.
    Un giornale teso all’innesto fra cultura e giornalismo, in quarto e ultimo luogo. E non solo nella terza pagina. Sì: io appartengo ai direttori che credono nella cultura, e anche nella sua forza traente ai fini delle tirature. In un mondo dominato dalle immagini, spesso deformanti, della televisione, la parola scritta conserva un valore solo in quanto sia commento e approfondimento dei fatti, serva ad inquadrarli in qualcosa di più valido della gelida ricostruzione di cronaca, risalendo alle radici lontane. E la lotta contro il monopolio televisivo e per la sopravvivenza della libertà di stampa, sempre tanto minacciata e insidiata, partiva, e continuerà a partire, dalla convinzione che senza una elevazione di qualità il quotidiano indipendente è già morto, nella gara con gli altri e prevalenti “mass media”.
    Lasciando la direzione del Corriere con tranquilla coscienza, raffermo i princìpi che hanno animato i diciotto anni delle mie direzioni. Credo in un giornale che sia portatore di idee e non mero prodotto industriale, da sottoporre alle astratte leggi di mercati immaginari. Credo in un giornale come strumento di informazione, e non come veicolo di materiali prefabbricati in serie. Credo in un giornale come scelta dell’uomo, e non del computer. E soprattutto credo dell’autonomia e nella dignità della professione giornalistica che non può essere sottoposta a imposizioni o a sollecitazioni esterne, da qualsiasi parte provengano.
    Nel momento del congedo, un congedo che equivale ad un impegno per il futuro, rivolgo un particolare affettuoso ringraziamento non solo ai colleghi e collaboratori tutti ma anche alle molteplici componenti, in particolare ai tipografi, di questa grande azienda che occupa ancora il primo posto, nelle statistiche del Times, fra i giornali europei di “qualità”, un primato che risale a Luigi Albertini. La “qualità” è un obiettivo che si raggiunge con decenni di sacrifici e di lotte; nel Corriere è il frutto di una tradizione che deve rinnovarsi giorno per giorno, ma senza strappi violenti, senza traumi. È l’augurio che rivolgiamo di cuore al nostro successore, a Piero Ottone.
    E soprattutto il mio pensiero riconoscente va a tutti i lettori che hanno seguito e confortato il giornale nel tentativo, certo non sempre riuscito ma fedelmente perseguito, di salvaguardare una zona di equilibrio e di distaccata indipendenza in un mare di estremismi e di fanatismi cozzanti, associando il rispetto del passato alla ricerca del futuro. Un futuro che noi riusciamo a vedere solo nella misura di una società libera e aperta, senza illusioni tecnocratiche o autocratiche. Una società, insomma, dal volto umano.

    Giovanni Spadolini
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #122
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Un asceta mazziniano

    “La Stampa”, 5 novembre 1976. Anche in Giovanni Spadolini, "L’Italia della ragione. Lotta politica e cultura nel Novecento", Le Monnier, Firenze 1978.

    Venticinque anni fa, il 28 aprile 1951, sulle colonne del Mondo di Mario Pannunzio, usciva un articolo intitolato “Asceti e possibilisti”. Era la seconda puntata di una “storia dei repubblicani dopo l’unità”, che l’autore di queste note aveva concordato col grande, indimenticabile direttore, nel quadro di una specie di esplorazione complessiva nel sottosuolo delle opposizioni italiane allo Stato liberal-moderato uscito dal Risorgimento, l’opposizione laica intransigente non meno di quella cattolica oltranzista. Due facce opposte di un problema storiografico che la tradizione crociana aveva ridotto o svalutato. “Asceti” erano definiti i mazziniani che avevano fatto “voto di castità” politico, che si erano sottratti ad ogni tentazione di inserimento nell’area del potere. “Possibilisti” i seguaci di Garibaldi, e non di Garibaldi soltanto, che avevano avviato la parabola di graduale collaborazionismo con la Monarchia e le istituzioni liberali destinata a culminare nell’imminente radicalismo.
    Terenzio Grandi, il repubblicano piemontese che gli amici del comitato torinese dell’Istituto del Risorgimento hanno festeggiato a Palazzo Carignano nell’ottobre ’76 con la consegna di un ricco e stimolante volume miscellaneo per i suoi 92 anni, appartiene alla categoria degli “asceti”, non dei “possibilisti”.
    Figlio di un cartolaio repubblicano intransigente, respirò il clima del “non possumus” mazziniano verso le istituzioni consacrate dai plebisciti. Non piegò alle seduzioni dell’epoca giolittiana. Non credette alle tesi radicali del “placido tramonto” della Monarchia. Rivisse il giuramento di protesta degli ultimi mazziniani in uno spirito di separazione e di scissione dalle combinazioni parlamentari dell’ora. Si identificò quasi con le ombre di un passato glorioso attraverso i contatti intrecciati con gli uomini discepoli del repubblicanesimo tutto d’un pezzo, gli Ergisto Bezzi, gli Arcangelo Ghisleri, più tardi lo scapigliato, e repubblicanissimo, Lucini.
    Esemplare parabola umana, che gli amici hanno fatto bene a fissare nell’affettuosa prefazione a questa raccolta di scritti (Parmentola, Galante Garrone e l’instancabile Narciso Nada, il presidente del comitato torinese, hanno concorso in modo determinante al successo dell’iniziativa). È la parabola di un tipografo quasi autodidatta, che si innamora dei libri stampandoli, secondo una tradizione di autentico, non retorico, operaismo repubblicano. È la parabola di chi si è nutrito a Mazzini ma ha cominciato fin da ragazzo a studiare Cattaneo: prodigandosi poi in centinaia di scritti, in un’azione di apostolato soprattutto giornalistico.
    Le testate dei giornali fondati o diretti da Terenzio Grandi riassumono tutta una vita, rispecchiano una scelta ideale prolungata per quasi un secolo. Prima, nella Torino del 1903, l’Emancipazione, fondata insieme con un pastore della Chiesa metodista, mazziniano e massone, in un clima che già preannuncia la giunta Nathan a Roma. Poi, nel colmo dell’età giolittiana, nel 1911, la fondazione, sempre a Torino, della Ragione della domenica, il supplemento settimanale di un effimero quotidiano del PRI che si chiamava La Ragione – pensate al significato di quella scelta negli anni dell’irrazionalismo e attivismo dilaganti, negli anni del più infiammato e deteriore dannunzianesimo -, prima della lunga stagione della Voce Repubblicana.
    Ancora, all’indomani della guerra, nel 1918-19, La Risposta, un foglio patriottico in cui rivivono le vibrazioni dell’interventismo repubblicano, un foglio dove scriverà tre articoli l’adolescente Piero Gobetti, all’esordio del suo impegno civile con Energie nuove (presentatosi al tipografo mazziniano con “quella faccia di biondo sangiovannino”). Fra ’23 e ’24, nell’irrompere del fascismo, ecco sorgere un nuovo periodico, solo in apparenza di informazione bibliografica, in realtà di educazione civile, che nello stesso titolo riassumeva un’opzione di antifascismo operoso destinata a non essere smentita mai, Nuova Coscienza (è la Torino della Rivoluzione liberale). Fino al Pensiero mazziniano, diretto per un ventennio, dalla Liberazione al 1963.
    Tutti scritti in onore di Grandi, quelli raccolti nell’odierno volume, frutto di tanti sacrifici e di tanta pazienza, amico Nada: un po’ di storiografia accademica, con Ghisalberti e Galante Garrone e Emilia Morelli e Cordié ed altri ancora, ma anche di storiografia libera, non di dilettanti ma di amatori, di ricercatori pazienti e appartati, e saggi d’impegno come quello di Vittorio Parmentola sui Doveri dell’uomo o l’altro di Guido Ratti sulla Savoia e la Giovine Italia, e pagine penetranti come quelle di Augusto Comba sui repubblicani dopo Mazzini alla ricerca di un’identità, e scorci suggestivi come quelli del primo congresso repubblicano nel 1878 delineato con mano sicura dall’amico Giuseppe Tramarollo.
    Volume all’antica, se vogliamo: con tanto di “tavola gratulatoria” (troppo magra, per Torino e per l’Italia), con alternarsi di temi di fondo a temi marginali, con gli inevitabili squilibri di opere collettanee come questa. Ma con un carattere peculiare che rende il libro in certo modo raro fra i molti che si pubblicano “in onore”: non professori che onorano un loro collega anziano, non corporazioni che si rispettano e magari si incensano l’una con l’altra, ma apporto di spiriti liberi in omaggio a un uomo libero, a uno storico senza diplomi, a un ricercatore senza etichette, a uno studioso senza distintivi. O almeno senza distintivi che non si identifichino con la propria passione civile e con la propria autonoma e originale esperienza intellettuale[1].
    Ricordo Terenzio Grandi in molti congressi storici: sempre pronto ad ascoltare, a prendere appunti, sempre appartato e umile. Nei congressi storici di oggi non c’è quasi più nessuno che prende appunti: troppi sono capaci di insegnare. Ma che cosa?

    Giovanni Spadolini

    [1] Sono tornato più ampiamente sui temi della storiografia del repubblicanesimo nella prolusione al convegno su Maurizio Quadrio promosso dalla “Domus mazziniana” di Pisa nell’ottobre 1976 (e di cui il testo integrale è destinato a comparire nel volume che all’intero convegno si appresta a dedicare la benemerita istituzione culturale, che fu tenuta a battesimo da Luigi Salvatorelli). Ricordai in quell’occasione come si presentasse il paesaggio degli studi sul movimento repubblicano e particolarmente sull’ala intransigente e non possibilista, fedele al verbo dell’ultimo Mazzini, negli anni dell’immediato dopoguerra. Un’attenzione quasi spasmodica al movimento socialista; una distrazione quasi altrettanto costante ai filoni dell’opposizione laica (non meno, per la verità, di quella cattolica).
    Per quanto riguardava la figura centrale di Maurizio Quadrio – un personaggio che ha tanto affascinato il nostro Terenzio Grandi – c’era solo un piccolo libro dalla copertina bianca con due righe celesti, di un amico che conobbi in quegli anni, devoto alla causa mazziniana, Giulio Andrea Belloni, edito nel 1947 dalla casa milanese Crescenti, pressoché sconosciuta, col titolo Maurizio Quadrio e il sottotitolo Profili del Risorgimento in un profilo biografico. Era un libro essenzialmente acritico; un libro in cui i pochi dati biografici affioranti erano sepolti sotto una coltre di aggettivi, incompatibili con lo stile asciutto della storiografia.
    A proposito di Quadrio. Fu proprio per i miei richiami all’Unità italiana, nella storia a puntate del movimento repubblicano pubblicata dal Mondo, che Arturo Carlo Jemolo, in una non dimenticata conversazione al fiorentino gabinetto Vieusseux, parlò dell’intero versante mazziniano come di un “caso di coscienza”, equivalente a una specie di voto di castità politica. Talvolta la linea dell’ascetismo e della separazione politica – commentò il grande storico – vale più delle istituzioni. Io mi riferivo all’Unità italiana come all’organo di un repubblicanesimo domenicano e inflessibile. Anche il termine “domenicano” è poi entrato nell’uso e bene caratterizza le aspre battaglie del filone astensionista, fondate sul “non possumus” verso lo Stato monarchico e censitario.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

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  3. #123
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Contro ogni centro di potere occulto



    Il testo della dichiarazione sulla legge di scioglimento delle associazioni segrete

    Senato, 5 agosto 1981

    Onorevole Presidente, Onorevoli Colleghi, sia consentito al governo prima ancora che inizi in Assemblea, con le relazioni e gli interventi, l’iter conclusivo dei due disegni di legge all’ordine del giorno, di esprimere, ancora una volta, il proprio pensiero sulla portata politica di fondo delle decisioni legislative che sono davanti a voi, al di là dei loro specifici aspetti tecnico-giuridici su cui si pronuncerà, in sede di replica con l’autorità che gli compete, il Ministro Guardasigilli.
    Fin dai suoi primi atti e nella sua stessa piattaforma programmatica, il governo da me presieduto ha assegnato alla complessa e allarmante vicenda che si intitola alla Loggia P2, non solo una priorità del tutto evidente ma anche una importanza emblematica. In effetti, in questa vicenda è confluito torbidamente tutto un modo deviato di intendere e di vivere la realtà dello Stato, che è agli antipodi della trasparenza dell’azione pubblica voluta dalla Costituzione.
    Sulla base dei dati rigorosamente accertati nella autorevole indagine amministrativa disposta dal precedente governo Forlani, è emersa una aberrante concentrazione di influenze amministrative della più svariata natura, insieme connesse in un vincolo di omertà e di coperture inquietanti. Non solo; ma è apparso evidente che questi legami proiettavano un’ombra di indebita privatizzazione sulle strutture pubbliche, disfacendole dai loro fini istituzionali, deviandone e deformandone il senso e gli scopi.
    È contro questa pericolosa degradazione della vita statale che si è posto risolutamente il governo, sia con la presentazione del disegno di legge che, dando organica attuazione dell’articolo 18 della Costituzione, dispone lo scioglimento in via immediata della “P2”; sia con l’emanazione, mediante circolare, di una rigorosa direttiva a tutte le Amministrazioni volta all’apertura di procedimenti disciplinari a carico dei pubblici dipendenti indiziati di appartenenza a tale organizzazione.
    È appena il caso di ricordare che le norme e le procedure in quella sede applicabili sono quelle tipiche del nostro Stato di diritto: mentre daranno luogo alle sanzioni previste dall’ordinamento a carico di quanti si sono macchiati di comportamenti colpevoli legalmente accertati e provati, rappresentano nel tempo stesso la via alla riparazione morale che pure è dovuta a coloro che colpevoli non sono.
    Il governo ha messo a punto la sua proposta di attuazione legislativa dell’art. 18 della Costituzione con attenta preoccupazione di conciliare la difesa dello Stato con la piena garanzia contro ogni insidia al diritto di libera associazione, sacro ad ogni democrazia. Quanto a provvedimenti amministrativi era suo dovere adottarli con energica prontezza perché fosse chiaro a tutti che l’aria della Repubblica è irrespirabile per ogni tipo di intrigante fazioso che voglia tentare, mediante la creazione di centri di potere occulto, di svuotare di contenuto gli istituti della democrazia. Sono entrambe misure di difesa repubblicana, che non consentivano e non consentono indugio.
    Sono perciò grato al Senato per la tempestività con la quale consente che questo elemento prioritario dell’impegno assunto dal governo nei confronti del Parlamento, sanzionato in modo specifico nella mozione motivata di fiducia e tale per sua natura, come ho detto in sede di replica nel dibattito fiduciario alla Camera, da coinvolgere una maggioranza più larga, auspicabilmente, di quella governativa, venga a definizione prima delle vacanze estive.
    L’opinione pubblica, onorevoli senatori, chiede a noi questa pronta azione di difesa repubblicana; non ci sarebbe assoluzione per incertezze, ambiguità, esitazioni in un frangente come questo. Ma essa vuole anche, reclama la verità su una vicenda che ha assunto il significato di una rivelazione di sfondi e fondali fino ad ora impenetrabili della vita nazionale, e che solleva il più ampio tema dei centri di potere in una democrazia di massa: centrali occulte, come in questo caso, o con aspetti e modi d’essere occulti inammissibili in un regime fondato sulla pubblicità e sull’opinione. Dunque, sul controllo.
    Perciò non esiste contraddizione, ma parallelismo e raccordo necessario, fra i due disegni di legge oggi al vostro esame. Occorre agire subito, occorre sapere per l’ieri e per domani. Non si può differire l’attuazione di un principio costituzionale che si è dimostrato, in circostanze drammatiche, essenziale, ma non si può del pari rinunciare alla ricognizione dei guasti che sono stati introdotti nelle nostre strutture statali e nei servizi pubblici essenziali. Dotare la Repubblica fondata sulla sovranità popolare dello strumento immediato per colpire possibili silenziose e insondabili sedizioni è solo una parte del più ampio compito (che esige accertamenti e riflessione) di modellare e rimodellare via via le sue istituzioni in modi che offrano seria resistenza alle deviazioni e alle malformazioni.
    Il problema del raccordo fra i due provvedimenti (essendo ogni inchiesta parlamentare finalizzata in modo precipuo a fornire la necessaria base conoscitiva in vista di pubbliche misure, in buona parte già adottate o iniziate dal governo in epoca successiva a quella in cui l’attuale proposta fu licenziata dall’altro ramo del Parlamento) indubbiamente esiste. E già, del resto, la vostra Commissione lo ha affrontato suggerendo opportuni adeguamenti del campo e dell’oggetto di indagine.
    Sia riguardo a questa, che è materia di squisita competenza parlamentare, sia in ordine ad ogni perfezionamento tecnico di attuazione costituzionale che consenta ancor meglio di tutelare la certezza del diritto di libera associazione, l’esatto rigore e la intera sicurezza di legalità nelle procedure disciplinari, e le altre esigenze avanzate già in sede di dibattito fiduciario e da me a nome del governo allora recepite, noi confidiamo nell’apporto del Parlamento al quale dobbiamo quella ulteriore e più aperta disponibilità che consegue al fatto di operare in materia costituzionale.
    Con un solo, ma pressante, auspicio: che si proceda con la stessa responsabile alacrità con la quale voi, onorevoli colleghi, avete iniziato fino all’approvazione definitiva. Il paese ha bisogno di sapere che la sua sicurezza è affidata a mani ferme, contro ogni forma di intrigo fazioso; che la sua vita pubblica deve poter riposare su ricostituite basi di trasparenza; che l’immagine della nostra democrazia deve essere ristabilita non da giustificazioni e perorazioni, ma mediante congrui e meditati provvedimenti. Attuando la Costituzione, dando uno strumento alla volontà di verità degli italiani, noi tutti sappiamo di adempiere, nella nostra rispettiva sfera, al nostro dovere.

    Giovanni Spadolini, Presidente del Consiglio dei Ministri – Roma, 5 agosto 1981
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  4. #124
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Il compromesso storico

    “La Stampa”, 12 settembre 1974

    Lo abbiamo letto, qualche settimana fa, in un’analisi molto acuta del “Manifesto”. La formula “compromesso storico”, lanciata e giustificata dal PCI per evitare all’Italia uno sbocco cileno, proprio sulla scia del crollo di Allende, un anno fa di questi giorni, potrebbe trasformarsi in una via per favorire una soluzione cilena alla crisi di casa nostra, il blocco di tutte le sinistre in una piattaforma di azione rivoluzionaria. “Il Manifesto”, ovviamente, formulava l’ipotesi come un auspicio: ognuno fa la sua parte. Noi vorremmo riprendere quell’osservazione semplicemente sul piano dell’analisi politica obiettiva e spassionata, in un invito alla riflessione e al dibattito, su un tema che investe il futuro stesso della libertà e della democrazia in Italia.
    L’ “errata corrige” di Berlinguer – riflessa nei tre ampi e meditati articoli su “Rinascita” dopo l’immolazione di Allende, il socialista erede dell’etica di Léon Blum – partiva da un dato molto preciso: escludere per l’Italia un tipo di “via cilena al socialismo” rivelatasi, alla prova dei fatti, una “via cilena al golpe”, un disco verde alla destra militare e fascista. Primo corollario: propugnare un’intesa fra tutte le forze comuniste e tutte le forze cattoliche, opposta al modello di frontismo cileno.
    La caratteristica dell’esperimento di Allende era stata quella di spaccare la democrazia cristiana, isolando la sinistra cattolica dal centro e dalla destra del partito. In una struttura sociale non molto diversa da quella italiana, l’operazione aveva voluto dire fuga dei ceti medi, rottura del meccanismo di sviluppo capitalistico non sostituito da niente, naufragio economico, collusione di molti gruppi di ispirazione democratica – in un paese che non conosceva i “pronunciamenti” – con le forze militari trasformatesi in golpiste. Inflazione e terrorismo avevano creato le condizioni del crollo di un regime che tutti ritenevano solido, al riparo del colpo di Stato.
    Ergo, il massimalismo di Allende doveva essere respinto da ogni ipotesi di “via italiana al socialismo”; il colloquio andava esteso a tutta la DC, senza le distinzioni tra Frei e Tomic, cioè tra Fanfani e Donat-Cattin.
    La formula del compromesso storico, più prossima, filologicamente, al “connubio” di Cavour che non al “blocco” gramsciano, traeva da queste premesse una nota che poteva sembrare rassegnata o pessimistica: accettare le forze come sono, evitare le fughe in avanti, scongiurare la caduta nell’utopia. Respingere ogni Altamirano italiano; isolare i tupamaros domestici; liquidare l’avventurismo, scambiato per progressismo. La parabola anticontestazione del PCI toccava il suo acme.
    Fin da quando Berlinguer elaborò quella formula, tutti ebbero l’impressione di una prospettiva a lunga scadenza, fuori di ogni immediatezza. Ai tempi del primo centrosinistra, proprio nei giorni in cui moriva Togliatti, nell’agosto del ’64, il PCI aveva ben conosciuto il timore dell’isolamento: isolamento da cattolici e da socialisti. Per un momento sembrò, nel crepuscolo di Jalta, che fallissero i due obiettivi storici che il PCI aveva perseguito puntigliosamente dalla svolta di Salerno: il dialogo privilegiato coi cattolici e il collegamento organico coi socialisti, come partito, e sia pure col tempo secondo partito, della classe operaia. L’intesa cattolici-socialisti degli anni ’63-64 prescindeva dall’apporto comunista, tendeva anzi a farne a meno, con la formula della “delimitazione della maggioranza”, tipica di Moro.
    Già con la svolta della “repubblica conciliare”, intorno al ’67, si avvertiva lo svincolamento dei comunisti dalla stretta: opporre al centro-sinistra un’intesa preferenziale coi cattolici, una specie di “via polacca” adattata all’Italia (con la connessa realtà del Vaticano). Oggi il compromesso perfezionava la strategia, tendeva a rimettere il PCI nel gioco, sia pure come forza destinata lentamente ad aggregarsi all’area governativa, e non senza le necessarie distinzioni internazionali: distinzioni che non possono sfuggire a Berlinguer.
    Cos’è successo dal settembre ’73 che giustifichi la fretta di adesso, fretta che legittima l’osservazione del “Manifesto”? Ora i comunisti sembrano inclini a rinunciare ai tempi lunghi, non più soddisfatti del nuovo rapporto maggioranza-opposizione largamente sperimentato nelle vicenda dei decreti fiscali del governo Rumor. Taluni, e non degli ultimi, parlano non più di area maggioritaria, ma di area governativa; è bastato l’articolato e motivato “no” di Fanfani – un no di procedura prima ancora che di sostanza – a eccitare una corsa del PCI verso quello che non si definisce più neppure il “compromesso”, ma la “svolta” (Berlinguer) o l’ “incontro” (Amendola).
    Perché? Il compromesso storico, in queste condizioni, significherebbe la spaccatura della DC nello schema cileno; e le percentuali di Amendola, nella conversazione col collega Barbato, ci sembrano peccare di ottimismo. La situazione economica italiana è giunta ad un punto di tale gravità da giustificare il paragone col Cile nell’ultima fase di Allende. La miscela inflazione-terrorismo opera anche da noi.
    Sono interrogativi legittimi. Qualcuno avanza l’ipotesi (l’ha detto un socialista avversario, e pour cause, del compromesso storico, l’onorevole Mariotti), che il PCI, consapevole dell’impossibilità di spingere l’intera DC sulla via della collaborazione o “cogestione”, voglia farsi dire di “no”, passare a un’opposizione dura. Ricuperare tutti i settori alla sua sinistra, liquidare il nuovo partito di unità proletaria in cui confluisce il “manifesto” (avete letto Pintor?)
    Qualcun altro suggerisce l’ipotesi che la fretta del PCI scaturisca dal timore di aggravamenti della situazione internazionale, tali da non consentire più le inserzioni indolori di questi anni, ora che l’asse Mosca-Washington sembra indebolito dalla caduta del partner di Breznev Nixon e l’equilibrismo di Kissinger appare in difficoltà e i problemi di coesistenza del mondo comunista non sono meno gravi di quelli di coordinamento delle forze atlantiche e occidentali (l’idea di una conferenza comunista mondiale non piace certo a Berlinguer).
    L’ipotesi più probabile è che il partito comunista ritenga talmente deteriorata la formula di centro-sinistra da voler consolidare subito la sua posizione di partito tendenziale di governo, anche se oggi – lo ammettono in molti – sarebbe il primo a non volere o a non poter condividere le responsabilità dell’esecutivo necessarie per superare la crisi, e quale crisi! Non è detto che il calcolo risulti esatto. Le reazioni dei socialisti e di tanta parte della DC (Moro compreso) fanno capire che il PCI potrebbe aver compiuto – a parte tutto il resto – un errore di fondo nella valutazione dei tempi. E nulla, in politica, è più necessario del tempismo.

    Giovanni Spadolini
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)



    di Giovanni Spadolini - “La Voce Repubblicana”, 2-3 settembre 1983


    Agosto 1943. Dopo la caduta della dittatura, i partiti antifascisti riorganizzarono la propria presenza nel paese, puntando con decisione all’obiettivo di evitare ogni restaurazione autoritaria: pericolo evocato da quell’immaginazione di un “fascismo senza Mussolini” che molti democratici intravedono nella guida del governo affidata a Pietro Badoglio.
    Sono giorni di intensa, febbrile e talora convulsa attività politica, non ancora sottratta alla clandestinità per le ipoteche che gli avvenimenti del 25 luglio avevano posto sulla vita nazionale, una formula istituzionale corrispondente ai limiti di un regime militare fondato sulla continuità e quindi insufficiente al pieno sviluppo delle libertà civili e politiche. Così, “La Voce Repubblicana”, il glorioso quotidiano del partito repubblicano che nel ’25 aveva dovuto sospendere le pubblicazioni per la misure restrittive della libertà di stampa, non può riaccostarsi con piena libertà a lettori: dovrà riprendere le pubblicazioni solo nella clandestinità.
    Ecco perché dall’1 agosto del ’43 al 2 giugno del ’44 Giovanni Conti, l’uomo che per un ventennio aveva serbato intatta la tradizione culturale e politica del repubblicanesimo, parallelamente all’attività editoriale legata alla “Libreria politica moderna”, assunse l’incarico delicato e difficile di direttore de “La Voce Repubblicana” clandestina. Un incarico che egli volle affiancare a quello di segretario del partito per l’Italia centrale, convinto che la “Voce” dovesse costituire lo strumento fondamentale col quale condurre la battaglia repubblicana in un paese avviato verso la democrazia.

    Una austera veste tipografica


    Già la veste tipografica della “Voce”, austera e più angusta di quella degli anni ’20, era testimonianza delle difficoltà dell’attività giornalistica dei repubblicani e rivelava l’integrale volontarismo con cui il direttore, insieme ai giornalisti raccolti intorno a lui, tutti i militanti di partito, assicurava la periodicità dell’organo del PRI. Nell’abitazione di Giovanni Conti, all’interno del centro storico di Roma, avveniva il deposito non meno che la distribuzione delle copie, con metodi artigianali i quali comprendevano persino le spedizioni del giornale che, in obbedienza alle regole della clandestinità, non poteva non realizzarsi attraverso comuni buste postali: le sole capaci di ingannare la vigilanza della polizia.
    Clandestino in monarchia, ancora più clandestino sotto il dominio nazi-fascista. Sarà la drammatica e malinconica vicenda dell’8 settembre, con la fuga della famiglia reale da Roma e l’inizio dell’occupazione nazista, a rendere ancora più impegnativa l’attività del giornale repubblicano. La risposta dei repubblicani all’annuncio della partenza di Vittorio Emanuele giunge immediatamente: “Italiani! . scrive la “Voce” – In quest’ora di supremo dolore che mai straziò con tanto pianto l’anima nazionale non abbandonate la speranza, non perdete la fede nella rinascita e nel trionfo della Patria italiana. L’altra Italia che sorge, quella degli eroi e dei martiri delle cospirazioni e delle battaglie del Risorgimento, l’altra Italia, quella di Mazzini e di Garibaldi, quella della guerra della libertà, l’Italia del Popolo, salverà il suo onore, conquisterà il suo avvenire, fondando la Repubblica della giustizia sociale”.
    Era quindi un appello all’ “altra Italia” – il linguaggio che più ispirerà Ugo La Malfa negli ultimi anni – che rivendicava la continuità fra il primo e il secondo Risorgimento nell’affermazione di quel valore della sovranità popolare che esigeva solo una forma di governo: quella repubblicana.
    Perché i repubblicani non aderirono al Comitato di Liberazione Nazionale? Non certo per il desiderio di incrinare l’unità della Resistenza al nazi-fascismo, come dimostra l’attiva partecipazione segnate dalle brigate “Mazzini” e “Cattaneo” non meno che dalle “Squadre di azione repubblicana”.
    Proprio per consentire il coordinamento fra le formazioni partigiane i repubblicani furono presenti nel Comitato di Liberazione dell’Alta Italia e nei numerosi Comitati di Liberazione costituiti a livello provinciale: ma non nel CLN che, all’indomani dell’8 settembre, si costituì a Roma sotto la guida di Ivanoe Bonomi e con la partecipazione del rappresentante nazionale dei partiti antifascisti.
    Al CLN di Bonomi i repubblicani non parteciparono essenzialmente per un motivo, quello che, nella primavera del ’44, sarà all’origine della stessa crisi del Comitato: la pregiudiziale istituzionale che per i repubblicani significava “no” a qualsiasi forma di collaborazione con la monarchia.
    E difatti quella istituzionale è stata la questione che più ha caratterizzato il dibattito interno al CLN, con una divergenza fra le forze politiche che neppure la risoluzione unitaria del 10 ottobre del ’43 riuscì a sanare. “Un governo straordinario”, era stata la richiesta unanime dei partiti del CLN. Un governo che, secondo la risoluzione approvata dopo un intenso dibattito, avrebbe dovuto “assumere tutti i poteri costituzionali dello Stato”. Ma subito il documento aggiungeva: “evitando però ogni atteggiamento” tale da “compromettere la concordia della nazione e pregiudicare la futura decisione popolare”. Erano due affermazioni tali da apparire contrastanti, proprio sull’aspetto fondamentale del rapporto con la monarchia.
    Alla prima affermazione si richiamò Ugo La Malfa quando, in rappresentanza del partito d’azione, affermò che con il documento dell’ottobre ’43 “il Comitato di Liberazione Nazionale” assumeva “tutti i poteri costituzionali dello Stato”. Una dichiarazione destinata ad essere condivisa dai socialisti e, fino alla “svolta di Salerno”, dai comunisti. Ma alla seconda affermazione, quella volta a garantire una sorta di “tregua istituzionale”, si riferiranno i settori moderati per sminuire la scelta repubblicana del CLN. “Per la concordia degli italiani – affermerà il presidente del Comitato Bonomi – occorre accantonare e rinviare tutto quello che, in questo momento, li divide. Perciò, va preso solenne inderogabile impegno di consultare il paese, a guerra finita, sulle forme istituzionali”. La divergenza di opinione persisteva e si aggravava, alla vigilia del Congresso antifascista di Bari, con gli editoriali, divisi sul tema istituzionale, dell’ “Italia libera”, dell’ “Unità”, dell’ “Avanti!”, del “Popolo”. Una divisione che al Congresso barese non consentirà di chiarire definitivamente il rapporto tra il “Governo straordinario” e la monarchia.
    Qual era l’atteggiamento dei repubblicani davanti a quelle contraddizioni? Inizialmente di attesa, forse nella speranza che potesse prevalere la pregiudiziale istituzionale avanzata soprattutto dagli azionisti, fratelli di sangue del PRI, al repubblicanesimo, legati da una comune tradizione di sinistra risorgimentale. Una tradizione di sinistra “politica” volta a privilegiare il momento istituzionale.
    Così, “La Voce Repubblicana” evitò una troppo facile condanna delle incertezze del CLN: “La conclusione del Congresso (di Bari) è stata quella che si poteva prevedere: essa ha sottolineato le sue premesse, cioè il proposito dell’unione delle volontà antifasciste nella lotta per la libertà; l’invito alla abdicazione al vecchio monarca; il proposito di costituzione d’un governo provvisorio per la guerra nazionale e la Costituente”.
    Quindi l’organo del PRI continuava: “Speriamo che il futuro Congresso faccia di più. Meditando la parola di Benedetto Croce: coloro che in Itala si qualificano ancora monarchici non sono liberali veri, superi dubbi ed esitazioni e ci prepari la Costituente per la Repubblica”.
    Ma anziché superamento in senso repubblicano dei “dubbi” e delle “esitazioni” si realizzò la “svolta di Salerno”: quella che limiterà, all’interno del CLN, la “pregiudiziale istituzionale” ai soli azionisti e socialisti, per la volontà di Togliatti di non rifiutare la propria collaborazione alla monarchia e dal sottile complesso calcolo che quella posizione sottintendeva.

    I repubblicani e il CLN

    E con amaro ricordo delle attese suscitate dal Congresso di Bari, la “Voce” scriveva: “abbiamo sulla coscienza il peccato di un dolcificato commento, di parole di incoraggiamento”.
    Ecco perché il partito repubblicano si allontanerà sempre più dal CLN, in una posizione di altero distacco dai governi dell’ “esarchia”.
    Saranno gli anni fra il ’45 e il ’46 in cui si getteranno le premesse del successo elettorale delle liste dell’edera, nelle elezioni per l’Assemblea Costituente abbinate al referendum istituzionale: allorché oltre un milione di italiani (la più alta percentuale, il 4,4%, fino al risultato del 26 giugno ’83, con 41 parlamentari e il 5,2 alla Camera) confluiranno nelle liste repubblicane. Raccogliendo anche fermenti di protesta e di stanchezza verso la gestione “ciellenistica” (che Pacciardi aveva saputo sfruttare abilmente), utilizzando l’orgoglio dell’autonomismo repubblicano contro le tentazioni frontiste e bloccarde di varia specie, intrecciando il voto fedele delle isole storiche del repubblicanesimo con i singolari consensi di città come Roma, dove la tradizione della lontana Repubblica di Mazzini e la vicinanza dei Castelli non bastavano a spiegare le punte raggiunte.
    Una fase storica che si chiudeva, com’era giusto, col referendum, con l’avvento della Repubblica. Il 13 luglio 1946, dissoltosi con il referendum istituzionale il timore della restaurazione della monarchia, il PRI non negherà il suo diretto contributo alla formazione del secondo governo De Gasperi mentre si aprono i lavori dell’Assemblea Costituente. Dove il partito repubblicano potrà realizzare il principio da cui era stato guidato negli anni della clandestinità: quello della Repubblica come “casa amplia, ariosa e illuminata, senza cancelli e inferriate, senza trabocchetti e ad un solo piano nel quale tutti i componenti della famiglia possano convivere fiduciosamente, discutere”. Ed è il motivo per cui il partito repubblicano resterà sempre per antonomasia il partito della Repubblica. Partito di governo anche quando, e soprattutto quando, si batterà contro il non-governo.

    Giovanni Spadolini

    https://www.facebook.com/notes/giova...54550007969938



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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)


    La parabola della terza forza







    “La Stampa”, 30 maggio 1980.
    Poi in G. Spadolini, “L’Italia di minoranza. Lotta politica e cultura dal 1915 a oggi”, Le Monnier, Firenze 1983


    Fine novembre 1947 – primi dicembre 1948. De Gasperi manovra una crisi guidata di governo che non ha precedenti nel corso del dopoguerra e che non conoscerà altri duplicati nella storia della repubblica. È una “crisi-non crisi”. Il presidente di un gabinetto monocolore, sia pure con largo apporto di tecnici, qual è quello costituito nel maggio 1947, dopo l’esclusione di comunisti e socialisti, riesce ad “imbarcare” tre diversi partiti nella compagine ministeriale senza rassegnare neanche formalmente il mandato nella mani del capo provvisorio dello Stato, senza passare attraverso la defatigante trafila dei negoziati rituali.
    La formula del quadripartito, che dominerà gli anni centisti, nasce attraverso un rimpasto: calcolato, graduato in ogni mossa, nelle parole non meno che nei silenzi. Accanto e Luigi Einaudi, che è già vice-presidente del consiglio ma a titolo personale e tecnico, senza diritto di rappresentare il PLI, vengono a sedere Giuseppe Saragat e Randolfo Pacciardi. Il primo è il capo di un partito che non ha compiuto ancora un anno di vita, che è sorto da una tormentata scissione, quella del PSI, non senza ambizioni e venature di “terzaforzismo” rappresentativo dell’intera area socialista e ostile a ogni collaborazione a breve termine con lo scudo crociato, anzi tendenzialmente alternativo ad esso.
    Pacciardi guida un partito, di assoluta intransigenza istituzionale e di accentuato riformismo sociale quale il repubblicano, che ha segnato una sua linea peculiare nell’intera vicenda post-bellica, non ha aderito ai CLN perché imputati di eccessiva condiscendenza verso la monarchia (anche attraverso le attenuate sembianze del luogotenente), ha mantenuto fede fino ai primi del ’47 a una prospettiva di larghe intese, oggi diremo di solidarietà nazionale, estesa a tutta la sinistra istituzionale.
    I connotati di centro-destra, con cui è sorto il monocolore del maggio, in coincidenza con la crisi internazionale, sono improvvisamente e accortamente rovesciati. Entrano pleno jure nel governo due partiti di centro-sinistra, anzi le due forze emblematiche della sinistra democratica: di estrazione marxista-riformista la prima, di matrice laico-riformatrice la seconda. Il “quarto partito”, quello dei ceti produttivi, di cui aveva parlato maliziosamente De Gasperi e che si rifletteva nei disegni tecnici del precedente ministero (da Cesare Merzagora a Gustavo Del Vecchio), è bilanciato e quasi contrappesato dalle rappresentanze organiche di due forze che stanno su un versante avanzato della vita italiana e vogliono restarvi.
    Sforza era già nel governo, alla guida degli esteri, ma come indipendente repubblicano, senza impegnare il partito, il differente e ancor sospettoso partito dell’edera. Una diffidenza e un sospetto che si erano ampiamente rivelati nel corso della crisi, pur fra i contrasti delle posizioni interne al partito: ostile, nella vecchia classe dirigente, se non ad appoggiare, almeno a concedere una “tregua”, un periodo di attesa a De Gasperi, come altri avrebbero desiderato. Non a caso la partecipazione al ministero di Sforza (nonostante il consenso di fondo sulla linea di politica estera da lui stesso impressa), sarà oggetto di severe critiche da parte di alcuni membri del partito. Né sarà sufficiente – nel successivo dibattito sulla fiducia – a orientare il PRI (rifugiatosi in un voto “negativo di riserva”) verso l’astensione, sì da differenziarsi sia dalle destre che dalle sinistre.
    Contemporaneamente De Gasperi aveva puntato a consolidare anche la collaborazione liberale, sulla sponda opposta dello schieramento politico, quella di centro-destra dove si era collocato proprio in quei giorni il PLI. Col suo quarto congresso, coincidente con quella essenziale svolta, il partito di Croce ha fatto getto di ogni superstite collocazione “democratica” per imboccare una via di aggressivo e ostentato conservatorismo, la via della segreteria di Roberto Lucifero, più monarchico che liberale, senza nemici a destra, tanto è vero che apre alle falangi sbandate dell’ “Uomo qualunque”, quando il qualunquismo di Giannini è già a pezzi, è entrato in una crisi irreversibile.
    Lo stesso Croce lascia, e non solo per un moto di stanchezza, la presidenza effettiva del partito per ripiegare su quella onoraria: sostituito da un notabile meridionale galantuomo incapace di contenere l’ondata emotiva di destra che culmina del “blocco nazionale”, cioè Raffaele De Caro. I ministri liberali restano gli stessi del monocolore, cioè Einaudi e Grassi: con un diverso e più intenso grado di rappresentatività rispetto a un partito, che comunque divarica la sua linea rispetto a quella di repubblicani e socialdemocratici.
    Nel suo accorto e sapiente trasformismo, De Gasperi va più in là: stringe l’occhio anche ai qualunquisti (fra parentesi: è il partito di Giannini che ha salvato il monocolore, senza contropartite, pochi mesi prima), punterebbe ad avere anche una rappresentanza qualunquista, magari simbolica o di area, nel nuovo governo centrista. Il no di Saragat non meno che di Pacciardi è irremovibile; il presidente trentino deve rinunciare a un troppo scoperto contrappeso a destra, utile anche per tacitare le fronde moderate cattoliche, il mondo alla Gedda.
    È quella la “maschera del centrismo?”. Così la chiama, con espressione polemica e appassionata, Orazio M. Petracca, un politologo che conosce la storia, in un libro stimolante che Mondo economico ha pubblicato a puntate nel 1979 uscito poi anche in volume: Storia della prima Repubblica (un titolo che forse non è dell’autore, che neanche rispecchia, nella sua arbitrarietà, lo sforzo di interpretazione che corre lungo l’intera indagine).
    “Verso la fine del 1947 – scrive Petracca – fra le ultime settimane di novembre e gli inizi di dicembre, rovesciando improvvisamente le loro posizioni, sia i socialdemocratici sia i repubblicani decidono di entrare al governo e vi impegnano personalmente i loro leaders, Saragat e Pacciardi, mentre entra contemporaneamente il partito liberale”. Giusto, ma attenzione a parlare di “rovescio improvviso di posizioni”. Già si è accennato al dibattito interno al PRI in occasione della sofferta decisione di votare contro il monocolore, in una fase delicata di definizione della collocazione e della linea politica, dopo il maturarsi della contrapposizione rigida, lacerante, fra la DC spostata a destra e le sinistre di ispirazione marxista.
    Nell’ambito del generale schieramento delle sinistre, si delineano due posizioni nettamente distinte, che hanno in comune la difesa della Repubblica e la tutela della società dei lavoratori, ma in una concezione sostanzialmente antitetica. Repubblicani e socialdemocratici, da un lato, intendono difendere gli interessi della classe operaia nel pieno rispetto del metodo democratico; la visione della sinistra marxista è molto più complessa, l’accettazione della “democrazia protetta” da parte di Togliatti non attenua la dipendenza dal modello sovietico almeno per il PCI.
    Repubblicani e socialdemocratici respingono in quei mesi ogni proposta di “fronte di sinistra” ispirato e guidato da Togliatti e da Nenni; definiscono una linea di dialogo con la DC, nel mantenimento di una posizione di sinistra democratica autonoma, volta a orientare il partito di De Gasperi a sinistra, o meglio al “centro-sinistra”, in luogo del “centro-destra” che lo statista trentino si è visto costretto – almeno sul piano dei voti parlamentari – a realizzare.
    È il senso profondo di quel documento del PSDI che lo stesso Petracca riporta, in vista di spiegare la partecipazione al governo dei due partiti: “La presenza dei nostri due movimenti – sono le parole testuali – in seno alla compagine ministeriale, mentre scarta il pericolo, latente nel passato governo, di uno slittamento verso le forze della reazione politica e sociale, determina nel nostro paese una situazione nuova che, rompendo con le incertezze da cui questo recente periodo della vita nazionale è stato offuscato, apre alle classi lavoratrici prospettive sicure di un migliore avvenire”.
    È quello del dicembre ’47, secondo Petracca, il momento decisivo in cui si afferma l’idea degasperiana di una DC che sta al centro dello stesso sistema centrista e che perciò è contemporaneamente insostituibile e irresponsabile. Insostituibile perché rappresenta il punto di coagulo di interessi contrastanti, sul filo di una mediazione senza limiti; irresponsabile perché scarica tutte le tensioni e le contraddizioni sui propri alleati, opportunamente e sapientemente collocati sulle due ali, centro-destra e centro-sinistra, quasi a elidersi e neutralizzarsi a vicenda. Al centro della storia della Repubblica, della prima ma noi diciamo di questa Repubblica, della nostra Repubblica: la politica delle alleanze perseguita dalla DC coi partiti laici. Date le particolari caratteristiche della borghesia italiana – ecco la tesi di fondo dell’autore – l’area intermedia fra la DC e il PCI occupata dai partiti laici è rimasta più un residuo elettorale che uno spazio di presenza e di iniziativa politica. Il principio della democrazia minacciata o assediata, su cui si è retto il centrismo ma anche in modi diversi il centrosinistra, ha impedito un qualunque sviluppo della dialettica democratica, nel senso di consentire la nascita di una “terza forza”, effettivamente determinante nel rapporto bloccato del bipartitismo imperfetto, dc-comunisti.
    Questa indagine singolare è tutta centrata sul fallimento della terza forza. Estimatore e studioso attento di La Malfa, Petracca individua nel leader repubblicano il solo statista che abbia avuto un’idea pragmatica e realistica della possibile alternanza terzaforzista nel corso degli anni che vanno dal ’49 al ’62: non tanto aggregazione esteriore o verticistica di partiti diversi (il sogno dell’ “alleanza laica” che ritorna ad ogni elezione), quando l’individuazione di un terreno politico e sociale di azione, attraverso la saldatura dei ceti produttivi con un disegno riformatore della società. Non si tratta tanto di “unire i tre partiti”, ma di sviluppare un disegno più vasto: “Si tratta di associare a questo sforzo… movimenti e organizzazioni democratiche che traggono la loro origine dal mondo sindacale e del lavoro, dal mondo della cultura, da quella della resistenza antifascista e della lotta partigiana, dalla gioventù universitaria e non universitaria, da tutti quegli altri campi nei quali si articola la vita associativa di un paese retto a democrazia”.
    “La Malfa mette coi piedi in terra il discorso della terza forza – osserva Petracca in una pagina successiva - . Ma è appunto il pragmatismo della sua concezione a rendere evidente quello che manca a una terza forza intesa come unità delle forze laiche: quello che le manca è proprio la terra sotto i piedi, cioè quella base sociale di appoggio che dovrebbero darle i ceti borghesi”. “Masse per un partito”: secondo il titolo di una polemica famosa di Ugo La Malfa con Gaetano Salvemini nel 1954. Sulle colonne del Mondo di Mario Pannunzio – una esperienza decisiva nella storia della sinistra democratica italiana di questa dopoguerra, e nella stessa parabola intellettuale di La Malfa – il grande storico pugliese aveva auspicato una fusione fra liberali socialdemocratici e repubblicani. La Malfa aveva intitolato la replica, destinata al Mulino, con un’espressione rivelatrice e illuminante: “masse per un partito”. Quasi a riprendere il giudizio di Togliatti sul partito repubblicano come “piccolo partito di massa”, inserito in una realtà popolare e di sinistra che non poteva essere liquidata a vantaggio di operazioni di vertice, astratte o meccaniche.
    Fautore, sì, La Malfa, della terza forza, ma di un certo tipo di terza forza, democratica e riformatrice, non di generici “blocchi laici” “il compito di chi guarda alla democrazia come problema angoscioso della vita italiana – sono le parole conclusive di quello scritto di un quarto di secolo fa, ancora attualissimo – è di non perdere le sementi democratiche socialiste e risorgimentali e post-risorgimentali che ancora esistono e di costruire su di essere il partito di una più civile e moderna Italia”.
    “Democrazia repubblicana”: era stato non a caso il movimento, emblematico e riassuntivo di tutta la concezione del mondo, al di là della sua labilità temporale, che egli aveva guidato dopo la scissione azionistica e che aveva riunito i migliori cervelli di una certa Italia crociana ma senza i limiti politici del maestro, nutrita alla laica religione della libertà ma senza inibizioni e chiusure moderate, erede della scuola democratica risorgimentale nella sua permanente e mai sopita dialettica con la scuola liberale: De Ruggiero, Salvatorelli, Omodeo, Ragghianti, Montale, Vinciguerra, vicino anche Brosio. Dalla fine del ’46, il suo ingresso nel partito repubblicano gli consentirà, col tempo e non senza forti resistenze, di articolare uno strumento politico omogeneo al quale affidare, nel corso del trentennio post-1948, funzioni di anticipazione, di elaborazione intellettuale o di condizionamento politico ben maggiori di quelle consentite da una forza elettorale sempre modesta. Un trentennio che si divide fra la segreteria di Oronzo Reale, amico e compagno inseparabile, e la sua stessa segreteria e poi presidenza.
    “Se gli elettori fossero stati meno avari con noi!”: era una delle immagini cui ricorreva più spesso questo leader di una forza di minoranza che era egualmente riuscito a esercitare una influenza determinante in momenti fondamentali della storia nazionale. Prima col centrismo degasperiano, il ministro del Commercio Estero di De Gasperi, l’uomo della liberalizzazione degli scambi e del primo riordinamento delle partecipazioni statali (quanto diverse da quelle, devastate, di oggi); e poi col centro-sinistra, il ministro del bilancio di Fanfani, l’autore della nota aggiuntiva e il precursore della politica di programmazione e controllo dei redditi; infine negli anni tempestosi dell’emergenza, gli anni che egli ha pagato con un impegno quotidiano, di dedizione illimitata, di abnegazione senza risparmio di forze, al limite del sacrificio.
    L’analisi di Petracca è suggestiva. Ne abbiamo discusso a lungo a Milano, in una tavola rotonda promossa da Mondo economico, una rivista che conserva ancora i segni dell’antica nobiltà azionista. Ma c’è un punto che sfugge all’analisi del politologo: la differenza fra le due versioni della “terza forza” che hanno dominato il corso del dopoguerra.
    L’autore ne accenna qualche volta, ma non sviluppa mai il discorso, non lo precisa. C’è un “terzaforzismo” laico e riformatore, non socialista, volto a creare un polo di aggregazioni delle forze democratiche avanzate, in senso “liberal”, cioè progressista. È quello di La Malfa. E c’è un “terzaforzismo” socialista, e agli inizi perfino socialdemocratico, che tende a coagulare una forza di origini operaiste e marxiste, ma contrapposta al duopolio DC-PCI, si manifesti in forme di contrapposizione o di compromesso storico. Nel primo caso, la terza forza si colloca fra la DC e una sinistra tendenzialmente unita. Nel secondo, la terza forza si identifica con un partito socialista riformista contrapposto a una DC, immaginosamente respinta a destra, e a un PCI, cui viene riconosciuta di fatto l’egemonia sul movimento operaio.
    Sono due strade del tutto diverse, dagli sbocchi presumibilmente opposti. Impossibile fare previsioni sul futuro. Certo Petracca non ha torto quando pone il problema della legittimazione democratica del partito comunista. “Non si potrebbe neanche parlare di terza forza – sono sue parole – se le altre due non sono egualmente legittimante e pieno titolo come forze costitutive del sistema politico”. Non è una scelta; è una constatazione.

    Giovanni Spadolini



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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)


    Il “nostro” Garibaldi

    “La Voce Repubblicana”, 1-2 giugno 1982


    L’amico Oronzo Reale, che conosce tutto della storia e dell’anima del repubblicanesimo italiano, ci diceva giorni fa del sentimento complesso di simpatia e di rampogna che caratterizzava i vecchi repubblicani prefascisti nei riguardi di Giuseppe Garibaldi. Un sentimento complesso nel quale si univa il fondo libertario, popolare, generoso del vecchio repubblicanesimo – portato ad identificarsi con la leggenda garibaldina, nelle sue scaturigini repubblicane e nella sua costante fedeltà democratica – e insieme un senso di insofferenza e di protesta per la formula “Italia e Vittorio Emanuele”, in base alla quale i mille di Garibaldi erano partiti da Quarto e avevano conquistato il Regno del Sud, avviando quella soluzione monarchica e centralistica dell’unità che si era riassunta nel geniale compromesso di Cavour.
    Nelle zone più tradizionali del repubblicanesimo tale sentimento di complessità e, vorremmo dire, di duplicità non è stato mai superato. In un’intervista al quotidiano “Repubblica” di qualche mese fa ricordavo il silenzio che aveva accolto a Forlì il nome di Garibaldi e il riferimento al centenario, l’8 febbraio di quest’anno, in una solenne commemorazione nel palazzo comunale volta a ricordare Aurelio Saffi e le glorie della Repubblica Romana del 1849.
    “Segno – avevo aggiunto – che il culto di Garibaldi è meno forte nelle roccheforti repubblicane della Romagna (con l’eccezione del culto ravennate, alimentato dal mito di Anita)”. Concludevo, in quell’occasione: “ecco un segno indicativo di un filone puritano, intransigente, ortodosso, che Aurelio Saffi ha incarnato come pochi altri. Garibaldi rappresentò un po’, in quella prospettiva, una contaminazione”.
    Sono dati reali, che affondano nelle contraddizioni dell’unità nazionale, in quella che Oriani chiamava “la composizione unitaria” solcata da dilaceramenti e da contrasti d’animo che non furono mai placati, neanche nel campo della sinistra democratica e repubblicana. Sono dati reali; ma non meno reali sono i dati delle migliaia di immagini e di ritratti di Garibaldi disseminati nelle sezioni repubblicane, soprattutto in quelle più carbonare, più catacombali, caratteristiche proprio del partito popolare, del partito del Lazio, della Maremma, del Carrarino, delle Marche, di talune plaghe della Lombardia e di parte della stessa Romagna.
    Certo, il Garibaldi amato dai vecchi repubblicani è il Garibaldi della Repubblica romana del 1849 molto più che il Garibaldi generale dell’esercito regio. È il Garibaldi della cospirazione mazziniana, il Garibaldi conquistato alla parola fascinatrice e divinatrice della “Giovine Italia”, il Garibaldi promotore della battaglie congiunte per la patria e l’umanità, in cui si rispecchiava un frammento della grande religione mazziniana del Dio e popolo, molto più che il Garibaldi del 1860, o il Garibaldi di “obbedisco”, o il Garibaldi che accetta il “dono nazionale” della Monarchia.
    Ma c’è un terzo Garibaldi che non mancava mai nelle case dei vecchi repubblicani e conserva un culto pressoché unanime del partito: è il Garibaldi di Aspromonte e di Mentana. La “Rivista popolare” che era tutta di ispirazione repubblicana, dedicò un numero unico, il 20 settembre 1912, alla vicenda dell’Aspromonte, con questo sottotitolo: “il più gran delitto della monarchia italiana”. Erano due fascicoli riuniti, il 16 e il 17, dell’annata 18a, 1912. E quasi negli stessi mesi usciva un volume di Giuseppe Pomelli intitolato: Aspromonte – Mentana e le bande repubblicane in Italia nella primavera del 1870. Si stabiliva così un congiungimento diretto fra i moti alimentati dall’esule di Caprera in vista di congiungere Roma all’Italia, liberandola dal temporalismo ecclesiastico, e quello che fu il movimento dell’ “Alleanza repubblicana universale” di Giuseppe Mazzini, culminato con la fucilazione del caporale Pietro Barsanti.
    L’editore del volume di Pomelli era lo stesso che aveva iniziato, nel 1910, alle soglie del cinquantenario dell’Unità, la rivista intitolata “Garibaldi e i garibaldini”.
    Nel generale ferito ad Aspromonte dalle palle regie i vecchi repubblicani identificavano in qualche modo l’uomo che attuava il messaggio mazziniano della “terza Roma” e che gli conferiva il sigillo di una battaglia combattuta fino al rischio, evitato sul ciglio, della guerra civile.
    Quel Garibaldi del 1849, di Velletri, di Aspromonte e di Mentana è oggi nel cuore di tutti i repubblicani italiani. I quali, nutriti come sono al culto carducciano dell’unità, non piegarono mai ai miti devastatori del dannunzianesimo, e possono ripetere oggi, con la stessa secchezza del giudizio del poeta: “egli fu italiano e uomo di libertà prima di tutto. Repubblicano per natura e per educazione”. Senza aver bisogno di aggiungere altro.

    Giovanni Spadolini
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Novant’anni fa il Partito Repubblicano (1985)

    “La Voce Repubblicana”, 1-2 novembre 1985


    Il partito repubblicano compie novant’anni, ma il 1895 solo formalmente si può considerare il termine a quo della storia del PRI.
    In verità, come io stesso mi sforzai di dimostrare nelle pagine, vecchie di trentacinque anni, su I repubblicani dopo l’Unità (apparse sul “Mondo” di Mario Pannunzio ma riunite in volume nel 1960, dopo attente ricerche, in cui mi fu di grande aiuto un repubblicano di vecchia scuola, il senatore Giovanni Conti), il 1895 rappresenta – prima con la riunione a Milano e poi con il congresso a Bologna, il 1° novembre – l’anno decisivo del “riordinamento” del partito, non più sul piano del vecchio profetismo e millenarismo, non più con le armi del solo cooperativismo e del solo associazionismo, non più con certe intolleranze storiche e con certe minacce verbali, di catastrofismo venato da punte messianiche.
    Storicamente, il repubblicanesimo italiano ha origini molto più lontane, risale addirittura alla creazione della “Giovine Italia”, quando nel 1831 Mazzini aveva dato vita a un organismo politico, che rappresenta il prototipo dei partiti moderni, con un programma ben definito (la repubblica una, indipendente, libera, indivisibile), con una rete organizzativa capillare, un sistema meticoloso di iscrizioni e di finanziamenti, un’opera intensa di propaganda, di proselitismo, di “apostolato”, come si diceva nel linguaggio del tempo, carico di altre motivazioni etiche e civili.
    E dalla “Giovine Italia” l’obiettivo della democrazia repubblicana continuerà a rimanere vivo nella “Associazione Nazionale Italiana” durante gli anni, eroici e sfortunati, del ’48-’49: si rafforzerà ancora meglio col Partito d’Azione, nel periodo decisivo della maturazione dell’unità; troverà altri proseliti intrepidi e valorosi dopo il 1866 in quella “Alleanza Repubblicana” che riunirà – per usare le stesse parole mazziniane – “le mille Associazioni locali”, così da dare consistenza e forza politica a nuclei sparsi, altrimenti impotenti a realizzare il programma, grandioso e ambizioso, dell’unità repubblicana, dell’uguaglianza di tutti i cittadini “nell’ordine sociale”, della “fratellanza dei popoli” attraverso il primo passo degli Stati Uniti d’Europa.
    Più tardi, dopo il ’70 e fino alla crisi che nel ’95 porterà alla “rifondazione” del partito, le sorti del movimento repubblicano, scosso dai rapporti tutt’altro che tranquilli fra le due correnti – quella “associazionista” e quella “collettivista” – finiscono per confondersi con le vicende operaie; e persino la lotta politica, in senso completamente antimonarchico, si combatte al coperto delle formule cooperativistiche, nel chiuso di quelle sedute che erano volte a discutere problemi di salario o di igiene o di cooperazione, ma nel contempo guardando sempre a un traguardo più lontano e più alto. Quello, appunto, che dopo il periodo dei Mazzini e dei Cattaneo, dei Ferrari e dei Mario, dei Quadrio e dei Saffi, tutti intesi a considerare il partito come espressione di coscienza, come atto di fede, come disciplina interiore, provoca una completo cambiamento di metodo, di orientamento, di stile. Chi ricostruisce il partito, anzi chi gli dà una struttura, un’organizzazione, una dimensione moderna, capace di rispondere alle nuove esigenze della lotta politica nell’Italia che chiude il secolo del Risorgimento con le cannonate del Novantotto, sarà l’ala dei giovani, il gruppo di quanti, come De Andreis o Chiesa, Taroni o Federici, Gaudenzi o Ghisleri, ha assistito al decadere del “patto di fratellanza”, al fossilizzarsi delle “società artigiane”, alla degenerazione verbalistica, esteriore e ritualistica di una democrazia tutta gesti, comizi e cortei.
    “Definirsi o sparire” sarà il motto, icastico ed eloquente, di Giovanni Bovio contro lo stesso “confusionismo” dell’Estrema Sinistra, quando i convinti sostenitori di una autentica democrazia repubblicana dovranno combattere una non facile battaglia su due fronti. Da una parte contro il massimalismo dei socialisti, preoccupati solo di conseguire determinate trasformazioni economiche; dall’altra, contro il possibilismo collaborazionistico dei radicali, desiderosi di “trasformare” a tutti i costi la monarchia e di attirarla nella loro orbita.
    E per fronteggiare gli uni e gli altri, per “definirsi” e far sentire il peso delle loro ragioni, la forza dei loro convincimenti ideali, ecco che i richiami a Mazzini si stemperano, o almeno si accompagnano coi richiami, altrettanto vigorosi, a Cattaneo. Ecco che vengono in primo piano i problemi della fondazione dello Stato, l’ordinamento regionale, la questione meridionale, la riforma della burocrazia, la ricostruzione della magistratura, la revisione tributaria, la lotta contro il protezionismo e il monopolismo, il rinnovamento degli enti locali, l’ampliamento della vita comunale e municipale.
    Sono temi capaci di dimostrare da soli l’impegno di una presenza, che era stata decisiva nei momenti cruciali di tutto il risorgimento, e che adesso nei decenni inquieti del nuovo secolo, dal periodo del giolittismo alla grande guerra, e poi alla lunga deviazione del fascismo, e durante le fatiche della ricostruzione e della ripresa democratica, metterà alla prova gli uomini di questa intransigente sinistra democratica, avversaria implacabili delle troppe, pesanti compromissioni fra demagogia e malgoverno, e credenti convinti, con un fervore quasi protestante, in un destino chiaramente europeo dell’Italia, fuori dalle assurde ipoteche dell’isolazionismo e dai pennacchi dell’autarchia, come pure fuori dalle equivoche tentazioni mediterranee. La linea che da Sforza ci porta a La Malfa.
    Da Mazzini a Cattaneo, i due maestri del repubblicanesimo classico, che si identifica con tanta parte della storia del nostro risorgimento fino a Conti e Zuccarini, i due esponenti più moderni, che insieme a Facchinetti e a Sforza, fino alla sintesi finale di La Malfa, danno la misura del contributo del repubblicanesimo contemporaneo alla fase della fondazione della democrazia, nell’Italia della Costituente in poi. Ecco, affiancati quasi in una simbolica galleria di ritratti, i profili di alcuni fra i maggiori esponenti di quella che ci appare un’ “Italia di minoranza”, ma che rimane altresì un’Italia fondata su valori di qualità, di individualità, di critica: un’Italia, insomma, come immagine dell’antiretorica, come sinonimo del buongoverno: fuori dagli schemi di un liberismo antiquato, ma contro tutte le suggestioni di un collettivismo pauperista.
    Possono essere diversi i temi affrontati: la riforma della scuola, per cui si batterà con tanta coerenza Ghisleri; il riscatto del mezzogiorno, che impegnerà Colajanni; la battaglia per una democrazia vivente nell’appassionato contributo di Conti alla Costituente; la difesa delle autonomie locali contro il centralismo burocratico e autoritario, nell’azione tenace di Zuccarini. Eppure, al di là dei singoli argomenti, che sollecitano il contributo operoso dei repubblicani con quell’istinto, quell’inquietudine, quel desiderio di una democrazia più moderna, più spontanea, più organica, domina ogni volta in ciascuno il disprezzo tagliente per il “trasformismo”, e per ogni deteriore operazione di potere, il rifiuto per tutte le velleitarie macroriforme, che a parole vorrebbero essere punitive e nei fatti finiscono per diventare pasticcione e confuse, creando soltanto speranze deluse e alimentando risentimenti rancorosi.
    Oggi, l’esempio degli uomini di questa Italia di minoranza acquista un significato etico-politico, che va ben oltre i residui liturgici o le fedeltà agiografiche (perché c’è anche un’agiografia laica). Malgrado tante delusioni e tanti disinganni, noi continuiamo a credere che ci sia ancora un’Italia laica, operosa e civile, un’Italia rispettosa di tutte le fedi, un’Italia per cui vale la pena di battersi nel segno di una continuità storica, che si identifica col segno stesso della giustizia e della libertà.

    Giovanni Spadolini
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Porta Pia, la Chiesa e l’Italia



    “Corriere della Sera”, 9 agosto 1970


    Un articolo dell’ “Osservatore Romano”, firmato da un galantuomo e da un democratico come Federico Alessandrini, anticipa la linea della Santa Sede per le imminenti celebrazioni del 20 settembre 1870, la storica data legata alla fine del potere temporale dei Papi e alla nascita di Roma italiana, “il più grande giorno del secolo XIX” come disse uno storico che non era romano e neppure italiano. È una linea prudente e circospetta, è una linea che, pur di giustificare la posizione del Vaticano cent’anni fa, tende a giustificare tutto e tutti a posteriori, Pio IX non meno del generale Cadorna, proponendo una soluzione “senza vincitori né vinti”.
    Ci dispiace di non essere d’accordo con l’eminente collega. Sul piano della storia, cioè delle forze vive che nella storia contano, il vincitore ci fu: e fu la causa dell’unità d’Italia, fu la causa dello Stato italiano nazionale e indipendente, sempre contraddetta, contrastata o ritardata dall’esistenza del potere temporale dei pontefici (non ripetiamo Machiavelli).
    È impossibile rendere lo stesso omaggio, tranne che sul piano della cristiana pietà, al generale Kanzler, che comandava quella specie di Legione straniera al servizio del pontificato civile crollante, e al generale Cadorna, che con infinite esitazioni d’animo, e turbamenti, e lacerazioni ordinò contro voglia, da cattolico praticante quale era ma da servitore fedele del nuovo Stato, l’apertura della breccia di Porta Pia.
    Non c’è dubbio, sarebbe stato infinitamente meglio entrare in Roma senza sangue. Era il sogno perseguito da Cavour fino alla morte. Fu il sogno coerente e tenace di tutta la classe dirigente liberale, dal 1861 al 1870. Se quell’obiettivo non fu raggiunto, ciò avvenne essenzialmente per la resistenza dell’intransigentismo vaticano, sommata alla linea ferrea del non possumus teologico verso il liberalismo moderno, e verso le civili libertà, che si riassume nella condanna del Sillabo non meno che in quella del Concilio Vaticano I, il Concilio dell’infallibilità per intenderci.
    Il generale Kanzler, sul terreno storico, non è diverso dal Re di Napoli o dal Granduca di Toscana, i vinti del Risorgimento. Il temporalismo armato morì per sempre in quell’alba del 20 settembre 1870, come era morto undici anni prima, e per sempre, il potere dei Lorena in Toscana o nove anni prima quello dei Borbone a Napoli.
    Nessun equivoco, quindi, è possibile, sul piano dei rapporti fissati dalla storia. Ma sul piano delle idee? Lì c’è un altro vincitore, sul quale non sono egualmente consentiti né doppi sensi né qui pro quo: e quel vincitore è la libertà, la libertà politica e religiosa, la libertà figlia del mondo moderno che, affrancando la Santa Sede dalla infinite umiliazioni e compromissioni del potere temporale, avrebbe permesso nel giro di pochi decenni una nuova primavera di energie religiose e di fermenti spirituali destinata a culminare nel Concilio giovanneo.
    L’ “Osservatore” non accetta la tesi che il 20 Settembre abbia rappresentato una “data provvidenziale”, per i cattolici non meno che per i laici: quasi un ponte fra le due rive del Tevere. Era una tesi di origine laica, ma che poteva benissimo incontrarsi con le vie della Chiesa attuale, della Chiesa post-conciliare: primo passo verso quella grande “concelebrazione” fra i due mondi divisi cento anni fa che un socialista anticlericale come Pietro Nenni aveva auspicato per il centenario di Mentana.
    È, diciamolo pure, una occasione perduta. Il centenario del 20 Settembre è una ricorrenza troppo rara per non approfittarne. Gli ultimi venticinque anni della vita italiana, gli anni di questa tormentata Repubblica, hanno già visto troppe lacerazioni, anche recentissime, fra coscienza religiosa e coscienza civile per giustificare nuovi errori di prospettiva, il risorgere di steccati superati dalla storia e respinti dalla coscienza. Ci mancherebbe altro, a questi lumi di luna e con i problemi aperti anche fra Chiesa e Stato, che una polemica sul potere temporale!


    Giovanni Spadolini
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Non si spiegherebbe la storia […] del partito [repubblicano] e la sua stessa sopravvivenza e la sua rinascita e la sua tenacia e il suo prestigio senza risalire a quella componente spirituale di essenziale importanza, a quella volontà ascetica e temeraria di evitare le contaminazioni e le commistioni pur di preservare il “verbo” di domani, il “credo” dell’avvenire, la parola della rivelazione e della redenzione; ed è di lì che nascerà il fermento e il lievito messianico che non abbandonerà mai le file repubblicane, anche nei momenti di sconforto, di delusione o di sbandamento. Il partito troverà sempre il suo cemento unitario, la sua forza interiore di vita e di proselitismo in quella fede assurda e gratuita, in quella negazione superba e sdegnosa del presente, in quella prospettiva coscientemente “avveniristica” ed “escatologica”: quasi che le defezioni non potessero toccarlo, e i tradimenti perderlo, e le secessioni abbatterlo.



    Giovanni Spadolini, “I repubblicani dopo l’unità”, Le Monnier, Firenze 1972.
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