[Il PSU verso la scissione, I] - Socialisti inquieti
“Corriere della Sera”, 30 giugno 1968
Nenni aveva previsto tutto. Il disimpegno del PSU dalle responsabilità di governo, senza nessuna motivazione al di fuori di una reazione dispettosa e irritata all’esito delle une, avrebbe riacutizzato tutti i motivi di polemica e il dissenso in seno al PSU, avrebbe rimesso in discussione le stesse conquiste fondamentali dell’unificazione.
È quello che sta esattamente avvenendo. Le cinque correnti che si preparano a combattersi senza esclusione di colpi in vista del congresso di ottobre riflettono lo stato di disorientamento e di smarrimento che si è impadronito del partito, nel momento preciso in cui la funzione del socialismo italiano, finalmente liberato da ogni ipoteca massimalista, poteva riacquistare un peso determinante per la salvaguardia e lo sviluppo della democrazia nel nostro paese. Non solo: ma rappresentano, quelle cinque correnti, un completo e sconcertante rimescolamento delle carte tale da disorientare l’opinione pubblica, tale da frantumare tutti gli schemi costituiti e tutti i punti di riferimento, in qualche misura, obbligati.
Cosa sopravvive più delle antiche tavole di valori, pro e contro l’unificazione, pro e contro l’autonomia socialista, che hanno caratterizzato un nobile travaglio di anni? Le divisioni avvengono sul terreno dei personalismi, più che delle idee. Amici, riuniti da anni di comuni esperienze nell’uno o nell’altro dei due rami confluiti nell’unificazione, si combattono con l’asprezza che nasce solo dalle amicizie tradite o deluse. Si lotta contro il predominio di questa o quella corrente, piuttosto che in favore di una o di un’altra impostazione di governo o di partito. Siamo alla fase dei rinfacci, dei dispetti, dei pettegolezzi spesso miserabili, che avviliscono tutto e tutti.
Nessuno dei criteri tradizionali di classificazione politica o ideologica regge alla prova. Le polemiche più aspre dividono gli elementi provenienti dall’uno o dall’altro partito: caso Tanassi contro Preti, caso De Martino contro Mancini. Giolitti, che rappresentava la testa forte della sinistra lombardiana, ha rotto con le posizioni massimaliste e protestatarie del suo antico gruppo, ha imboccato la via di un realismo concreto e sia pure ancorato, in vista del rientro al governo, ad alcune pregiudiziali rigide e vincolanti. De Martino e Tanassi continuano a sorreggersi, reciprocamente, per la difesa, difficile difesa in verità, del disimpegno ma si dividono su tutto il resto, dalla politica estera alla concezione delle alleanze del partito. La cosiddetta “maggioranza” tende a polverizzarsi, mentre i nuclei della minoranza faticano a rincontrarsi e coordinarsi.
“È finito – dice Lombardi con evidente sottinteso polemico nei riguardi di Nenni – il tempo del partito di papà”. E si vede. È bastato che la leadership morale e politica di Nenni fosse messa in discussione all’indomani del 19 maggio perché il travaglio del partito, contenuto da una guida saggia e previdente, esplodesse in forme irrazionali ed esasperate, pericolosissime per la stessa popolarità della causa socialista in Italia.
Altro che “partito di papà”! Il paese, che capiva il linguaggio di Nenni, che confidava nella creazione di una importante forza socialista erede insieme di palazzo Barberini e del riscatto autonomista, non capisce assolutamente più niente. Non penetra nella lotta delle correnti, spesso indecifrabile ed ermetica; si arrende sgomento di fronte all’esplosione delle rivalità personali, neppure contenuto da un minimo di pudore. Non intuisce gli sbocchi di un simile disordinato e caotico succedersi di contraddizioni e di impennate; si augura che la febbre post-elettorale stia per finire. Perché sa e sente, il paese, che senza una diretta e coerente assunzione di responsabilità da parte dei socialisti le sorti della nostra democrazia sarebbero compromesse. A vantaggio del dialogo, della “Repubblica conciliare”: destinata a restare, in prospettiva, l’unica alternativa (e quale alternativa!).
È possibile ancora rimediare al male degli ultimi mesi? Sì: una strada esiste. Delle cinque correnti in cui si è diviso il PSU, al di là dei frazionismi armati dalle delusioni e dal rancore, tre si muovono su un piano sostanzialmente comune, tre partono dalla convergente fedeltà alla ispirazione originaria di un centro-sinistra concepito come scelta democratica e rifiuto di ogni alleanza coi comunisti. Tre correnti che possono e debbono ritrovarsi; il gruppo di “autonomia socialista” che da Nenni va a Preti e a Mancini, il nucleo di revisionismo critico che si identifica nel nome di Giolitti e la stessa falange di “socialismo democratico” che fa capo a Tanassi, oltre ogni superstite confluenza tattica con De Martino.
Tre correnti che rappresentano la netta e incontestabile maggioranza del partito. Tre correnti che rispecchiano ed incarnano la stessa fedeltà alla Costituente socialista del 1966. Rimangono fuori da tale quadro i fedelissimi di De Martino e di Lombardi. Critici del centro-sinistra, e da sempre, i primi; avversari irriducibili della formula, i secondi (parte dei quali batté fin dal ’64 col cuore della missione).
Impossibile rivolgere a De Martino e a Lombardi una qualsiasi accusa di incoerenza. Né manca, nell’atteggiamento di De Martino, una linea di nobiltà, che è poi degna dell’uomo. Ma la politica è fatta di scelte precise e talvolta amare: e non è pensabile che il partito socialista possa sottrarsi oltre un certo limite a quelle responsabilità senza le quali il destino del centro-sinistra sarebbe segnato, ma non solo il destino del centrosinistra. E si imporrebbe un appello immediato alle urne, con incognite semplicemente allarmanti per il PSU.
Solo un’affermazione chiara delle tre correnti, che in un modo o nell’altro si riconoscono della tesi dell’autonomia socialista, potrebbe consentire a novembre un ritorno al governo in condizioni di efficienza e di dignità e un superamento dell’attuale difficile crisi politica e psicologica. Nenni prevedeva cinque milioni di voti pochi giorni prima delle elezioni. Ne ha avuto quattro milioni e seicentomila. Un partito degno di questo nome non promuove una crisi, suscettibile di diventare crisi di regime, per quattrocentomila voti in meno. Si avvicina, per tutti i socialisti, l’ora della responsabilità e della riflessione. Che è poi premessa essenziale per una qualsiasi rivincita.
Giovanni Spadolini
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