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  1. #141
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    [Il PSU verso la scissione, I] - Socialisti inquieti




    “Corriere della Sera”, 30 giugno 1968



    Nenni aveva previsto tutto. Il disimpegno del PSU dalle responsabilità di governo, senza nessuna motivazione al di fuori di una reazione dispettosa e irritata all’esito delle une, avrebbe riacutizzato tutti i motivi di polemica e il dissenso in seno al PSU, avrebbe rimesso in discussione le stesse conquiste fondamentali dell’unificazione.
    È quello che sta esattamente avvenendo. Le cinque correnti che si preparano a combattersi senza esclusione di colpi in vista del congresso di ottobre riflettono lo stato di disorientamento e di smarrimento che si è impadronito del partito, nel momento preciso in cui la funzione del socialismo italiano, finalmente liberato da ogni ipoteca massimalista, poteva riacquistare un peso determinante per la salvaguardia e lo sviluppo della democrazia nel nostro paese. Non solo: ma rappresentano, quelle cinque correnti, un completo e sconcertante rimescolamento delle carte tale da disorientare l’opinione pubblica, tale da frantumare tutti gli schemi costituiti e tutti i punti di riferimento, in qualche misura, obbligati.
    Cosa sopravvive più delle antiche tavole di valori, pro e contro l’unificazione, pro e contro l’autonomia socialista, che hanno caratterizzato un nobile travaglio di anni? Le divisioni avvengono sul terreno dei personalismi, più che delle idee. Amici, riuniti da anni di comuni esperienze nell’uno o nell’altro dei due rami confluiti nell’unificazione, si combattono con l’asprezza che nasce solo dalle amicizie tradite o deluse. Si lotta contro il predominio di questa o quella corrente, piuttosto che in favore di una o di un’altra impostazione di governo o di partito. Siamo alla fase dei rinfacci, dei dispetti, dei pettegolezzi spesso miserabili, che avviliscono tutto e tutti.
    Nessuno dei criteri tradizionali di classificazione politica o ideologica regge alla prova. Le polemiche più aspre dividono gli elementi provenienti dall’uno o dall’altro partito: caso Tanassi contro Preti, caso De Martino contro Mancini. Giolitti, che rappresentava la testa forte della sinistra lombardiana, ha rotto con le posizioni massimaliste e protestatarie del suo antico gruppo, ha imboccato la via di un realismo concreto e sia pure ancorato, in vista del rientro al governo, ad alcune pregiudiziali rigide e vincolanti. De Martino e Tanassi continuano a sorreggersi, reciprocamente, per la difesa, difficile difesa in verità, del disimpegno ma si dividono su tutto il resto, dalla politica estera alla concezione delle alleanze del partito. La cosiddetta “maggioranza” tende a polverizzarsi, mentre i nuclei della minoranza faticano a rincontrarsi e coordinarsi.
    “È finito – dice Lombardi con evidente sottinteso polemico nei riguardi di Nenni – il tempo del partito di papà”. E si vede. È bastato che la leadership morale e politica di Nenni fosse messa in discussione all’indomani del 19 maggio perché il travaglio del partito, contenuto da una guida saggia e previdente, esplodesse in forme irrazionali ed esasperate, pericolosissime per la stessa popolarità della causa socialista in Italia.
    Altro che “partito di papà”! Il paese, che capiva il linguaggio di Nenni, che confidava nella creazione di una importante forza socialista erede insieme di palazzo Barberini e del riscatto autonomista, non capisce assolutamente più niente. Non penetra nella lotta delle correnti, spesso indecifrabile ed ermetica; si arrende sgomento di fronte all’esplosione delle rivalità personali, neppure contenuto da un minimo di pudore. Non intuisce gli sbocchi di un simile disordinato e caotico succedersi di contraddizioni e di impennate; si augura che la febbre post-elettorale stia per finire. Perché sa e sente, il paese, che senza una diretta e coerente assunzione di responsabilità da parte dei socialisti le sorti della nostra democrazia sarebbero compromesse. A vantaggio del dialogo, della “Repubblica conciliare”: destinata a restare, in prospettiva, l’unica alternativa (e quale alternativa!).
    È possibile ancora rimediare al male degli ultimi mesi? Sì: una strada esiste. Delle cinque correnti in cui si è diviso il PSU, al di là dei frazionismi armati dalle delusioni e dal rancore, tre si muovono su un piano sostanzialmente comune, tre partono dalla convergente fedeltà alla ispirazione originaria di un centro-sinistra concepito come scelta democratica e rifiuto di ogni alleanza coi comunisti. Tre correnti che possono e debbono ritrovarsi; il gruppo di “autonomia socialista” che da Nenni va a Preti e a Mancini, il nucleo di revisionismo critico che si identifica nel nome di Giolitti e la stessa falange di “socialismo democratico” che fa capo a Tanassi, oltre ogni superstite confluenza tattica con De Martino.
    Tre correnti che rappresentano la netta e incontestabile maggioranza del partito. Tre correnti che rispecchiano ed incarnano la stessa fedeltà alla Costituente socialista del 1966. Rimangono fuori da tale quadro i fedelissimi di De Martino e di Lombardi. Critici del centro-sinistra, e da sempre, i primi; avversari irriducibili della formula, i secondi (parte dei quali batté fin dal ’64 col cuore della missione).
    Impossibile rivolgere a De Martino e a Lombardi una qualsiasi accusa di incoerenza. Né manca, nell’atteggiamento di De Martino, una linea di nobiltà, che è poi degna dell’uomo. Ma la politica è fatta di scelte precise e talvolta amare: e non è pensabile che il partito socialista possa sottrarsi oltre un certo limite a quelle responsabilità senza le quali il destino del centro-sinistra sarebbe segnato, ma non solo il destino del centrosinistra. E si imporrebbe un appello immediato alle urne, con incognite semplicemente allarmanti per il PSU.
    Solo un’affermazione chiara delle tre correnti, che in un modo o nell’altro si riconoscono della tesi dell’autonomia socialista, potrebbe consentire a novembre un ritorno al governo in condizioni di efficienza e di dignità e un superamento dell’attuale difficile crisi politica e psicologica. Nenni prevedeva cinque milioni di voti pochi giorni prima delle elezioni. Ne ha avuto quattro milioni e seicentomila. Un partito degno di questo nome non promuove una crisi, suscettibile di diventare crisi di regime, per quattrocentomila voti in meno. Si avvicina, per tutti i socialisti, l’ora della responsabilità e della riflessione. Che è poi premessa essenziale per una qualsiasi rivincita.


    Giovanni Spadolini



    https://www.facebook.com/notes/giova...88001614624777
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  2. #142
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    [Il PSU verso la scissione, II] - Occasione perduta


    “Corriere della Sera”, 8 settembre 1968


    I socialisti italiani hanno perduto un’altra occasione. La tragedia cecoslovacca, una tragedia che ha investito e squarciato il movimento operaio nel mondo intero, poteva e doveva offrire il motivo – e quale motivo! – per un ripensamento di tutta la recente ed incoerente politica del disimpegno, per un superamento delle fratture interne al partito ed ancorate a piccole ragioni di tattica domestica.
    Nenni l’aveva intuito subito, col fiuto politico in cui non è secondo a nessuno. E aveva rilanciato l’idea di un “cartello” fra le quattro correnti della vecchia e ora dispersa e frantumata maggioranza, da Tanassi a De Martino. Lombardi non doveva essere isolato, si era già isolato da solo. Con l’atteggiamento assunto alla Camera sull’ordine del giorno del centro-sinistra, aveva tagliato i ponti con lo stesso De Martino, si era rifugiato in un atteggiamento di isolazionismo molto vicino ai carristi del PSIUP.
    E invece? Invece la direzione socialista non ha accolto l’appello unitario di Nenni. De Martino ha preferito la linea del mediatore, dell’ “ago della bilancia”: fra correnti che continueranno a combattersi e a dilaniarsi fino al congresso. Neppure la deplorazione, blanda e generica, della secessione lombardiana sui fatti di Praga ha ottenuto l’unanimità delle altre quattro tendenze (si è visto anzi Giolitti, ormai superate le inquietudini e le incertezze degli ultimi mesi, volare in soccorso di Lombardi).
    Ma non basta. Il testo del documento di condanna all’aggressione sovietica in Cecoslovacchia, un’aggressione tutt’altro che conclusa, un capitolo tragicamente aperto, è stato attenuato e bilanciato con categorici e unilaterali richiami al Vietnam, in una misura tale da poter strappare l’adesione dei lombardiani e da provocare resistenze e perplessità nell’altra ala di estrazione socialdemocratica.
    Nessuna chiarificazione, dunque, all’interno del PSU. Un congresso, quello di ottobre pur decisivo per le sorti della democrazia italiana, che si presenta più incerto e spezzettato e frantumato di ieri. Una divisione, fra le correnti, in cui i personalismi prevalgono sulle ideologie, in cui la lotta sorda e spietata per il potere interno annulla o sfuma le stesse classificazioni ideologiche. Un’incertezza di fondo sulle scelte della democrazia, pur chiarite e rinverdite dai fatti di Praga: con un più acuto, e pungente, complesso di concorrenza a sinistra per reggere al nuovo corso autonomistico di Longo e di Pajetta, per resistere all’ “indipendentismo” del PCI favorito dalla generale dissoluzione dell’ortodossia sovietica (assistiamo, in campo comunista, allo stesso riaffiorare di “episcopalismo” che caratterizza, la Chiesa cattolica dopo il Concilio, con tutte le chiese nazionali che si muovono ognuna per contro proprio nella disintegrazione degli antichi punti-fermi e con i vescovi del Sud America che correggono la parola del Papa pellegrino, pochi giorni dopo il viaggio a Bogotà, sulla teologia della violenza).
    Anziché trarre forza, e fede in se stessi, dai tragici giorni di Praga, i socialisti rischiano una volta di più di esserne disanimati e divisi. È una prospettiva inquietante: per il paese ma anche per il PSU, esposto a insidie e minacce come non mai. Non hanno letto, i capi socialisti compreso De Martino, i resoconti del congresso delle Acli a Vallombrosa, ben oltre l’ottimismo del resocontista dell’Avanti!? Non hanno sentito la carica di odio e di disprezzo verso il socialismo italiano, che affiora nelle ali estreme dell’intransigentismo clericale a sfondo “rinnovatore”e contestatore?
    La lezione di Vallombrosa dovrebbe pure insegnare qualcosa. Alle assise delle “Associazioni cristiane dei lavoratori italiani”, che sono organismi para-sindacali dipendenti direttamente dall’autorità ecclesiastica e con tanto di assistenti-sacerdoti nelle proprie file, è stato teorizzato un nuovo e particolare frontismo: un frontismo senza il PSU. Si è parlato di “nuove alleanze operative” destinate a creare un “cartello”, per le prossime elezioni amministrative e forse regionali, fra esponenti delle Acli, cattolici del dissenso, comunisti e psiuppini: un cartello che sopravvive alle mezze smentite di Labor.
    Un esponente lombardiano, come Santi, ha potuto chiedere, fra gli applausi scroscianti dei seguaci italiani di Camilo Torres e degli esponenti del neo-castrismo clericale, l’intesa fra cattolici, socialisti di sinistra e comunisti: il che vorrebbe dire la vittoria del PSIUP e il fallimento dell’unificazione socialista, non a caso sbeffeggiata e ridicolizzata nelle aule di Vallombrosa. Lo stesso presidente delle Acli, Labor, si è schierato contro una riedizione autunnale del centro-sinistra, considerandola nient’altro che un’eventuale “fase di attesa in vista di equilibri politici nuovi”, l’anticamera cioè del “pianerottolo”, ricordate?, atto ad introdurre il dialogo fra cattolici e comunisti “tout court”.
    E quali comunisti? Le Acli hanno dato l’impressione, talvolta, di scavalcare lo stesso partito comunista. Amendola è stato bollato come “socialdemocratico”: il che equivale al massimo degli obbrobri per un integralista guelfo. La contestazione integrale del sistema, dentro e fuori l’impresa, ha assunto accenti mutuati dal movimento studentesco più ancora che dal PCI. Si è parlato di “rimescolare tutto”; si sono invocati “nuovi giuocatori” da introdurre nella stanza dei bottoni; si è chiesto di “buttare a mare le attuali forze politiche”, con una negazione aprioristica e quasi apocalittica dei partiti in cui un po’ di Don Albertario si univa con un po’ di Cohn-Bendit.
    Il “piano Pieraccini” è stato squalificato come “neocapitalistico”, deleterio e inefficace. Il gruppo dirigente della DC, e non parliamo di quello del PSU, è stato inchiodato al muro delle più pesanti responsabilità sotto l’accusa infamante di moderatismo e di atlantismo. Mentre i carri armati sovietici schiacciavano a Praga ogni tentativo di resistenza degli studenti, di quelli sì veramente contestatori in nome della libertà, i dirigenti delle Acli domandavano l’abbandono delle difese atlantiche e il superamento dei blocchi, in nome di un’Europa vagamente gollista e sicuramente disarmata e impotente davanti a qualunque aggressione dall’Est.
    Se i socialisti non riacquisteranno presto la coscienza del ruolo autonomo e insostituibile che debbono assolvere per la difesa congiunta della democrazia e della classe lavoratrice, gli integralisti clericali, con o senza la benedizione degli assistenti ecclesiastici, troveranno, più presto di quanto non si immagini, un terreno di intesa con i tattici e con i trasformisti del PCI: prima alle elezioni amministrative, poi a quelle regionali, infine a quelle politiche. Non importa sotto quale etichetta: se di partito del lavoro o di fronte popolare. In vista di liquidare tutto quanto resta di socialista in Italia: di socialista e di liberale. Il congresso del PSU è appena in tempo per sventare tale minaccia. Non c’è più un minuto da perdere.


    Giovanni Spadolini
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  3. #143
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    [Il PSU verso la scissione, III] - I socialisti di domani

    Corriere della Sera”, 13 ottobre 1968



    Ormai tutto dipende dal congresso socialista. Anche la paradossale vicenda del decretone ha confermato che i contrasti interni del PSU si riflettono in modo determinante e talvolta paralizzante sugli atti, ed anche semplicemente sugli atti di buona volontà, del monocolore d’attesa.
    All’ultimo momento, quando le posizioni della DC e dei socialisti sugli emendamenti sembravano inconciliabili, il governo Leone è stato salvato da De Martino. E si spiega il perché. L’attuale cosegretario del PSU fu il primo ideatore e il principale artefice del disimpegno successivo al 19 maggio. La formazione di un governo solo democristiano, e ostentatamente provvisorio, e quasi di riparazione apparve come la naturale ed obbligata conseguenza del repentino e sconcertante distacco dei socialisti dalle responsabilità governative, contro i precisi impegni della campagna elettorale. Una crisi del ministero Leone prima del congresso socialista, fissato per il 23 ottobre, avrebbe danneggiato sensibilmente le posizioni della corrente demartiniana nell’assise congressuale e compromesso i successivi e complessi piani politici che si attribuiscono, a torto o a ragione, a De Martino.
    Per ragioni analoghe, anche se di segno opposto, le maggiori riserve al decretone sono venute dalla corrente autonomista, dal raggruppamento che fa capo a Mancini e a Preti, critico strenuo e coerente del disimpegno fin dai giorni immediatamente successivi al verdetto delle urne: il raggruppamento, aggiungiamo, che si riconosce nella “leadership” di Nenni. Sono quei socialisti che, fin dal 20 maggio, contrastarono la rottura della coalizione, imposta alla fine dalla strana e conturbante alleanza fra De Martino e Tanassi; sono quei socialisti che si batterono con tutte le loro forze per la ricostituzione immediata, e sia pure su nuove basi, del centro-sinistra, convinti che gli oltre quattro milioni e mezzo di elettori socialisti avevano votato per quella formula e che era assurdo tradire gli elettori fedeli per inseguire quelli infedeli.
    Il monocolore d’attesa fu contrastato fino all’ultimo dalla corrente nenniana, quella che si definisce di “autonomia socialista”. Solo la disciplina di partito spinse Nenni e i suoi amici, senza entusiasmo ma anche senza diserzione, ad assecondare, mediante il compromesso dell’astensione, l’extrema ratio del monocolore Leone, soprattutto dopo che la rinuncia di Rumor e l’atteggiamento della DC avevano accentuato il carattere di scelta presidenziale del ministero tecnico (e si sa che al Quirinale siede un socialista).
    Le due correnti in contrasto, Nenni e De Martino, sono destinate a raccogliere insieme una larga maggioranza nel prossimo congresso del PSU, qualcosa che si aggira intorno al settanta per cento. I nenniani con un apporto – ormai sicuramente di maggioranza relativa – che va dal trentasei al trentotto per cento; i demartiniani in una misura che dalle statistiche pessimistiche del trentuno si eleva a quelle ottimistiche del trentaquattro. Il principale problema dell’assise di Roma sarà quello di realizzare una saldatura fra Nenni e De Martino, chiudendo la polemica sul disimpegno, una polemica ormai retrospettiva ed inutile, e concordando una seria ed organica base di intesa per il nuovo centro-sinistra, un centro-sinistra non faraonico ma limitato ed efficiente.
    Non sarà un accordo facile: per un complesso di motivi politici ma anche, e forse più, per un’eredità paralizzante di contrapposizioni personalistiche, di giuochi di sottocorrente, di discussioni, oziose e bizantine, sul passato e sulle responsabilità del passato.
    Tanto più che i paradossi di ieri si aggiungono a quelli di domani. Per esempio: la corrente di De Martino, che ha salvato più di una volta il governo Leone, sarà certamente, nelle trattative per il nuovo centro-sinistra, la peggio disposta verso la DC e la più esigente nelle condizioni e nelle pregiudiziali da sottoporre al presumibile candidato dello Scudo Crociato alla presidenza, cioè all’onorevole Rumor. Al contrario gli autonomisti nenniani, così scettici e sfiduciati verso il monocolore Leone, saranno sicuramente i più aperti ad un dialogo costruttivo con la democrazia cristiana, al di fuori di esclusivismi e di massimalismi del resto inconciliabili con la gravità del momento politico e con l’importanza della posta in giuoco.
    Sono, tutti, paradossi che rischiano di disorientare l’opinione pubblica, di accentuare il distacco, già così profondo, fra paese legale e paese reale. È il momento in cui le astrazioni prevalgono sulla realtà, in cui i nominalismi rischiano di annullare la visione del nesso fra gli interessi di un partito e gli interessi globali della democrazia e del paese (una esperienza che il socialismo italiano ha già vissuto una volta quarantacinque anni or sono, con tragico danno per sé e per la nazione).
    L’augurio che tutti i democratici è che si realizzi, nell’imminente congresso di Roma, un equilibrio di forze che vada da Nenni e De Martino, entrambi indispensabili alla futura e necessaria partecipazione socialista al centro-sinistra, ma che non si fermi a loro. La nuova maggioranza del PSU non può non identificarsi con la maggioranza che firmò nel ’66 la carta dell’unificazione. E deve quindi estendersi, senza discriminazioni, a tutta la vasta componente socialdemocratica, la componente di palazzo Barberini, rappresentata in maggioranza dalla corrente che fa capo all’onorevole Tanassi.
    Sì: è vero. C’è un gruppo importante di ex-socialdemocratici, capeggiato da Preti, che si è inserito nel raggruppamento di “autonomia socialista”, superando gli steccati fra le due antiche componenti, e realizzando un’utile fusione di forze su un piano di precise opzioni programmatiche. Ma il grosso degli esponenti socialdemocratici è raccolto intorno alla mozione di Tanassi, non importa se forte del quindici o del venti per cento dei suffragi; e nulla sarebbe più assurdo e insensato di “emarginare” quella corrente dalla futura guida del partito unificato.
    Di quale unificazione si tratterebbe allora? Non si è mai vista una fusione fra due partiti realizzata col sacrificio, o con la mutilazione, di uno dei due: ed esattamente del nucleo che ha espresso nientemeno il presidente della Repubblica. Il piano può essere gradito all’Unità, che non perde occasione per attaccare il capo dello Stato e coinvolgerlo nei propri romanzi d’appendice, compresi quelli sui servizi televisivi; ma non può evidentemente riscuotere il consenso di nessun socialista degno di questo nome. Purtroppo per tanti paesi dell’Europa orientale (si leggano le ultime umilianti cronache su Dubcek o sul processo di Mosca), tutte le previsioni di palazzo Barberini si sono avverate. Non può andare all’opposizione chi ha avuto ragione.
    Nel nuovo partito unificato l’opposizione c’è, ed ha un nome, un nome preciso e a suo modo coerente, l’onorevole Riccardo Lombardi. È un’opposizione, l’ha confessato lo stesso leader, di legislatura. E non è neppure sola. Dalla sua parte ci sono gli amici di Donat-Cattin, i cattolici del dissenso, i “guevaristi” del movimento studentesco. Lombardi può essere contento.


    Giovanni Spadolini
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  4. #144
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    [Il PSU verso la scissione, IV] - Da Nenni a De Martino


    “Corriere della Sera”, 20 ottobre 1968



    È un episodio di pochi giorni fa. Nenni aveva mandato una lettera personale, in occasione del locale congresso, alla sezione socialista del centro di Roma dove è iscritto dal moltissimi anni: proprio per sottolineare la sua estraneità alla lotta delle correnti e la sua posizione di presidente al disopra della mischia. Ma i lombardiani non hanno consentito neppure che fosse letta: invocando rumorosamente il pretesto di una possibile sua influenza sul corso del dibattito (si tenga presente che tutti gli esponenti delle cinque tendenze avevano già illustrato le loro mozioni). È stato necessario, al presidente dell’assemblea, aspettare il turno dell’iscritto “Nenni Pietro” per poter leggere il documento come missiva di un semplice militante che intendeva giustificare la propria assenza.
    È un episodio marginale ma che dice tutto. Dice tutto sul clima di tensione e di asprezza in cui il congresso socialista si accinge a celebrare le proprie assise nazionali a Roma. Il disimpegno, il disimpegno incautamente voluto dallo sconcertante asse De Martino-Tanassi, non ha servito neppure a calmare le acque all’interno del partito, a determinare quella pausa di riflessione e di meditazione che era, o sembrava, nella mente dei suoi promotori.
    Da maggio ad oggi i contrasti si sono acuiti, le tendenze si sono moltiplicate, i personalismi si sono approfonditi e inaspriti. E tutto fa prevedere che proprio la polemica sul disimpegno sarà la prima e la più rovente, a Roma. Con tutti i mutui rinfacci, i palleggiamenti di responsabilità, i processi alle intenzioni. Ma non sarà la sola.
    Il partito si dividerà anche nella valutazione, più o meno rancorosa e irritata, del passato centro-sinistra. L’ingeneroso abbandono di Moro si rifletterà nella aule delle assise romana. Si riprenderà la vecchia polemica, oziosa ed inutile, sul centro-sinistra avanzato o moderato, sulle riforme più o meno incisive, sui “colpi al sistema”.
    Con le carte in regole, nel suo “no” intransigente, si presenta solo la corrente di Lombardi, l’opposizione di sinistra. Non più del dieci per cento dei voti di base, se ci arriverà. Favorevole al dialogo coi comunisti, con Donat-Cattin, coi cattolici del dissenso: proiettata verso la ricerca di una “nuova sinistra”, alla Parri. Col cuore più fuori che dentro il partito: convergente, su molti punti, su molti stati d’animo, col PSIUP.
    A metà fra Lombardi e De Martino, il piccolo gruppo di Giolitti: intorno al cinque per cento dei suffragi. Non avverso pregiudizialmente al ritorno al governo, ma deciso a porre condizioni rigide, vincolanti, “da sinistra”. Ostile, poco meno di Lombardi, ad ogni delimitazione della maggioranza verso il PCI; non meno contrario alla scelta atlantica come scelta di civiltà.
    Accanto alle due sinistre del partito, il vasto e composito centro-sinistra che fa capo al co-segretario De Martino: dal 32 al 34 per cento. Con qualche minima appendice di dissidenti socialdemocratici, in prevalenza rappresentative di elementi del vecchio PSI, autonomisti transfughi e scontenti, ribelli di sinistra rientrati nei ranghi, qualche nenniano non più allineato con le posizioni del “leader” romagnolo. Dominante la figura di De Martino: con tutte le sue complessità ma anche con tutte le sue finezze intellettuali, con tutte le sue inquietudini ma anche con la sua ansia sincera di salvaguardare l’unità del partito. Impegnato da anni in un’opera di mediazione e di composizione fra le correnti che ricorda quella di Moro nella democrazia cristiana e non manca di analoghe eleganze e di non dissimili vibrazioni.
    “Sì” al centro-sinistra, ma a patto di un profondo, e non sempre precisato, rinnovamento di metodi e di strutture. Fedeltà ideologica ad un marxismo che non accetta la grande revisione socialdemocratica, la carta di Francoforte. Complesso di concorrenza e di emulazione verso i comunisti: senza rotture preventive né nel mondo sindacale né negli enti locali. E con la costante tentazione di un “doppio binario”, ancorato alla stessa tradizione classista e neutralista del partito.
    Al centro dello schieramento, Nenni. Col raggruppamento di “Autonomia socialista” che va dal 34 al 37 per cento ed ha quindi diritto a candidarsi come la forza di maggioranza relativa. Comprensivo di molti autonomisti ex-PSI ma anche di parecchia base socialdemocratica, quella che si riassume nel nome di Preti per intendersi. Solo caso, fra le cinque correnti, di rimescolamento delle carte, di fusione, autentica e alla periferia, fra le due componenti confluite nella unificazione.
    Alleanza sorta, nel maggio, dalla polemica contro il disimpegno, ma non solo da quella. Comune, a tutta la corrente, è l’auspicio di un centro-sinistra nuovo, vincolato ad un programma preciso, legato alla lealtà atlantica ed europeista, deciso a salvaguardare una certa delimitazione della maggioranza, ostile ad ogni richiamo frontista. Nessuna attrazione verso la sinistra cattolica: si pensi alla vigorosa polemica di Mancini. Un linguaggio alto e risoluto sui grandi temi del rapporto fra comunismo e libertà: si ricordino le prese di posizione sulla Cecoslovacchia (un terreno sul quale De Martino ha avuto accenti non meno nobili). Precisa coscienza del valore permanente dell’alleanza fra cattolici e laici: negli equilibri, complessi e difficili, dell’Italia nata dalla liberazione.
    Molti punti di contatto – sul piano programmatico, non solo su quello delle persone – con la corrente, tutta di ex-social-democratici, che fa capo a Tanassi. Intorno al quindici per cento del voto di base: poco più poco meno. Rigida posizione atlantica; apertissimo “no” al comunismo. Preoccupazione, acuta e spesso dominante, fra le prospettive della Repubblica conciliare; avversione alla sinistra guelfa, fondata sul timore non illegittimo degli scavalcamenti, il timore connaturato al vecchio PSDI fin dalle origini.
    C’è qualcuno, Giolitti, per esempio, che pensa di “emarginarla” dalla futura maggioranza del partito. Sarebbe l’ultimo e più clamoroso fallimento dell’unificazione. De Martino, che è una mente politica, non si è mai associato ad una richiesta così assurda, così insensata: una richiesta che sancirebbe il naufragio della fusione, che giustificherebbe il richiamo di Orlandi ad un secondo 1922, con l’amputazione dell’ala turatiana.
    Una follia. Una follia che potrà essere evitata solo da un largo schieramento di maggioranza: da Nenni a De Martino a Tanassi, con l’apporto, se possibile, di Giolitti, con l’opposizione, scontata e diremmo naturale, di Lombardi.
    Nessuna altra somma è destinata a tornare, neppure sul piano aritmetico. Non quella fra De Martino e Tanassi; neppure l’altra fra Nenni e Tanassi. Non rimane che la via di una larga ed articolata unità: fondata sull’equilibrio delle diverse componenti che in ottant’anni hanno caratterizzato il socialismo italiano, le sue grandezze e le sue miserie. Anche perché c’è un tema, un tema nuovo, che dovrebbe unire tutti, da Tanassi a Giolitti: il tema del minacciato dialogo fra cattolici e comunisti. Un dialogo che passerebbe sulla testa di De Martino non meno che di Nenni, che non lascerebbe spazio, né ragion d’essere, ad una forza socialista autonoma e democratica e nazionale. Stretta e soffocata dai due opposti dogmatismi e universalismi, convergenti nella ricerca di una posizione armistiziale molto simile a quella che fu la linea della Chiesa di fronte al fascismo, molto simile ad un “bis” del Concordato del ’29 (con sacrificio della DC oggi, come dei popolari di ieri).
    La ricostituzione del centro-sinistra all’indomani del congresso socialista rappresenterà la necessaria difesa dello Stato laico e risorgimentale, come lo stesso Malagodi ha ormai apertamente riconosciuto. Nella linea che parte da De Gasperi, nella necessaria convivenza fra cattolici democratici e democratici laici. Rinascita tuona contro il “settarismo proprietario liberale”, nemico comune di cattolici di sinistra e comunisti; ma il partito di Nenni e De Martino è sempre il partito di Antonio Labriola. Speriamo che non lo dimentichi.


    Giovanni Spadolini


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  5. #145
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    [Il PSU verso la scissione, V] - Due nodi


    “Corriere della Sera”, 27 ottobre 1968


    Cerchiamo di orientarci nella selva del congresso socialista. I nodi del contrasto, che rischia di paralizzare il partito, sono due. Uno di sostanza, l’altro di metodo. Il primo investe l’estensione della maggioranza che dovrà guidare il nuovo PSI: il secondo riguarda il modo di concludere il congresso, la confluenza o meno delle correnti-base in un documento comune che rappresenti una scelta politica, e un indirizzo per il futuro.
    Il problema numero uno si riassume in un interrogativo: comprendere, o meno, Lombardi nella maggioranza. Si sa cosa vuole Lombardi. Delle cinque tendenze in cui si è spaccato e lacerato il partito socialista dopo l’infelice disimpegno di maggio, solo Lombardi dice “no”, un “no” categorico e assoluto, al centro-sinistra. A qualsiasi centro-sinistra, moderato o avanzato, con o senza delimitazione della maggioranza. Sfiducia nella formula; convinzione del suo inesorabile svuotamento ed esautoramento. Ricerca di una fantomatica, e utopistica, unità delle sinistre: magari sulla base del dissenso del PCI da Praga o dei cattolici ribelli dalla Chiesa.
    La logica imporrebbe di lasciare Lombardi – neppure il dieci per cento del partito – all’opposizione: la linea da lui stesso scelta, voluta esaltata. È quello che ha chiesto Nenni, nel suo discorso d’apertura, il documento più chiaro e limpido di un congresso confuso e deludente; è quello che hanno chiesto, con maggiore o minor forza, tutti gli autonomisti e i seguaci di Tanassi. Senonché De Martino esita, recalcitra, non vuole rompere ponti con la sinistra lombardiana, preferisce un “ufficio politico unico” che rispecchi tutte le correnti del partito. Salvo, poi, imboccare magari la via del centro-sinistra: ma di un centro-sinistra condizionato, reticente, fondato sul doppio binario fra partito e governo.
    La questione procedurale si inserisce a questo punto sul tema di sostanza. Nenni, e gli autonomisti, hanno domandato fin dall’inizio un documento politico preciso e impegnativo elaborato e votato dal congresso: uno spartiacque netto, inequivocabile, fra coloro che vogliono il rilancio, sia pure a certe condizioni, del centro-sinistra e coloro che non lo vogliono a nessuna condizione. Il novanta per cento del partito contro il dieci. L’alleanza di Nenni e De Martino, con l’astensione di Tanassi e Giolitti, contro la solitaria e protestataria opposizione lombardiana. Con un chiarimento preciso nella gestione del partito – De Martino segretario unico, ma su basi rigorose e concordate – e conseguentemente del governo.
    De Martino, no. Egli si oppone a far votare dal congresso un vero documento politico definitivo e chiarificatore: tale da condizionare una sua segreteria di maggioranza, tale da limitare il suo ruolo di “ago della bilancia”, equidistante fra le due estreme, Tanassi e Lombardi. Potrà accettare un documento generico, da parata, che si richiami alla carta dell’unificazione; ma nulla più. Preferisce che l’assise di Roma si esaurisca nella conta dei delegati (tanti a te, tanti a me); vuole che il grosso sia rinviato al Comitato centrale, fra dieci o quindici giorni, in modo da realizzare eventuali futuri equilibri dal partito in quella sede.
    Non è una divergenza marginale, né di scarsi riflessi nella vita del paese. Se prevalesse la tesi di Nenni, del documento politico da votare subito e a larga maggioranza, il “via libera” al centro-sinistra sarebbe già dato. Il governo provvisorio di Leone dovrebbe rassegnare il mandato; le trattative per ricostituire il tripartito si aprirebbero immediatamente, attesa solo l’ulteriore e formale scadenza del congresso repubblicano di Milano. Il paese capirebbe che la fase del disimpegno è chiusa; qualche speranza di stabilità politica potrebbe riaffiorare dalla desolazione, e dalle delusioni, di oggi. Se prevalesse la tesi di De Martino, di rinviare le vere scelte al Comitato centrale, le prospettive di ricostruzione del centro-sinistra si farebbero almeno più oscure e tormentate e difficili. Il prolungamento del governo Leone ne rappresenterebbe l’inevitabile conseguenza; il confronto con la DC si inasprirebbe. Si accentuerebbe il carattere “punitivo” del disimpegno: punitivo verso lo Scudo Crociato, naturalmente.
    Queste le due posizioni estreme: enunciate al di fuori delle ipocrisie e dei velami congressuali. È probabile che un compromesso sia escogitato alla fine di un così doloroso travaglio: pena il suicidio del partito. Tutti lavorano in questa direzione, con maggiore o minore successo. Il gruppo di Tanassi non meno di Nenni o di Mancini, l’artefice del “ponte” lanciato ieri al congresso. Il tentativo del comitato per le risoluzioni, annunciato per oggi, è abbastanza indicativo al riguardo.
    In mezzo ai roventi contrasti del partito – avete visto la manovra orchestrata contro Preti, un galantuomo che diceva cose sensate ad un’assemblea infuocata e paralizzata da un pugno di facinorosi -, al di là di tutte le tensioni e di tutti i dissensi, sussiste un certo “asse” fra Nenni e De Martino: prima condizione per la salvezza del socialismo unificato. È un “asse” sentimentale e affettivo più che politico. Riguarda i rapporti fra i due uomini, che non sono stati mai incrinati dalle divergenze di metodo o di sostanza. La deferenza del socialista napoletano, professore universitario, uomo di cultura, originario del partito d’azione e senza quindi le scaturigini mistiche e romantiche dell’antico apostolato socialista, verso il generoso tribuno romagnolo proveniente da una milizia operaia e rivoluzionaria di sessant’anni. Dall’altra parte il rispetto, non privo di un certo complesso d’inferiorità, di Nenni verso De Martino, del socialista tutto istinto e intuito verso il ragionatore e il mediatore paziente e instancabile.
    Ma il congresso di Roma ha rivelato un fatto nuovo, e sconcertante. Nenni e De Martino sono, amici, ma le loro basi sono lontanissime. E la base demartiniana, che è poi la base dell’apparato del partito, è la più ostile a Nenni, la più refrattaria alla leadership anche solo morale dell’antico capo socialista. Con tutte le tipiche insofferenze che caratterizzano le clientele del potere moderno, estranee ad ogni problema di fedeltà ideologica, insensibili ai valori e alle tradizioni del passato, tanto spregiudicate quanto fameliche.
    Qualcuno, nei corridoi dell’EUR, ha paragonato questo congresso socialista al congresso democristiano di Napoli del giugno ’54, che decapitò il mito di De Gasperi, sia pure con la giubilazione formale dell’uomo. È un parallelo illuminante e malinconico. Tutti ricordano la via che poi imboccò la DC, rivoltatasi contro il suo leader: l’illusione attivista di Fanfani, la confusione dell’operazione Gronchi, il siluro al centrismo senza riuscire ad elaborare altre strade che non fossero il monocolore pendolare e il milazzismo di Tambroni.
    Speriamo che il partito socialista non affronti la stessa parabola: in condizioni tanto diverse, e tanto più deboli, della DC, che aveva ancora la Chiesa alle spalle, e senza “dialoghi”. La democrazia italiana non può sopravvivere senza il concorso socialista: è una regola che vale da Giolitti a De Gasperi e Moro. Ma neppure il socialismo può salvarsi al di fuori del quadro democratico, senza il presidio irrinunciabile della democrazia. Un congresso del PSU-PSI, che non chiarisse nettamente la posizione dei socialisti di fronte al centro-sinistra e lasciasse tutto nell’incertezza e nell’equivoco, aprirebbe un periodo di grande e forse irreparabile confusione per il paese: un periodo destinato a culminare, a scadenza più o meno ravvicinata, nelle elezioni anticipate. Con quel che ne seguirebbe. L’alternativa c’è, e De Martino fa male a sottovalutarla. L’alternativa si chiama “Repubblica conciliare”. Non occorre proprio ripeterlo.


    Giovanni Spadolini

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  6. #146
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    [Il PSU verso la scissione, VI] - Amara realtà


    “Corriere della Sera”, 30 ottobre 1968


    Non fermiamoci alle recriminazioni. La fine del congresso socialista non poteva essere più malinconica e deludente: dopo tutte le speranze, e le generose attese, dell’unificazione. Il solco fra le cinque correnti più profondo oggi di ieri; i personalismi accentuati e inaspriti come non mai; ogni decisione, di forma e di sostanza, rinviata al comitato centrale, senza neppure un voto chiaro della base, in un clima di sospetti, di mutui rinfacci, di generale sfiducia. Il bizantinismo spinto al massimo: ore e ore perdute per discutere una frase, per levigare un aggettivo. Tutti gli accordi, o meglio i non accordi di vertice, sovrapposti alla consultazione dei delegati: con un totale distacco dal paese, dall’opinione pubblica inquieta, disorientata, smarrita.
    È inutile ripetersi; è inutile insistere in una deplorazione legittima ma vana. La realtà, una realtà senza dubbio amara, esige di essere valutata con freddezza, con realismo. Il congresso di Roma, nelle sue conclusioni interlocutorie e paralizzanti, ha rappresentato ben oltre la logica delle cifre, una vittoria di De Martino. Diciamolo meglio: una vittoria del disimpegno. È l’ultimo postumo, è l’estrema conseguenza della scelta compiuta dal PSU all’indomani del 19 maggio, nel momento, inconsulto, del rancore e della rabbia contro il verdetto, non generoso ma neppure irreparabile, delle urne. Rifiuto ad una immediata riassunzione di responsabilità governative; ritiro sotto la tenda di un “aventinismo” pensoso e perplesso, volto, nella sostanza, a punire la DC.
    È la linea, la sola linea chiara che sia uscita dal confusissimo congresso dell’EUR. De Martino non ha avuto la forza per imporla – 39 delegati non bastano su 121 – ma ha avuto la forza di bloccare tutti gli altri gruppi da lui dissenzienti o a lui contrapposti, per soffocare o neutralizzare le volontà di ripresa immediata e costruttiva del centro-sinistra.
    La stessa alleanza fra il gruppo Nenni-Mancini-Preti e il gruppo Tanassi non è mai uscita da una prospettiva strumentale e di pressione, non si è mai elevata ad una scelta impegnata e risoluta. Tanassi aveva condiviso, e in parte determinato, la linea di De Martino sul disimpegno; non poteva rovesciarla in sede di congresso. Il preambolo comune fra le due correnti, Nenni e Tanassi, rappresenta poco più che una generica riaffermazione di princìpi: di princìpi nobilissimi ma insufficienti a correggere il corso delle cose.
    Non sono mancate, da nessuna parte, zone d’ombra. Nella stessa corrente di “Autonomia socialista”, il linguaggio di Mancini non si è certo identificato con quello di Preti. Nelle file di “Rinnovamento”, le incertezze di taluni si sono alternate alle ferme e coerenti prese di posizione di altri: col rischio di annullare le une con le altre.
    Non si è avuto il coraggio di rovesciare il disimpegno, e il disimpegno si è vendicato degli avversari troppo timidi non meno che dei sostenitori non sufficientemente convertiti. Il risultato è che le prospettive per la ricostituzione immediata del centro-sinistra appaiono oggi molto più oscure che alla vigilia del congresso. Larghi settori de nuovo PSI, incapaci di portare l’unità nelle proprie file, puntano ad accentuare la divisione nelle file altrui, leggi nelle file della democrazia cristiana. È la tesi iniziale, e caratterizzate, del disimpegno: comune a De Martino e ad una parte della sinistra. Ed è la tesi che ha dominato le assise dell’EUR, impaludando il congresso fino alla rissa finale.
    La mozione di De Martino, che è stato impossibile abbinare anche solo nel preambolo a quelle di Nenni e Tanassi, parla chiaro: tutto è subordinato “al processo di chiarimento in corso fra le altre forze politiche”. La palla è rinviata alla democrazia cristiana, all’imminente consiglio nazionale della DC. Il carattere punitivo e vendicativo del distacco di giugno, col conseguente rovesciamento di Moro, riceve una nuova e sconcertante conferma. I socialisti di De Martino, cioè di colui che rimane l’ago della bilancia nel partito, subordinano un qualsiasi “sì” per un nuovo centro-sinistra ad un rimescolamento delle carte all’interno della DC, ad una svolta a sinistra dello scudo crociato anche nella propria gestione interna.
    È questa la seconda, e non meno preoccupante, eredità del congresso. Ed è un’eredità che nasconde un pesante, e forse fatale, equivoco. Parliamoci con tutta chiarezza. Con l’eccezione di Lombardi, che è perfino un caso di candore, tutte le altre quattro correnti del PSI-PSU sono terrorizzate dalla prospettiva della “Repubblica conciliare”, cioè dal dialogo diretto fra comunisti e cattolici sulla testa delle forze socialiste e laiche, il dialogo esattamente propugnato, e non di rato attuato, da vari settori della sinistra DC. Ma due correnti reagiscono in un modo; le altre due nel modo esattamente opposto. Nenni e Tanassi denunciano il pericolo e vedono nel centro-sinistra la sola strada per neutralizzarlo, o meglio per tentare di neutralizzarlo. De Martino e Giolitti paventano la minaccia quanto Nenni e Tanassi ma esitano a riconoscerla in omaggio alla platea, e soprattutto confidano che solo un’ulteriore dislocazione a sinistra dei socialisti, tipo unità delle sinistre, colloquio col PCI o messa alla prova dello stesso PCI, serva a sventarla. Di qui la rinuncia alla delimitazione della maggioranza; di qui il sì all’unità sindacale indiscriminata; di qui il no alle giunte con appoggi liberali. Di qui tutte le scelte e le impennate massimaliste culminate nelle non-decisioni del congresso di Roma (e il non-decidere fu sempre tipico del massimalismo).
    È la corsa agli scavalcamenti: una corsa in cui la sinistra cattolica ha una non piccola parte di responsabilità. Dove finiremo di questo passo? Non è servita a nulla la crisi francese di maggio; non è servita a nulla la Cecoslovacchia. Non il regalo della contestazione al gollismo; non la sfida della Russia al neo-comunismo liberalizzatore. Nulla ha aiutato il ripensamento dei socialisti, ormai rinviato alle cabale, e speriamo bene!, del comitato centrale.
    Le conseguenze immediate? Leone non potrà dimettersi, neppure volendo. La DC si rifiuterà presumibilmente di passare all’esame ideato da De Martino e Giolitti. Il tentativo di rifare il centro-sinistra, tentativo che pur non mancherà, diventerà più difficile, e più incerto, e dall’esito più aleatorio. Con la sola conseguenza di favorire, a più o meno breve scadenza, quello che si combatte e che tutti vorrebbero almeno a parole evitare: l’altro “dialogo”. Quello già in atto: e non da oggi.


    Giovanni Spadolini


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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    [Il PSU verso la scissione, VII] - Socialisti e repubblicani


    “Corriere della Sera”, 10 novembre 1968


    Neppure l’ultimo tentativo è riuscito. L’asse Nenni-De Martino si è spezzato. La grande maggioranza, da Tanassi a Giolitti, la maggioranza che col novanta per cento delle forze socialiste avrebbe dovuto rilanciare il centrosinistra organico, si è dileguata sullo sfondo di una serie di dissensi insanabili, di cupi rancori.
    I lavori del Comitato centrale socialista hanno misurato tutta la profondità dei contrasti che dividono il PSI, hanno consacrato – diciamolo con tutta chiarezza – il fallimento dell’unificazione. Ogni sforzo di buona volontà si è infranto contro il muro di intransigenze nutrite dal rancore. Ogni soluzione-ponte, compresa quella di Giolitti, si è arenata davanti a pregiudiziali alimentate da incomprensioni antiche e da polemiche recenti (altro che la pausa di riflessione e di riconciliazione che ci si era illusi di realizzare col disimpegno!).
    Eppure Nenni aveva dimostrato, fin dall’inizio dei lavori, tutta la sua volontà di conciliazione e di accordo. Aveva accantonato i molti e legittimi motivi di risentimento, aveva dimenticato gli sgarbi e le offese subite (ricordate la scena malinconica e dolorosa in cui fu negata al leader romagnolo l’acclamazione a presidente del PSI?). Si era sforzato di mettersi al di sopra delle parti, di offrire una soluzione accettabile dalle diverse e contrastanti fazioni. Aveva chiesto di confrontare i rispettivi punti di vista, di verificare la possibilità di un accordo fra le maggiori correnti anche in extremis.
    De Martino non era sembrato, almeno all’inizio, ostile. Si era svincolato dalla stretta della sua base, molto più oltranzista e intollerante di lui, aveva mostrato di non respingere la mano tesa di Nenni. Aveva avanzato la proposta di una commissione politica ristretta: incaricata di elaborare un documento comune, di disegnare quello che oggi si chiama, con linguaggio sfrontato ma rivelatore, un organigramma di potere.
    Senonché l’illusione è durata poco. La commissione ristretta ha dovuto sciogliersi dopo aver registrato l’inconciliabilità delle posizioni sia sui nomi sia sul programma. Non c’era accordo sul segretario del partito; non c’era accordo neppure sul presidente. Prima di arrivare a discutere sul documento comune, e sulle relative e abbastanza distanti impostazioni ideologiche, c’erano da risolvere i problemi dell’apparato: l’apparato del partito, con le sue centinaia di funzionari onnipotenti, che la corrente di De Martino non voleva cedere ai propri avversari ma che gli autonomisti e i tanassiani, forti del 52 per cento del PSI, erano ben decisi a non lasciare nelle mani della segreteria uscente.
    Il fallimento sembrava totale e irreparabile, quando si è inserita, a riallacciare il discorso, la proposta Giolitti. Proposta formulata sul piano, un piano realistico anche se un po’ sconcertante, di una diversa distribuzione delle cariche. Perché non riconoscere alla corrente di Autonomia, col suo 37 per cento, il diritto di nominare il segretario, Ferri o Mancini che fosse? Ma perché contemporaneamente non riconoscere alla seconda corrente, quella di De Martino, il diritto di guidare la futura delegazione al governo? In parole più semplici: De Martino rinunciasse alla segreteria e Nenni, se del caso, alla presidenza. Mancini o Ferri, segretario; De Martino presidente del partito e futuro vice-presidente del Consiglio.
    Mancini non disse subito “no” alla proposta Giolitti. Gli autonomisti desideravano da tempo riacquistare il controllo della segreteria, e quindi dell’apparato; temevano, e non a torto, di dover tornare al governo con una segreteria ostile, o dissidente, o riservata alle spalle, capace soltanto di attirare la delegazione dei ministri nei trabocchetti fatali del doppio binario. Preferivano mille volte, e con ragione, De Martino al governo: garanzia di stabilità e di sicurezza per il partito e per gli stessi alleati della coalizione.
    Ad un certo punto l’accordo sembrò questione di ore. A farlo fallire in modo definitivo e inesorabile contribuì l’intransigenza dei demartiniani sulla “collocazione” di Nenni: che si voleva a tutti i costi segretario del partito, quasi per umiliarlo e subordinarlo a De Martino. Era il processo di contestazione e di “dissacrazione” iniziato al congresso di Roma e che ci aveva evocato il parallelo con De Gasperi al congresso di Napoli del ’54. Nenni non poteva accettare il “declassamento” cui volevano spingerlo uomini che hanno infinitamente minori meriti di lui nella storia del socialismo e della democrazia in Italia. Si è aggiunto, come ha ricordato Tanassi, il dissenso, radicale e insuperabile, sui rapporti coi comunisti e sulla delimitazione della maggioranza.
    Non rimaneva che la via di una segreteria di maggioranza omogenea, autonomisti più tanassiani, anche se con un margine minimo, il 52 o 53 per cento. Era la via che era stata imboccata fin dall’indomani del congresso come arma di pressione su De Martino molto più che come termine di soluzione finale. Si era creduto di “spaventare” il leader di Riscossa, di persuaderlo a venire a patti. Si era fatto leva sulla sua antica amicizia, e quasi deferenza, verso Nenni. Si era sperato di staccare dalla corrente demartiniana una parte dei suoi esponenti, quelli di origine autonomista, taluni legati da vincoli di devozione o di gratitudine a Nenni, certi altri più sensibili al richiamo del collaborazionismo governativo. Si era escluso, insomma, che De Martino volesse arrivare alla rottura.
    E invece? Invece la rottura c’è stata, e non facilmente riparabile. Gli autonomisti del vecchio PSI, e gli ex-socialdemocratici, debbono affrontare da soli il compito, difficile e impegnativo, della gestione maggioritaria del partito: senza intolleranze, senza esclusivismi, in vista di rappresentare tutto il partito e non una sola parte di esso.
    È il compito della presidenza Nenni, è il compito della futura segreteria autonomista. È un compito reso particolarmente difficile, non solo dalle ferite del partito, quanto dalle scadenze, non facilmente dilazionabili, del governo.
    Per fortuna, in tanta confusione, in una confusione rasentante il marasma, una parola chiara e ferma si è levata dal partito repubblicano riunito a congresso a Milano. L’appello di La Malfa a ricostituire il centro-sinistra ha coinciso col momento più acuto, e più paralizzante, della crisi del PSI. E mai appello ha suonato più opportuno, più efficace: contro i rischi, tutt’altro che immaginari, di un vuoto di potere, contro le tentazioni, facili ma pericolose, di un’avventura elettorale che aggraverebbe solo le condizioni, già tanto precarie e incerte, della democrazia in Italia.
    Nonostante l’apparente smentita del mancato accordo al Comitato centrale del PSI, la via della collaborazione indicata da La Malfa al Lirico di Milano appare come la sola realistica e valida. La sola capace di sbloccare la crisi delle libere istituzioni, di restituire un po’ di fiducia e di stabilità al paese: al paese tanto migliore della sua classe politica.
    La Malfa l’ha ricordato, con consueto vigore e con la consueta efficacia: non esiste oggi una prospettiva di unità delle sinistre, di schieramento unitario che vada dai cattolici ai comunisti. La tesi della “grande sinistra”, caldeggiata da Parri, è improponibile. E la via dell’altra sinistra, della sinistra che protesta e contesta, come ha detto bene Francesco Compagna, in base a catechismi un po’ conciliari e un po’ cinesi, serve soltanto ad offrire pretesti alle forze di destra, a favorire le soluzioni reazionarie o le tentazioni conservatrici (non dicono nulla le elezioni di giugno in Francia e lo stesso riflusso dell’opinione americana consacrato dalla scelta di Nixon?).
    La via è una sola, per i partiti democratici laici e cattolici: una coerente assunzione di responsabilità, un esercizio consapevole e conseguente dei diritti che competono alla maggioranza parlamentare. Nella linea della solidarietà democratica, che non è e non potrà mai essere quella della Repubblica conciliare.


    Giovanni Spadolini


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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    [Il PSU verso la scissione, VIII] - L’errore


    “Corriere della Sera”, 18 maggio 1969


    Bisogna darne atto a Nenni. Tutto sembrava compromesso, tutto sembrava perduto, nelle sconvolte file del partito socialista, quando la sua parola ha evitato il peggio, quando il suo appello ha consentito almeno un momento di tregua, un attimo di respiro. L’ipotesi più grave, l’ipotesi della spaccatura, è stata evitata. Per quanto? Solo per pochi giorni o per pochi mesi?
    Esaminiamo con freddezza la situazione, così drammatica da non consentire nessuna evasione retorica. Nel partito socialista non esiste più nessuna maggioranza: né la vecchia né la nuova. La vecchia si è dissolta: non importa sapere come e perché. C’era un cartello di maggioranza, risicatissima d’altronde, il cinquantadue o cinquantatre per cento, che andava da Tanassi e Mancini. Mancini l’ha rotto: convinto di poter scalare senza troppa fatica la segreteria del partito grazie all’aiuto preventivamente negoziato di De Martino e di Giolitti, convinto soprattutto di poter domare con relativa facilità, e senza traumi, la resistenza degli ex-alleati divenuti avversari.
    È una previsione che si è rivelata sbagliata alla prova dei fatti (e nulla è peggiore in politica delle previsioni sbagliate, ha detto Nenni). L’arma della scissione non era la “pistola scarica” in cui aveva confidato il ministro dei lavori pubblici. L’uscita di Mancini bastava a liquidare la vecchia maggioranza, non a crearne una nuova.
    È quanto si è verificato nelle ultime convulse sedute del comitato centrale. L’appello di Nenni all’unità, non scompagnato da critiche pertinenti e precise all’antico collaboratore e discepolo, è bastato ad ingenerare perplessità e ripensamenti nelle stesse file, eterogenee e divise, della cosiddetta “nuova maggioranza”. Qualche demartiniano, dell’ala di Mariotti e di Cattani, che aveva sempre dimostrato spirito di realismo e di responsabilità; qualche giolittiano, come l’onorevole Fortuna, costantemente distintosi in un animoso sforzo unitario; quella piccola ma non irrilevante frazione di ex-socialdemocratici, da Pellicani ad Ariosto, confluita nelle file della demartiniana “Riscossa” con accenti e toni propri. In breve: quanto bastava per rendere incerta l’elezione di Mancini, aleatoria e forse inesistente la base, già in partenza ristrettissima, delle nuova segreteria. A meno di non aprire fino a Lombardi: con tutte le conseguenze e le lacerazioni del caso.
    Conclusione: oggi non sono possibili né un bis della segreteria Ferri né un lancio della segreteria Mancini. Si impone una soluzione di compromesso, una “terza via” che eviti le conseguenze disastrose di una scissione, sufficiente certo a liquidare il prestigio del socialismo in Italia, ma non a fare avanzare di un millimetro la soluzione dei nostri problemi nazionali.
    Nenni ha prospettato in sostanza due soluzioni: una ideale, ed una di compromesso. La prima consiste nel far coincidere la maggioranza di palazzo Chigi con la maggioranza del partito: riflettere nella gestione interna del PSI le stesse correnti, da Tanassi a Giolitti, che si esprimono nella gestione del governo. È stato lo sforzo, generoso e paziente, in cui si è consumata e infranta la segreteria Ferri. Esiste la possibilità di rilanciarla da basi nuove, con uomini nuovi, sulla base della più alta rappresentatività, magari con l’avallo dello stesso Nenni? Si tratta di un tentativo che merita di essere comunque compiuto: al di là delle non grandi possibilità di successo, nel clima di tensione che caratterizza il PSI, un clima aggravato da contrasti personali e di potere che superano, e talvolta sostituiscono, i dissensi ideologici o programmatici. Ma c’è anche una soluzione di compromesso, di portata limitata negli scopi e nei tempi, insufficiente a conseguire il meglio ma sufficiente a scongiurare il peggio, il peggio di una frantumazione e di una diaspora delle forze socialiste due anni e mezzo dopo l’unificazione. Ed è una gestione paritetica del partito, una specie di comitato dei garanti, comprensivo di tutte quattro le correnti che si riconoscono nell’unificazione (Lombardi non c’entra!) e in cui siano rappresentati, in una forma o nell’altra, i due uomini cui è legata la sopravvivenza del socialismo italiano, Nenni e De Martino.
    È un filo che non si è ancora rotto: quello fra Nenni e De Martino. L’operazione Mancini ha confuso le carte, ma non ha spezzato il dialogo fra i filoni più rappresentativi del socialismo italiano. Un congresso straordinario, preparato con tutte le necessarie e irrinunciabili garanzie democratiche, può consentire il formarsi di nuove maggioranze e di nuove minoranze, non più sul metro delle lotte di potere o delle contrapposizioni personali.
    Un punto è certo, e Nenni ha fatto benissimo a metterlo in rilievo nel suo accorato e drammatico appello: il paese non capirebbe assolutamente una rottura fra i socialisti, in questo momento, in queste condizioni. Anche quella parte dell’opinione pubblica, che non fu fautrice dell’unificazione, che la giudicò intempestiva o precipitosa, condannerebbe oggi con estrema durezza una frattura del socialismo destinata a togliere ogni margine di maggioranza alla democrazia.
    Non c’è dubbio. L’unificazione può essere stata un errore, almeno nella scelta dei tempi; ma la rottura dell’unificazione rappresenterebbe un errore più grave e in ogni caso irreparabile. Il centro-sinistra sarebbe distrutto e vanificato; l’ipotesi della Repubblica conciliare ne sarebbe avvantaggiata. Nessuno dei due tronconi socialisti sarebbe sufficiente da solo a sorreggere un governo con la democrazia cristiana: con quella stessa democrazia cristiana in cui riprenderebbero necessariamente forza le correnti integraliste ed egemoniche, magari in vista di un nuovo, e illusorio, 18 aprile. Alla rinata socialdemocrazia mancherebbe il leader, che abita nelle stanze del Quirinale; Nenni resterebbe prigioniero impotente, nel suo vecchio partito. Lo stesso PSI sarebbe fatalmente riattratto sulla linea protestataria e massimalista di una parte del PSIUP, attraverso la mediazione di Lombardi: il solo e vero vincitore, in quanto il solo e coerente avversario dell’unificazione, da sempre.
    È quello che si vuole? In fondo alla strada della spaccatura socialista, non ci sono che le elezioni anticipate: in un clima da crociata e da polarizzazione delle forze, a solo vantaggio di democristiani e di comunisti, con sacrificio probabilmente definitivo di quel poco che rimane dell’Italia laica e risorgimentale.
    Altro che “confronto” coi comunisti! Lo stesso nobile e astratto sogno di De Martino, stimolare il revisionismo comunista, sarebbe smentito. C’è un solo modo, per i socialisti, di aiutare i comunisti sulla via faticosa e accidentata della loro revisione in prospettiva: ed è il modo ricordato da Nenni, “fare ognuno la propria parte”. “Noi la nostra, i comunisti la loro”.
    “I socialisti coi socialisti, i comunisti coi comunisti”: era la parola d’ordine di Giacomo Matteotti. A proposito: perché non richiamarsi, proprio in questi giorni difficili, all’eredità di Matteotti? Sarebbe qualcosa più di un omaggio formale; sarebbe un impegno politico. L’impegno a non ripetere le follie del ’22 e delle scissioni che precedettero di poco la marcia su Roma.


    Giovanni Spadolini



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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    [Il PSU verso la scissione, IX] - Le due crisi


    “Corriere della Sera”, 2 luglio 1969



    È chiaro: le due crisi, la crisi del PSI e quella della DC, tendono a collegarsi e a condizionarsi a vicenda. L’ombra della scissione socialista ha dominato il congresso dell’EUR; il fantasma delle divisioni e delle spaccature democristiane sta decidendo le sorti di quello che rimane dell’unificazione socialista, fra occupazioni di sedi, contrasti di correnti, rovesciamenti e ribaltamenti di situazioni o di predomini locali.
    Gli autonomisti dell’ex-PSI hanno rilevato un “parallelismo impressionante” fra la nuova maggioranza socialista, quella di De Martino e Mancini disposta al dialogo col PCI, e la nuova maggioranza postulata dalle sinistre democristiane, come arma di rottura del vecchio monopolio doroteo e come strumento di apertura verso le opposizioni, a cominciare dai comunisti. Parallelismi formali a parte, un dato emerge con chiarezza dalle deludenti conclusioni del congresso democristiano e dal travaglio, tuttora in corso, del partito socialista: la difficoltà di fondo, comune ad entrambi i gruppi ispiratori e protagonisti della svolta di centro-sinistra, ad esprimere una maggioranza interna di partito che aderisca alla stessa maggioranza riflessa – fino a quando? – nel governo di coalizione, cioè nel ministero Rumor. Sottoposto non a caso ad una duplice e convergente minaccia, la grave minaccia di una doppia crisi.
    Ma procediamo con ordine. Il congresso della democrazia cristiana non ha risolto nessuno dei problemi politici essenziali per i quali era stato convocato, in anticipo sulle stesse scadenze statutarie. Né quello di una linea politica unitaria, né quello di una maggioranza conforme. Anzi: i quattro giorni di lavori all’EUR hanno approfondito i solchi, politici, psicologici ed anche umani, fra i due blocchi in cui il partito ha finito per spaccarsi e dilacerarsi, oltre tutti i tentativi di mediazione e di ponte, falliti l’uno dietro l’altro.
    La conta formale dei voti dice poco o niente. Sì: i dorotei sono cresciuti, in modo significativo: meritato il premio allo slancio di Rumor nel governo e all’attivismo di Piccoli nel partito. Il blocco delle forze, dorotei, fanfaniani e tavianei, che elesse Piccoli alla segreteria della DC nella grave crisi che vide la rottura con Moro, potrebbe teoricamente riassumere la guida del partito, esercitare i diritti di una maggioranza aritmeticamente superiore al sessanta per cento. Ma potrà o saprà farlo?
    In quel cartello di potere c’è una sola corrente relativamente omogenea, la corrente dorotea, nucleo di maggioranza relativa e perno di ogni possibile combinazione all’interno dello Scudo Crociato (ed è la corrente che è rispecchiata nel programma realistico e concreto di Colombo). Ma gli altri due gruppi? Come matrice e come estrazione, i “pontieri” di Taviani non sono molto dissimili dai dorotei: con qualche accentuazione, più formale che sostanziale, di sinistra. Ma neppure l’alleanza fra dorotei e tavianei, la meno difficile fra tutte, assicurerebbe il cinquanta per cento all’interno del partito: un cinquanta per cento che poi non basterebbe neppure a garantire le condizioni di una guida salda e sicura. Occorre il concorso, determinante, del nucleo fanfaniano: il nucleo su cui si è sorretta la segreteria Piccoli e su cui dovrà necessariamente fondarsi un’eventuale reinvestitura dello stesso Piccoli.
    Qui si moltiplicano, e si inaspriscono, i problemi. Il gruppo di Fanfani è, per origine ideologico, un gruppo di sinistra: con punte, almeno in passato, integraliste e populiste. La lieve erosione testimoniata dalle cifre coincide appunto con un’erosione a sinistra: a vantaggio dei morotei, cresciuti, e sia pure in parte a scapito degli stessi alleati interni. C’è un settore dei fanfaniani che non è insensibile al richiamo della nuova maggioranza. Dove si sposterà Fanfani? Al centro o a sinistra?
    Il piano degli amici di Moro è stato ben preciso: obbligare fanfaniani e tavianei a rompere con l’ala dorotea, indurli a dislocarsi sulla sinistra, in funzione della famosa nuova maggioranza. Opera, per una parte, l’antica e tenace contrapposizione fra Moro e Fanfani: per le future e più alte scadenze, non solo e non tanto del partito quanto del governo e dello Stato. Operano diversità, antiche e recenti, di visione e di valutazione politica. Operano infiniti fattori, anche di temperamento e di stati d’animo. Ma il risultato non cambia. La minaccia di crisi sul governo Rumor, scopertamente avanzata dalle sinistre democristiane e più cautamente avallata dal gruppo moroteo, mette in discussione e in pericolo i già precari equilibri del partito di maggioranza relativa: equilibri che non potevano facilmente resistere – ed era facile previsione – alla emarginazione, sia pure silenziosa, di un uomo dell’autorità e del prestigio di Moro. Divenuto, magari controvoglia, il leader di tutto il cartello delle opposizioni, non escluse punte tutt’altro che di sinistra.

    La lotta fra vecchia e nuova maggioranza passa dunque nella DC all’interno dei due schieramenti: complicando tutti i dati del problema ad annullando ogni possibilità di riferimenti precisi e coerenti per il paese e per una opinione pubblica che rischia di smarrirsi ogni giorno di più in un giuoco politico cifrato e impenetrabile.
    La gravità della minaccia che pesa sul governo Rumor da parte della sinistra democristiana è solo bilanciata dall’altra minaccia ancora più incombente e pressante, quella della scissione socialista. Se l’estremo tentativo di Nenni fallisse, la rottura della coalizione sarebbe la conseguenza immediata, e inevitabile, della frattura fra i due tronconi socialisti: consentendo alla DC quel minimo respiro, e di provvisoria tregua interna, inevitabile in caso di elezioni anticipate.
    Qualora la logica avesse ancora un minimo di udienza nei nostri partiti democratici, dominati da una crisi profonda che sembra talvolta insanabile, i socialisti dovrebbero almeno attendere gli ultimi sbocchi della spietata lotta in corso in casa democristiana, prima di regalare ai loro alleati-concorrenti l’alibi della scissione.
    La disperata operazione tentata da Nenni, quasi più difficile della rianimazione di un cadavere, parte da questa latente ma effettiva contrapposizione fra le due crisi.
    Le prossime saranno ore decisive al riguardo. Nessuno pensi di sottrarsi alle proprie responsabilità storiche, in questo che appare veramente come il momento della verità. Né i fautori del dialogo coi comunisti, coloro che rischiano di arrestare una crisi benefica e profonda che avrebbe potuto trasformarsi nella vittoria della democrazia; né tutti i responsabili di quelle sciagurate operazioni di potere che hanno portato gloriosi partiti democratici, come i socialisti, alle soglie dello sfacelo e della disintegrazione attuali. Per tutti vale quanto ha scritto ieri un giornale che è abituato a pesare le parole, Le Monde.

    “Le conseguenze di una scissione socialista e di una crisi ministeriale in Italia sarebbero gravi. Elezioni anticipate potrebbero condurre al rafforzamento dei due grandi blocchi, democristiano e comunista, fra i quali le forze socialiste riformiste rischierebbero di essere schiacciate… Sarà allora il momento – è sempre Le Monde che parla – di spaventarsi dei pericoli che la ‘Repubblica conciliare’, basata sull’alleanza dei comunisti e di parte dei cattolici, farebbe correre alla libertà degli italiani. È un’ipotesi che potrebbe diventare realtà. Eliminando il partito socialista, si sarà spezzato lo strumento in grado di scongiurare quel pericolo. Bisogna ricordarsi del prezzo che le debolezze del partito socialista e dei cattolici fecero pagare all’Italia del 1922. Fu l’avvento del fascismo”.


    Giovanni Spadolini


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    Ultima modifica di Frescobaldi; 13-03-16 alle 01:44
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  10. #150
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    [Il PSU verso la scissione, X] - Si poteva evitare


    “Corriere della Sera”, 5 luglio 1969



    Tutto è stato inutile. Ogni tentativo di mediazione è fallito; ogni speranza di intesa è naufragata. Nenni si è prodigato fino all’estremo limite delle sue forze per salvare l’unità socialista: e l’ha fatto con la passione e la dedizione che aveva portato in tutta la causa dell’unificazione, dimentico delle ingiurie subite, degli abbandoni e dei tradimenti di cui è costellata la storia malinconica degli ultimi anni di socialismo in Italia. Le stesse correnti più intransigenti dell’antica socialdemocrazia, a cominciare dal gruppo di Tanassi, avevano rivelato nella stretta finale un notevole senso di responsabilità e di moderazione: dopo incertezze e perplessità senza fine, avevano accettato di confluire sul documento unitario dell’anziano leader socialista.

    Nel pomeriggio di ieri la situazione sembrava sbloccata. Le ultime riserve dei tanassiani erano cadute. Le garanzie, chieste con tanta insistenza dalla componente socialdemocratica della vecchia maggioranza, avevano finito per identificarsi nella persona di Nenni, nel suo prestigio, nell’avallo che egli portava a tutti i credenti nelle tesi di un autentico socialismo democratico in Italia. La minoranza più accanitamente scissionista degli ex-socialdemocratici era stata contenuta e domata da Tanassi, in vista di quella segreteria Nenni, anche se di maggioranza relativa, che rappresentava la sola possibilità di uscire dalla drammatica crisi attuale.
    Era evidente il gentlemen agreement che era alla base dell’operazione Nenni. Non solo la confluenza dei gruppi di “Autonomia” e di “Rinnovamento” sulle posizioni della segreteria di conciliazione e di tregua, ma anche il concorso operante dei cosiddetti “pontieri” e della frazione della UIL, capitanata dal senatore Viglianesi e già parte integrante della vecchia maggioranza dissolta dal colpo di mano dell’onorevole Mancini (che ora può essere veramente soddisfatto dell’operazione compiuta e dei risultati raggiunti: un primato che non teme confronti!).

    E invece? Invece i “pontieri”, con l’eccezione del valoroso e coerente gruppo milanese, si sono rivelati inferiori ad ogni aspettativa. Uomini, come il ministro Mariotti, che avevano predicato l’unità ed erano stati dispensatori di saggezza, si sono allineati al documento di De Martino e Mancini, ben sapendo che il varo di quel testo significava la scissione. Nenni è stato abbandonato anche da socialisti che dovevano a lui tutte le loro fortune politiche. Il gruppo della UIL ha tradito tutte le attese, ha deluso tutte le speranze che l’atteggiamento possibilista del senatore Viglianesi aveva pur giustificato, nel momento delle più aspre divisioni, nelle ore più difficili.
    Non c’è attenuante per chi ha determinato la scissione. Il documento di Nenni è stato votato per primo: e ha raccolto solo cinquantadue voti, almeno dieci in meno del previsto (e dodici meno di quelli su cui si sorresse a suo tempo la segreteria Ferri). Se si voleva scongiurare, come era dovere di ogni socialista degno del nome, la spaccatura del partito, funesta per la democrazia e per il socialismo, si doveva almeno evitare di mettere in votazione un testo che, dopo le polemiche e le divisioni di un mese e mezzo, equivaleva semplicemente ad un testo, inequivocabile, di provocazione e di rottura.
    Le radici della crisi di oggi sono ben note. Tutto risale al disinvolto capovolgimento di alleanze operato dall’onorevole Mancini, già componente autorevole e determinante della maggioranza, la sola maggioranza possibile, uscita dal congresso di Roma, quella del cinquantadue per cento. Dopo l’uscita di Mancini dal gruppo di Autonomia, lo stesso che aveva combattuto con tanto vigore il disimpegno post-elettorale del PSI, e dopo la sua sconcertante alleanza con De Martino in vista di mettere insieme la nuova maggioranza nettamente spostata a sinistra, la situazione del socialismo cosiddetto “unificato” si era andata aggravando e deteriorando in modo irreparabile. Gli ex-socialdemocratici si erano visti isolati. Gli autonomisti del gruppo Preti che erano riusciti a dare all’unificazione anche una struttura di corrente, associando uomini provenienti dalle due componenti dei partiti di origine, avevano visto esaurire e vanificare la loro naturale funzione di ponte fra i due gruppi. Mauro Ferri che aveva assunto, con coraggio, la guida del partito nella speranza di poter allargare l’esigua maggioranza del 52 per cento aveva dovuto lasciare la segreteria.
    La “nuova maggioranza” non si era costituita e non era nemmeno tale, come hanno dimostrato chiaramente i voti di ieri sera. Nel frattempo però era stata distrutta la vecchia maggioranza e per molte settimane il partito unificato era stato gestito da un comitato di capi corrente senza poteri e senza prestigio presso la base del partito sempre più sconcertata e umiliata, sempre più divisa e frantumata.
    Il resto è cronaca nota. Sedute inutili del comitato centrale. Riunioni logoranti dei capi corrente destinate a finire in un nulla di fatto di fronte alle richieste di garanzie precise fatte dalla vecchia maggioranza. E infine la mediazione di Nenni, il chiarissimo documento che in nome dell’unità raggiunta tre anni or sono proponeva una soluzione equa: una maggioranza di partito corrispondente a quella che era presente al governo e tale comunque da evitare il pericolo di una rottura senza ritorno.
    La sconfitta di Nenni è, diciamolo senza falsi pudori, una sconfitta per tutta la democrazia. Le conseguenze della lacerazione socialista sono già sotto gli occhi di tutti. Il governo Rumor è in crisi. Tutti i ministri e i sottosegretari socialdemocratici e autonomisti, aderenti al nuovo “partito socialista unitario”, hanno rassegnato le loro dimissioni dal ministero di centrosinistra: un ministero che aveva guadagnato, pur in mezzo a difficoltà e a traversie senza pari, benemerenze non piccole nella vita nazionale. I responsabili laici e progressisti della scissione hanno regalato alla stessa democrazia cristiana l’occasione di evitare, o di rimandare sine die, quel chiarimento interno che avrebbe giovato agli equilibri complessivi del nostro paese.

    Un’ombra di dissoluzione si distende sulla vita nazionale. Siamo alle soglie di quella che appare come la più difficile crisi del dopoguerra: in un clima di rottura formale fra i socialisti, in un clima di tensione e di lacerazione profonda fra i democristiani. Solo il senso di responsabilità di tutte le forze autenticamente democratiche può garantire, alla crisi ormai aperta, uno sbocco tale da scongiurare soluzioni di avventura o di pericolo per le istituzioni. C’è ancora un margine di maggioranza per la democrazia. Guai a non approfittarne!


    Giovanni Spadolini


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