Un congedo e un impegnoMi allontano oggi dal Corriere, in un momento affannoso e drammatico della vita italiana, momento che vede in discussione equilibri e convinzioni radicate. Il giornale cui ho dedicato ogni mia forza per oltre quattro anni difficili, il giornale costruito con lo slancio solidale e l’impegno appassionato di tutta la redazione, è affidato al giudizio dei lettori; aumentati dal 1968, e in misura sensibile, nonostante tre scatti di prezzo susseguitisi nel giro di poco più di un anno. È stata una esperienza fondata su quattro direttrici fondamentali. Le riaffermo oggi, nel momento del congedo, non tanto come mete raggiunte quanto come obiettivi tenacemente perseguiti, in mezzo a difficoltà inimmaginabili, ad amarezze infinite.
“Corriere della Sera”, 14 marzo 1972
Un giornale libero, sempre: nell’informazione e nel commento. Geloso della sua indipendenza, immune da influenze o comunque da suggestioni esterne. Non legato a centri di potere, franco nella critica e nel dissenso. Amico personale del presidente Saragat a ventiquattro anni, non ho esitato ad attaccare il disimpegno del ’68 e a non condividere la scissione socialista del ’69, attribuiti l’uno e l’altra, a ragione o a torto, all’ex capo dello Stato. Fautore tenace e convinto della collaborazione fra laici e cattolici come la sola alternativa al disfacimento della democrazia italiana, non ho lesinato critiche anche durissime agli infelici e zoppi governi quadripartiti che hanno caratterizzato questa infeconda e tormentata legislatura. Durante le recenti elezioni per la presidenza della Repubblica, ho tenuto il Corriere al di fuori di ogni preferenza smaccata e sospetta, non meno che di ogni ostracismo pregiudiziale e infondato.
Questo giornale è qualcosa più di un grande quotidiano d’informazione, è il simbolo stesso della civiltà laica e democratica del nostro paese, fondata sulla ragione e sulla tolleranza. Ecco perché il Corriere si è coerentemente battuto in questi anni, nella linea di separazione fra Chiesa e Stato, per l’autonomia del potere civile in ogni occasione, dal divorzio al referendum, pur sforzandosi di non offendere mai la coscienza dei credenti nei punti di fede, che valgono più di tutti i compromessi e o gli armistizi fra i potenti. Ed ecco perché ha patrocinato una linea di ferma tutela della legalità repubblicana, e dello Stato di diritto, sempre minacciato dalla violenza di parte, ma nell’ambito della Costituzione e al di fuori di ogni seduzione autoritaria e reazionaria, anche mascherata coi comodi schemi dei “blocchi d’ordine” o delle “maggioranza silenziose”. Non meno che con le fughe nell’integralismo, magari ammantato con l’efficienza o con le pseudoriforme costituzionali. Un giornale aperto, in secondo luogo. Non più dogmatico, non più categorico, non più chiuso nella fortezza delle sue convinzioni; ma disponibile al dialogo, pronto alla registrazione di tutte le voci, anche molteplici e contraddittorie, della società civile non meno che delle diverse ideologie. Non a caso la formula dei dibattiti e delle tavole rotonde, che tanti consensi ha raccolto, è entrata in questi anni al giornale: senza preclusioni, senza discriminazioni settarie e su tutti i temi, dalla contestazione ai diritti civili. E non a caso ai dibattiti si sono alternate le grosse inchieste in “équipe”, basate sul lavoro dei più illustri e dei più oscuri, senza greche né gradi: come l’indagine sulle regioni consegnata nei volumi di “Italia settanta”.
Un giornale fondato sulla cooperazione di tutti coloro che concorrono alla sua costruzione, in terzo e fondamentale luogo. Non era una impresa facile. Il mio primo obiettivo fu di colmare il distacco fra le figure di primo piano, legate alla giusta celebrità della firma, e la redazione, l’anonima e silenziosa redazione riunita nella stanza leggendaria descritta da Corrado Alvaro: quella che è la forza vera, e irrinunciabile, di un giornale. Mi sono sforzato, come ho potuto, di elevare il rango della redazione, di aumentarne il prestigio, di allargarne la funzione operativa nella vita quotidiana del Corriere. Senza schemi preconcetti e da manuale, che finiscono spesso in paurose smentite. Ma col desiderio costante e mai ammainato di un rapporto umano, di una comprensione dei problemi e di una conseguente, paziente, risoluzione, giorno per giorno, degli infiniti casi che a un direttore si pongono. Il mio più caro ricordo, in quest’ora di distacco dal Corriere, è nella stanza di redazione del giornale, là fra i colleghi impegnati al controllo dei titoli e alla valutazione dei testi.
In questo spirito si colloca l’epilogo positivo delle trattative condotte dal comitato di redazione con l’editore per la fissazione dei “diritti” dei giornalisti nella vita dell’impresa e nelle future nomine dei direttori. Una trattativa contro la procedura che ha finito per toccare questioni di sostanza: una vera e propria svolta nel giornalismo italiano. Al di là di ogni pur legittima rivendicazione personale che è stata da me stesso preventivamente scartata dopo l’affettuosa solidarietà del primo giorno, le conclusioni di via Solforino si riallacciano al clima di autentica collaborazione con l’intero corpo redazionale, traducono nella carta di un accordo, che i lettori vedranno nella colonna affiancata, lo spirito di oltre quattro anni di lavoro collegiale e comune.
Un giornale teso all’innesto fra cultura e giornalismo, in quarto e ultimo luogo. E non solo nella terza pagina. Sì: io appartengo ai direttori che credono nella cultura, e anche nella sua forza traente ai fini delle tirature. In un mondo dominato dalle immagini, spesso deformanti, della televisione, la parola scritta conserva un valore solo in quanto sia commento e approfondimento dei fatti, serva ad inquadrarli in qualcosa di più valido della gelida ricostruzione di cronaca, risalendo alle radici lontane. E la lotta contro il monopolio televisivo e per la sopravvivenza della libertà di stampa, sempre tanto minacciata e insidiata, partiva, e continuerà a partire, dalla convinzione che senza una elevazione di qualità il quotidiano indipendente è già morto, nella gara con gli altri e prevalenti “mass media”.
Lasciando la direzione del Corriere con tranquilla coscienza, raffermo i princìpi che hanno animato i diciotto anni delle mie direzioni. Credo in un giornale che sia portatore di idee e non mero prodotto industriale, da sottoporre alle astratte leggi di mercati immaginari. Credo in un giornale come strumento di informazione, e non come veicolo di materiali prefabbricati in serie. Credo in un giornale come scelta dell’uomo, e non del computer. E soprattutto credo dell’autonomia e nella dignità della professione giornalistica che non può essere sottoposta a imposizioni o a sollecitazioni esterne, da qualsiasi parte provengano.
Nel momento del congedo, un congedo che equivale ad un impegno per il futuro, rivolgo un particolare affettuoso ringraziamento non solo ai colleghi e collaboratori tutti ma anche alle molteplici componenti, in particolare ai tipografi, di questa grande azienda che occupa ancora il primo posto, nelle statistiche del Times, fra i giornali europei di “qualità”, un primato che risale a Luigi Albertini. La “qualità” è un obiettivo che si raggiunge con decenni di sacrifici e di lotte; nel Corriere è il frutto di una tradizione che deve rinnovarsi giorno per giorno, ma senza strappi violenti, senza traumi. È l’augurio che rivolgiamo di cuore al nostro successore, a Piero Ottone.
E soprattutto il mio pensiero riconoscente va a tutti i lettori che hanno seguito e confortato il giornale nel tentativo, certo non sempre riuscito ma fedelmente perseguito, di salvaguardare una zona di equilibrio e di distaccata indipendenza in un mare di estremismi e di fanatismi cozzanti, associando il rispetto del passato alla ricerca del futuro. Un futuro che noi riusciamo a vedere solo nella misura di una società libera e aperta, senza illusioni tecnocratiche o autocratiche. Una società, insomma, dal volto umano.
Giovanni Spadolini