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  1. #21
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    [URL=http://nuvolarossa.ilcannocchiale.it/]"Direttore del "Corriere" e presidente del Consiglio"

    di Cosimo Ceccuti

    "Era un grande uomo", mi ha detto appena un mese fa a proposito di Giovanni Spadolini, Simon Peres, a Firenze per ricevere il premio speciale Galileo 2000 per la pace. Un giudizio lapidario che conferma quanto la figura e l'opera di Giovanni Spadolini siano vivi e attuali, in Italia e nel mondo, a nove anni dalla scomparsa.

    Il "grande uomo" che Israele ha onorato con due lauree honoris causa (Tel Aviv e Gerusalemme) e coll'intestazione di un bosco, ha vissuto più vite in una: storico, giornalista, politico. Momenti che nell'intellettuale fiorentino sono coesistiti, intrecciati fra loro in modo inscindibile. Docente di Storia contemporanea alla facoltà di Scienze politiche "Cesare Alfieri" di Firenze e presidente della Bocconi di Milano, direttore di grandi quotidiani, quali il Resto del Carlino, il Corriere della Sera e la nostra Voce Repubblicana, primo presidente del Consiglio laico della repubblica, ministro fondatore del dicastero per i Beni culturali e ambientali nel bicolore Moro - La Malfa e poi ministro della Pubblica istruzione e della Difesa, segretario nazionale del Partito repubblicano, presidente del Senato.

    "Non saprei separare le direzioni dei giornali, per quasi diciotto anni - confidò un giorno lo stesso Spadolini - dalle successive battaglie in Parlamento e nel partito, se non per un diverso e, nella seconda esperienza, più intenso tipo di impegno. Non appartenni mai ai direttori indifferenti, ai sostenitori della separazione netta fra fatti e opinioni, ai fautori della neutralità nella guida dei quotidiani… A via Solferino, a via Laura, a Palazzo Chigi, ho sempre cercato di ispirarmi a quella che in chiave gobettiana si potrebbe chiamare una "certa idea dell'italia". Quella "certa idea dell'italia", che condivise interamente con Ugo La Malfa, ispirò la sua azione politica: "L'Italia laica", secondo il titolo di una delle opere sue più fortunate.

    Laicismo, come spirito di tolleranza e fede nella ragione, elevato a metodo di azione politica, e la politica stessa intesa come funzione, come servizio pubblico, l'onesta scelta della cosa concreta nell'interesse dei cittadini. Laicismo come senso delle istituzioni, coscienza della funzione pubblica, devozione allo Stato senza alcun provincialismo né tantomeno separatismo. "Questa è l'Italia: - sono le sue ultime parole pronunciate in Parlamento, nella seduta del 17 maggio 1994 a Palazzo Madama - noi portiamo, avrebbero detto i nostri vecchi, un amore secolare all'Italia senza distinzione fra Busto Arsizio e Battipaglia".

    Un'idea alta e severa dell'Italia, quella intimamente avvertita da Spadolini, un senso di concretezza mai separato dalla coscienza delle forze operanti nella società, la prevalenza del politico sul sociale, contro ogni populismo e soprattutto contro ogni fuga nel messianesimo e nell'utopia.

    La cultura laica a cui Spadolini ha fatto costante riferimento e della quale è stato uno degli esponenti più significativi di questo ultimo sessantennio, era la stessa che aveva previsto da tempo il tramonto delle nazionalizzazioni, quando queste erano giudicate l'optimum, contrapponendovi un modello di società industriale avanzata, con una seria politica dei redditi: era la stessa che aveva sempre difeso i valori della selezione e del merito, dalla scuola alla vita sociale, nel periodo della grande confusione mentale, scambiata per contestazione.

    Un'Italia della ragione dunque, l'Italia del dissenso e dei valori, contro quella del compromesso e della rinuncia, molto spesso un'Italia di minoranza, che tuttavia agì come germe vitale e componente irrinunciabile nelle composizioni governative, dal centrismo al centrosinistra, fino agli ultimi anni.

    Cultura laica come laica come cultura critica. Si pensi all'incidenza nel processo di revisione e di trasformazione sia nella Democrazia cristiana che nel Partito comunista.

    Quando si crede di aver raggiunto l'arcobaleno ai piedi di una nuvola ci si accorge che si è spostato più in là, secondo un immagine cara a Pietro Calamandrei. L'impegno dei laici, ci ammonisce Spadolini, è uno solo: continuare a inseguire l'arcobaleno senza fermarsi.
    [URL]
    tratto dal sito

  2. #22
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    Ricordo di Spadolini

    4 agosto 1994, una dolorosa scomparsa

    di Francesco Nucara

    Non si può concepire un ricordo dell'uomo politico Giovanni Spadolini separatamente dal ricordo della sua azione intellettuale e del suo innovativo pensiero personale, determinato con costanza e coerenza a ridare attualità all'ideale (da lui ritenuto e definito "un fiume carsico che riemerge in determinati momenti della Storia d'Italia") laico, liberaldemocratico e radicale del nostro Risorgimento.

    Giovanni Spadolini non fu mai amato fino in fondo da alcuni repubblicani, che lo consideravano un "usurpatore". D'altra parte la stessa sorte era toccata a Ugo La Malfa all'inizio degli anni ‘50. I cosiddetti "repubblicani storici" hanno sempre considerato "estranei" quelli che avevano avuto radici diverse nella loro formazione politica.

    Quando il PRI era ridotto all'1,2%, Ugo La Malfa, assunta la segreteria nel ‘65, pensò di partire dal Mezzogiorno per creare un terreno di forza elettorale al Partito Repubblicano Italiano. Dopo il successo del ‘68 Ugo La Malfa spostò il suo raggio d'azione nel Settentrione e nel ‘72 compì un duplice "miracolo": rafforzò ancor più il Pri e consacrò il ricambio della classe dirigente. E proprio nel ‘72 al direttore del Corriere della Sera Giovanni Spadolini fu rivolto l'invito di entrare nelle file del Pri.

    Giovanni Spadolini fu eletto al Senato a Milano. Entrò al Governo dapprima come primo Ministro dei Beni Culturali della Repubblica (fino ad allora i Beni Culturali erano stati gestiti da una Direzione Generale del Ministero degli Interni). In seguito fu più volte ministro e primo Presidente laico del Consiglio dei Ministri. E' stato anche Presidente del Senato. Fu eletto Segretario del PRI, nel settembre del 1979, subito dopo la morte di Ugo La Malfa, e ne fu consacrato leader al Congresso di Roma del 1981.

    Spadolini non solo portò avanti con grande dignità la sua carica di successore di Ugo La Malfa alla segreteria del Partito Repubblicano, ma raggiunse traguardi memorabili, rivitalizzando letteralmente il partito, quando lo portò al massimo storico nel 1983, anno in cui conseguì il 5,1% dei consensi.

    A Ugo La Malfa Spadolini era accomunato soprattutto da un enorme senso dello Stato, e alla continuità con il suo atteggiamento di profondo rispetto delle istituzioni improntò la sua azione politica. Ricordo che durante la sua Presidenza del Consiglio, quando gli chiesi di venire in Calabria per una manifestazione elettorale, mi rispose: "Io sono il Presidente degli italiani, per le manifestazioni elettorali devi chiamare il presidente del Pri".

    "Continuità" è forse una delle parole che più possono aiutare a definire la personalità di Giovanni Spadolini, una personalità mai improvvisata, bensì costruita nella costanza della sua attività universitaria, giornalistica e politica e di una tensione etica sempre accesa e coerente.

    Spadolini portò avanti il suo pensiero su vari fronti, e ci appare ora inscindibile l'intreccio delle molteplici attività che fecero di lui un "unicum" nella storia della politica italiana. Storico, giornalista, uomo di cultura, politico: Spadolini era tutto questo e molto di più. Era un maestro della comunicazione e la sua lunga esperienza di giornalista, direttore de La Nazione, Il Resto del Carlino, il Corriere della Sera e La Voce Repubblicana, integrava la sua innata inclinazione verso un approccio "critico" e allo stesso tempo fondato con estremo rigore su basi storiche.

    Oltre che giornalista, Spadolini era infatti uno storico di grande valore, e le sue considerazioni politiche muovevano da una profonda conoscenza dei meccanismi della Storia. Il suo orientamento era tutto rivolto a quella che egli chiamava "l'Italia della ragione", ovvero l'Italia delle minoranze, del dissenso, del dubbio e della protesta, contrapposta all'Italia delle compiute maggioranze, delle soluzioni facili e definitive, del compromesso e della rinuncia. La sua era l'Italia del dubbio laico, dei legittimi interrogativi, come quello ad esempio che esprimeva nel ‘78 in uno dei suoi scritti: "La sinistra marxista, o ex marxista, sarebbe giunta alle correzioni decisive di oggi senza l'elaborazione intellettuale della scuola democratica, in tutte le sue forme?"

    La forza delle idee doveva essere per Spadolini la necessaria fonte di alimentazione della politica, affinché quest'ultima non risultasse un mero esercizio del potere. La sua figura è stata spesso accostata a quella di Sandro Pertini, che lo scelse come Presidente del Consiglio nel 1981 (e a Spadolini piaceva ricordare con orgoglio di essere il primo Presidente del Consiglio laico nella storia della Repubblica italiana), in virtù di una comune visione ampia e illuminata della politica, che prevedeva un tacito progetto di apertura alle istanze profonde della società civile, alle esigenze dei cittadini che dalla politica italiana erano rappresentati. A questo proposito risultano di straordinaria attualità le sue parole al Congresso del 1981, quando riprese un estratto dal documento programmatico del Pri lanciato per le elezioni del giugno ‘79: "I grandi partiti di massa, Dc e Pci, credevano orgogliosamente di rappresentare tutto il paese perché avevano inseguito e fatto proprie tutte le più contraddittorie richieste di categorie. Ora si accorgono che hanno preso quasi tutti i voti ma non hanno costruito una maniera di governare. Hanno occupato lo Stato, ma non l'hanno diretto (…) La scelta, la decisione significa sacrificare una parte degli interessi in campo, farsi ‘nemica' questa o quella parte della propria clientela, avere un'idea dell'interesse generale".

    A Giovanni Spadolini va riconosciuto, e non certo in ultima istanza, il merito di aver fatto tornare in edicola La Voce Repubblicana, dopo qualche anno di chiusura e dopo la fase "embrionale" de L'Informatore repubblicano. Non solo Spadolini riuscì a ridare vita alla testata storica del Pri, ma trasformò la sua redazione in una sorta di "scuola" di giornalismo, in un laboratorio di idee che per molti è stato anche un trampolino di lancio. È in quel periodo che collaborano con La Voce due tra i più prestigiosi giornalisti di oggi, attualmente direttori delle due testate italiane più importanti, rispettivamente per l'opinione pubblica e per l'economia: Stefano Folli al Corriere della Sera e Guido Gentili al Sole 24 ore. E potremmo citare molti altri giornalisti - adesso pienamente affermati non solo nel mondo della carta stampata, ma anche in quello della televisione - che mossero i loro "primi passi" alla Voce, e che ricordano con orgoglio e affetto la loro "gavetta". Spadolini contribuì a rendere la Voce qualcosa di molto più complesso e articolato di un organo di partito, raggiungendo un livello di qualità giornalistica che sarà sempre un patrimonio per il nostro giornale, apportando la sua esperienza nel mondo giornalistico, ma anche perpetuando una concezione "artigianale" della gestione interna che, a suo parere, era uno dei punti di forza della Voce Repubblicana. "La nuova Voce Repubblicana dovrà essere e restare povera, come i giornali di Dario Papa, di Arcangelo Ghisleri o di Giovanni Conti", diceva nel 1981.

    La salda coerenza tra la tradizione del pensiero repubblicano e la concretezza dell'agire politico era un punto fermo di Spadolini. Ancora una volta, il suo intervento al Congresso del 1981 risulta illuminante: "Quello che il paese si aspetta da noi è una linea di conformità, anche nella guida del partito, a quello che diciamo. E se noi raccomandiamo un senso superiore di solidarietà sociale e nazionale, come abbiamo sempre raccomandato - perché siamo il partito del solidarismo - in un periodo di corporativismi e di egoismi minaccianti le stesse basi della convivenza nazionale, ma come potremmo non attuare intanto una solidarietà operante in casa repubblicana?".

    Nell'anniversario della sua triste e dolorosa scomparsa, ci piace ricordarlo come fece il suo amico Indro Montanelli "uno Spadolini istituzionale, monumentale e monumento vivente a se stesso, ma con quel piglio da ragazzo timido che lo ha sempre contraddistinto (e contribuito a rendere popolare)."

    Roma, 4 agosto 2003

    tratto dal sito web del

  3. #23
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    Predefinito TRATTO DA il corriere della sera 22 FEBBRAIO 2004

    Pertini incaricò 25 anni fa il leader repubblicano di formare un governo. E aprì la strada a Spadolini e Craxi

    La Malfa, nove giorni per un sogno laico

    Fu un tentativo durato solo nove giorni, ma segnò una svolta di rilievo. Quando Sandro Pertini convocò Ugo La Malfa al Quirinale, il 22 febbraio di 25 anni fa, la novità apparve clamorosa. Era la prima volta, dall’immediato dopoguerra in poi, che l’incarico di formare il governo veniva conferito a un politico non democristiano. L’ultimo presidente del Consiglio laico era stato nel 1945 Ferruccio Parri, all’epoca sodale di La Malfa nel Partito d’Azione. Più tardi c’erano stati gli incarichi affidati senza esito a due anziani esponenti della classe dirigente liberale, Nitti e Orlando, nel maggio 1947. Ma dal momento in cui si era consolidata la formula centrista, la guida del governo era diventata monopolio della Dc. Invece il tentativo La Malfa, benché infruttuoso, fece da battistrada al motivo dominante delle due legislature successive: l’alternanza prima laica, con Giovanni Spadolini, e poi socialista, con Bettino Craxi, a Palazzo Chigi, sia pure nell’ambito di maggioranze imperniate, come sempre, sullo Scudo crociato. Secondo lo storico Paolo Soddu, che sta ultimando per Rizzoli un’ampia biografia di La Malfa, l’incarico al leader del Pri fu un doppio spartiacque: «Da una parte segnalò la crisi della centralità democristiana, che si sarebbe poi manifestata esplicitamente a partire dal 1981, con il governo Spadolini. Dall’altra fu l’ultimo tentativo di rivitalizzare la politica di solidarietà nazionale, fiaccata dalla morte di Moro e dalla chiusura difensiva del Pci, e fece da prologo alla nuova stagione del pentapartito».
    Il costituzionalista e senatore dei Ds Andrea Manzella, autore a suo tempo di un saggio intitolato appunto Il tentativo La Malfa (il Mulino), sostiene che il presidente del Consiglio incaricato tentò una soluzione da Cln, per raccogliere il massimo sostegno possibile. «La Malfa - ricorda - propose di tenere riunioni periodiche con i segretari dei partiti di maggioranza, per vigilare sull’attuazione del programma. Riteneva che questa sorta di "consiglio di sicurezza", esterno all’esecutivo, avrebbe garantito i comunisti molto più dell’inclusione di qualche indipendente di sinistra nel governo. La sua preoccupazione assillante era stimolare l’evoluzione occidentale del Pci, perché temeva sviluppi internazionali pericolosi ai confini dell’Italia, con la crisi della distensione alle porte, dopo la morte di Tito. La persistente reticenza comunista lo indusse a rinunciare». Soddu sottolinea tuttavia che La Malfa, pur molto attento a rassicurare i partiti, intendeva dare al Paese un netto segnale di rinnovamento: «Nello svolgimento successivo della crisi, nel marzo 1979, poco prima di morire, puntò sulla costituzione di un governo forte, capace di prefigurare gli equilibri futuri. Si batté perché nella scelta dei ministri fosse privilegiato il criterio della competenza, ma il rifiuto di Bruno Visentini di andare alle Partecipazioni statali vanificò il suo sforzo. L’indicazione sarebbe stata poi ripresa da Spadolini, che rivendicò il diritto di scegliere i ministri in piena autonomia».
    Tende a distinguere tra le due esperienze Manzella, che con Spadolini fu segretario generale di Palazzo Chigi: «La Malfa si pose come un traghettatore o un capovoga, rispetto al ruolo centrale che riconosceva ai maggiori partiti. Spadolini, pur muovendosi nella trama costituita dai rapporti tra le forze politiche, diede alla sua premiership un’impronta personale, rivolgendosi all’opinione pubblica in modo diretto e fino allora inusuale».

    Antonio Carioti

  4. #24
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    Predefinito tratto da www.pri.it

    Fondazione Spadolini
    Nuova Antologia

    Giornate di studio su "Costituzione e Giurisdizione"
    Sala del Refettorio _ Palazzo del Seminario
    Via del Seminario 76, Roma

    5 luglio, ore 16,30
    Saluto di Cosimo Ceccuti

    Relazioni di Giorgio Rebuffa, Mario Patrono, Luca D'Auria

    Interventi di Guido Alpa, Corso Bovio,
    Edmondo Bruti Liberati, Oreste Dominioni, Enrico Morando, Luigi Scotti

    6 luglio, ore 9,30
    Tavola rotonda su "Legislazione ordinaria e legislazione costituzionale"

    Coordina Paolo Gambescia

    Intervengono Luigi Bobbio, Daniele Capezzone, Luigi Compagna, Antonio Del Pennino,
    Anna Finocchiaro Fidelbo, Antonio Maccanico, Gaetano Pecorella

    Sarà presente Pierferdinando Casini

  5. #25
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    Predefinito ricordo di Giovanni Spadolini, di Davide Giacalone

    Davide Giacalone ricorda Giovanni Spadolini

    Giovanni Spadolini appartiene per intero alla storia della Repubblica italiana, o, meglio, a quella parte dell storia che oggi, assai affrettatamente e malamente, s’identifica con “prima Repubblica”. Ne fu protagonista, nel modo migliore, ma, prima ancora, ne fu interprete della natura e dei limiti.
    La sua vita di storico, che cercava nel passato l’ininterrotto filo che conduce al presente, fu accompagnata da due ricerche: una rivolta al mondo cattolico ed alle sue espressioni politiche, l’altra dedicata alle forze democratiche nate nel Risorgimento ed al loro confronto con le correnti socialiste e comuniste. Da quelle ricerche prendeva linfa la passione politica e la visione contemporanea di Spadolini, consapevole che in queste si celava l’incompiutezza d’Italia.
    Il valore dell’unità politica dei cattolici non era forse uno dei risvolti dell’incompiutezza della questione romana? Ed in questa unità aveva poi un ruolo del tutto speciale la dottrina sociale della chiesa, che finiva, per il tramite della Democrazia Cristiana, con il permeare di sé lo Stato laico. Ma su quell’unità si era poi innestato il filone degasperiano, la volontà di coinvolgere le forze laiche nel governo del Paese, instaurando un equilibrio che Spadolini non avrebbe rotto per nessuna ragione e che, difatti non ruppe, ma cercò, semmai, con la formula del pentapartito, di far vivere sotto la guida prima repubblicana, poi socialista. Ed è di quegli anni il tormentato rapporto con il socialismo guidato da Craxi.
    Molti, nella casa laica, guardavano (me compreso) con interesse ai frutti tardi dell’heghelismo e del crocianesino, mediato da un Gramsci più che altro gentiliano, quindi al Partito Comunista che aveva imboccato la via della solidarietà nazionale. Contro quella linea si muovevano i socialisti, creandosi non pochi nemici (e Craxi pagò un prezzo salato, e lo pagò proprio per quel che fece in quegli anni). Spadolini, allora, predicava l’indissolubilità del fiume socialista e del fiume laico risorgimentale. Fu un sostenitore di Craxi, pur rimandone del tutto autonomo. Ed aveva ragione, aveva visto lontano, aveva capito che l’evoluzione democratica della sinistra comunista non sarebbe mai potuta avvenire passando sulle macerie del socialismo italiano. Così è stato.
    Era Presidente del Senato, negli anni in cui tutto precipitava. Pensò se stesso come una riserva per la Repubblica e, forse, questo gli impedì di compiere un gesto di rottura, di sincerità, di opportunità prendendo la parola, lui che poteva, contro l’insensata condanna morale che si voleva appioppare a quella Repubblica dei partiti che gli apparteneva, che era carne della sua carne. La storia, in quell’occasione, imboccò un percorso distorto, che ancora attende d’essere ricostruito.
    Spadolini aveva una cordiale consuetudine con Berlusconi. Aveva disapprovato la decisione, presa dall’imprenditore, di scaricare la sua forza in politica. L’aveva avvertito che sarebbe andato incontro alla distruzione, che lo avrebbero massacrato. Berlusconi seguì la sua strada e Spadolini si trovò ad essere candiato Presidente del Senato in contrapposizione a Scognamiglio, candidato di Berlusconi. Le cose andaro davvero così? No, il vincitore delle elezioni (che, però, non aveva la maggioranza al Senato), in virtù dei consolidati rapporti, gli offri d’essere il candidato del Polo. Spadolini rifiutò, credo, per due ordini di ragioni: perché solo eletto da una maggioranza diversa avrebbe avuto l’autorità morale per influire sulle scelte del nuovo governo; perché il PDS gli aveva garantito la compattezza dei consensi. Quando le urne si aprirono si scoprì la diversa realtà.
    Spadolini si alzò, ed andò a complimentarci con Carlo Scognamiglio, un uomo il cui spessore non era neanche lontanamente paragonabile al suo. Quando il successore andò a trovarlo, nella clinicha dove sarebbe spirato, Spadolini lo accomiatò salutando il “mio” Presidente. Uno stile, un senso delle istituzioni, una certa idea della nobiltà repubblicana che non si piega alle brutture, pur necessarie, delle guerre di parte.
    Morì che il suo mondo era già morto. E se oggi diciamo che ci sembra, il suo, un mondo migliore, non lo diciamo né per nostalgia né per rimpianto di una politica, che non merita d’essere rimpianta. Ma perché quel mondo era abitato da persone, come Spadolini, che oggi non riusciamo neanche ad intravvedere.

    Davide Giacalone
    www.davidegiacalone.it
    davide@davidegiacalone.it

  6. #26
    Garibaldi
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    Predefinito

    Grande Spadolone.
    Una volta qui a La Spezia gli ho visto mangiare una zuppiera di trenette al pesto.
    Era una poesia anche a tavola, non solo come la sua grande immensa cultura.

  7. #27
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    Predefinito tratto da IL TEMPO.It 20 luglio 2004

    Non è questa l’Italia sognata da Spadolini

    Lo statista scompariva 10 anni fa. «Sono un giornalista prestato alla politica»

    Come uomo di cultura considerò gli impegni istituzionali uno strumento per unire e non per dividere il Paese

    di PAOLO BAGNOLI

    SARÀ la storia a dire cosa ha rappresentato Giovanni Spadolini che si spengeva a Roma giusto dieci anni orsono. Era nato a Firenze il 21 giugno 1925. Per tutti era il "professore", ma se avesse potuto farsi chiamare giornalista questo era l'appellativo che considerava più idoneo anche se una straordinaria esperienza di vita lo aveva portato ad essere professore d'università, direttore di quotidiani prestigiosi come Il Resto del Carlino (1955-1968) ed il Corriere della Sera (1968-1972), senatore dal 1972 - a vita dal maggio 1991 - segretario di partito, più volte ministro, due volte presidente del consiglio e, dal 1987 fino all'aprile 1994, presidente del Senato.
    Sì, giornalista; così come si dicharava Cattaneo perché fare giornalismo vuol dire stare dentro le cose; giornalista, come gli amati Giuseppe Prezzolini e Piero Gobetti; giornalista come il suo vero maestro, Mario Missiroli cui l'univa pure una passione autentica per la storia. E Spadolini fu tanto giornalista che, tra il 1948 ed il 1994, firmò oltre quattromila articoli. Chi lo vorrà capire sarà lì che dovrà attingere, in quelle migliaia di pagine che stanno per essere ripubblicate a cura della Fondazione che porta il suo nome. Fu, infatti, una personalità complessa che, forse, l'Italia non ha capito nel modo giusto.
    Per un tragico segno del destino Spadolini se ne andò - stroncato in pochi mesi da un male incurabile - nel momento in cui il Paese voltava pagina e Berlusconi diveniva per la prima volta presidente del consiglio. Si malignò, allora, che la beffa che lo privò, per un solo voto - quello di Carlo Bo, uno dei suoi amici più cari, che non fece in tempo a partecipare alla votazione - della soddisfazione di essere nuovamente presidente del Senato in quella dodicesima legislatura, avesse contribuito a far esplodere il male che si portava dentro. Chissà.
    Del nuovo che emergeva, sicuramente, non gli piaceva niente perché vedeva allontanarsi quella "certa idea dell'Italia" che aveva perseguito dentro ogni piega delle molteplici attività nelle quali si era impegnato e che, con un non malcelato senso di consapevolezza e pure di vanità, riteneva di rappresentare. Ed in effetti era così perché Spadolini testimoniava un'idea dell'Italia del tutto particolare; sincretica, nella quale convivevano cose quanto mai diverse e che solo il suo sottile ragionamento riusciva a far coniugare. In lui stavano insieme Gobetti e Giolitti, Prezzolini e Burzio, Moro e Nenni, Cattaneo e Mazzini, De Gasperi e Croce, Sturzo e La Malfa.
    La realtà storica della Chiesa gli era sempre presente, talora in maniera quasi ossessiva e nessuno, crediamo, ha indagato tanto le vicende vaticane quanto lui. Eppure aveva una concezione integra della dimensione laica; però, riteneva l'Italia un Paese sempre a rischio di rottura poiché strutturalmente fragile. La pensava in maniera simile a Moro.
    Come uomo di cultura e come politico ritenne essere il suo compito quello di lavorare per impedire che si verificassero fratture irreparabili; per questo non gli piaceva il nascente bipolarismo così come avversava ogni futuro federale dello Stato. Una volta, ricordando De Gasperi, osservò come la sua grandezza di statista risiedesse proprio nell'aver concepito la politica per unire e non per dividere. Questa era, in fondo, quella sua "certa idea dell'Italia" che faceva risalire al periodo di incubazione dello spirito nazionale italiano e, in particolare, a Giovan Pietro Vieusseux che a Firenze, nel 1819, aveva aperto il ben noto Gabinetto Scientifico Letterario fondando, due anni dopo, l'Antologia di cui la Nuova Antologia, nata a Firenze nel 1866, era il proseguimento naturale. Era la sua creatura più amata; la rivista che aveva salvato e rilanciato dopo una lunga crisi, riportato a Firenze negli anni Settanta ed a cui si dedicava come un padre premuroso ad un figlio. E morì accarezzando il fascicolo della rivista appena uscito.
    Uomo d'intelligenza vivacissima continuamente alimentata da solide letture e supportata da una memoria veramente eccezionale - ricordava l'esatta collocazione di ogni libro della sua vasta biblioteca - Spadolini amava soprattutto scrivere ed il giornale era una cattedra naturale. I suoi numerosi libri sono nati sulle pagine dei giornali, a partire da Il Mondo di Pannunzio, ma fu con la direzione del Carlino che dimostrò come la storiografia potesse abitare nel giornale quotidiano. Scriveva con grande facilità. I fondi li componeva all'ultimo momento, a mano, inviando tramite fattorino le cartelle che riempiva, via via, con grafia veloce e molto grande; alla fine in una pagina c'erano solo alcune parole. Non rileggeva né correggeva: quello che scriveva lo aveva già macerato dentro di sé e gli usciva naturalmente.
    A molti non stava simpatico; appariva tronfio e presuntuoso ma nell'intimità dell'amicizia non era così. Sapeva ascoltare e quando dava una parola la manteneva. Verso i giovani era di una disponibilità totale; basti pensare che, professore di Storia moderna prima - 1950 - e contemporanea dopo - 1960 - presso il Cesare Alfieri di Firenze, non segnò mai negativamente il libretto di studente alcuno, come allora si usava fare con chi non superava un esame. Diceva che gli sembrava che lo studente non stesse bene e lo invitava a ripresentarsi.
    Va detto, anche se la cosa può sembrare retorica, che era fedele alle cose che amava così come alle persone che stimava. Uomo delle istituzioni culturali - fu, tra l'altro, presidente dell'Università Bocconi, della Giunta Centrale degli Studi Storici e dell'Istituto Italiano di Studi Storici voluto da Benedetto Croce - teneva soprattutto a due cariche, diciamo così, minori: di rappresentante della sua facoltà nel consiglio del Gabinetto Vieusseux di Firenze e di presidente della Società Toscana per la Storia del Risorgimento che ogni anno, prima di Natale, onorava con una composta cerimonia di auguri nel corso della quale regalava agli amici un suo libro con dedica.
    Attento a consegnarsi alla storia, nel 1980 aveva fondato la Fondazione Spadolini Nuova Antologia nominandola erede universale di tutti i suoi beni. Lì, nelle stanze piene di luce, libri, quadri cimeli e collezioni napoleoniche e risorgimentali, in quella che fu la sua casa, la sua presenza è ancora viva, quasi la cifra di una consegna lasciata a coloro che credono ad un'Italia civile, colta ed ancora desiderosa di avere dei maestri.

  8. #28
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    Predefinito tratto da IL CORRIERE DELLA SERA 1 agosto 2004

    Che Spadolini fosse, più che altro, un uomo di cultura non ...

    Che Spadolini fosse, più che altro, un uomo di cultura non era solo un suo vanto. Che la politica fosse in lui una dimensione non essenziale sarebbe, però, sbagliato dire, e a ragione egli se ne sarebbe risentito. Le origini sociali (borghesia colta, oltre che benestante) lo avevano forgiato nello stampo culturale che trapelava in ogni suo discorso e atteggiamento; ed egli avvertì d’istinto che una condizione nativa può farsi destino, oltre che vocazione. E un destino a cui da subito non mancò la fortuna, di cui si faceva spesso un vanto, come di una qualità che all’uomo politico desse un titolo particolare. Tuttavia, la politica fu sempre per lui un dato costitutivo di tutto il suo essere. La sua cultura era una tipica espressione di ciò che in Italia si designa col bel termine di «umanesimo civile»: una cultura assai meno filosofica e letteraria di quanto si penserebbe e molto più fatta per la città, la discussione, il foro e le assemblee della vita pubblica. Anche per ciò giornalismo e storiografia furono per lui scelte di vita e passioni profonde. Si sentiva, è vero, sempre immerso nella storia, già fra i posteri di se stesso, fra i pensieri e i giudizi del presente e quelli dello storico futuro, cui bisognava preparare i ferri del mestiere: carte (amplissimo è il suo epistolario) e dossier, di cui fu tenace raccoglitore.
    Si era ben presto riconosciuto nelle ragioni della liberaldemocrazia, che restò sempre il sigillo delle sue idee. Da storico studiò a fondo la questione cattolica nel Risorgimento e dopo. Da politico dedicò la massima attenzione ai rapporti fra laici e cattolici come fondamentali per l’Italia. La sua opzione era, comunque, quella laica. Puntava, nella scia del Mondo di Pannunzio, a quella «Italia della ragione» o «Italia civile», che appariva un sempre rincorso e mai raggiunto dover essere, ma con un’attenzione a tutto campo alla realtà e alla tradizione italiana, che fu tra le ragioni del suo sorprendente successo di giornalista e di politico.
    È sorprendente, infatti, che un uomo di cultura come lui riuscisse da giornalista ad aprire molte finestre sulla realtà del Paese, allora in drammatica e incerta trasformazione. Ancor più sorprendente è il suo immediato inserimento nel gioco di partito quando Ugo La Malfa lo portò in quello repubblicano, del quale fu più volte ministro e divenne poi il segretario. Fu allora che Spadolini diede la maggiore misura di sé. Istitutore del ministero per i Beni culturali nel 1976, autore dei «provvedimenti urgenti» per l’università nel 1980, fu chiamato alla presidenza del Consiglio dei ministri nel 1981: il primo laico dopo 36 anni di ininterrotto presidio democristiano della guida del governo. Gli pronosticarono vita breve; durò 16 mesi: molto per la prassi politica di allora. Non risolse nessun grande problema del Paese, ma ne affrontò alcuni in modo esemplare negli anni della P2 e del crac del Banco Ambrosiano, dell’inflazione a più del 20 per cento, di una crisi ormai più istituzionale che politica, di una graduale dissoluzione della maggioranza da tempo al governo, di varie incertezze sulla politica estera del dopoguerra, di tensioni sociali e ideologiche ancora forti dopo la «contestazione» e l’«autunno caldo», gli «anni di piombo» e l’assassinio di Moro.
    Sulla linea segnata da Moro e, soprattutto, da Ugo La Malfa egli cercò allora di tenere la barra del governo e della politica italiana: collaborazione piena e insieme equilibrio tra laici e cattolici, apertura ai comunisti in vista di una loro risolutiva conversione democratica, una pace sociale senza pregiudizio dell’ormai urgente riequilibrio del bilancio statale, lotta all’inflazione e «politica dei redditi». La forza delle cose fu maggiore delle sue possibilità di azione, ma pochi capirono come lui l’indispensabilità di un nuovo corso politico in Italia, in cui, nel più ampio orizzonte possibile, i momenti aggreganti tra i partiti e le forze sociali prevalessero nettamente sulle spinte contrarie. Poté, perciò, dare di sé, specie negli ultimi anni, quando fu ancora ministro della Difesa e presidente del Senato, una immagine di uomo istituzionale al di sopra della mischia, poco concreta e accettabile in anni di faticosa, sofferta, contrastata trasformazione. Ma non era così. Aveva percepito, in realtà, il problema di un nuovo centro di gravitazione della vita politica, che non comportava solo nuove soluzioni istituzionali e che ancora oggi si è lontani dal risolvere.

    Giuseppe Galasso


    I contrasti con Craxi

    Dopo aver diretto due governi, Spadolini lascia Palazzo Chigi nel novembre 1982. L’anno successivo guida il Pri al maggiore successo elettorale della sua storia e assume l’incarico di ministro della Difesa nel governo Craxi (1983-1987). Il suo rigore atlantico entra a volte in contrasto con la linea filoaraba del leader socialista.

  9. #29
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    Predefinito tratto da IL CORRIERE DELLA SERA 1 agosto 2004

    IL GIORNALISTA

    Diresse il «Corriere» nel segno di Albertini

    Spadolini amava Milano. Nato a Firenze, considerava Milano la città d’elezione, a cui doveva tutto, come uomo politico e come magistrato civile. Firenze gli dava una certa idea dell’Italia; Milano quella certa idea dell’Europa. Amava Milano capitale dell’antifascismo e della Resistenza, la città di Bauer, di Valiani, di Ugo La Malfa, di Raffaele Mattioli. Amava Milano generosa e mercantile, l’unica città italiana con una cultura e una struttura sociale adatte ad accogliere i ritmi della crescita economica su scala europea.
    Egli considerava gli anni della sua direzione al Corriere i più importanti e difficili della sua vita. I suoi rapporti con Via Solferino erano cominciati molto prima, nel 1952, quando Mario Missiroli lo volle con sé. Spadolini era considerato un giovane d’eccezione: a meno di 25 anni titolare di cattedra; collaboratore del Mondo di Pannunzio fin dal primo numero, nel febbraio del 1949. Tutte circostanze che non potevano sfuggire a Missiroli che ne divenne grande estimatore, invitandolo a scrivere fondi sul Messaggero . Arrivato a Milano, era naturale che lo invitasse a collaborare al Corriere , continuando a fargli scrivere articoli di fondo. La collaborazione di Spadolini durò solo due anni perché, nel febbraio 1955, fu nominato direttore del Resto del Carlino , dove rimase tredici anni.
    Nel febbraio del 1968, Spadolini arrivò alla direzione del Corriere . Il titolo del suo primo articolo, «Dialogo», delineava la sua linea politica. Se non proprio di conciliazione fra le due maggiori forze politiche italiane, almeno di attenzione «al di sopra della mischia», quasi da grande arbitro, come in fondo Spadolini vide sempre se stesso, anche dopo, nel corso della sua lunga carriera politica. Aveva un concetto altissimo del proprio ruolo di direttore: l’assoluta dedizione, avendo come modello Albertini e cercando di somigliargli nello stile. Un giornale teso all’innesto fra cultura e giornalismo.
    In un mondo dominato dalle immagini, Spadolini credeva che la parola scritta conservasse un suo valore solo in quanto commento e approfondimento del fatto, «qualcosa di più valido della gelida ricostruzione di cronaca, risalendo alle radici lontane». Insomma un giornale come scelta dell’uomo e non del computer. Con la fine del centrosinistra, Spadolini intuì subito le radici ideologiche della contestazione e delle stragi. Fece intervistare Marcuse da Ugo Stille e mandò Bettiza nelle capitali della rivolta studentesca; dette spazio a Nenni e a Longo.
    La contestazione europea dilagava, e anche se non c’era ancora stato il maggio francese, la protesta investì il Corriere . Era la notte del 12 aprile 1968, quando un corteo di studenti e operai, guidato da Giangiacomo Feltrinelli, raggiunse via Solferino al grido di «Ho Chi Minh» e «Potere operaio». Le porte vennero sbarrate. Per un’ora i dimostranti inferociti continuarono a lanciare slogan intimidatori e insulti, oltre che pietre contro le finestre del giornale. Era da poco passata mezzanotte. Spadolini, con una decina di redattori, stava al banco d’impaginazione, tagliando pezzi, correggendo titoli, leggendo articoli. All’improvviso un rumore fragoroso, e una pioggia di sassi investì direttore e redattori. Una pietra sfiorò Spadolini: ne fece un cimelio che conservava sulla scrivania.
    Esaurita la stagione del Corriere , fu senatore, ministro, presidente del Consiglio e presidente del Senato; ma il titolo a cui teneva era quello di direttore. Il Corriere l’aveva nel cuore. Una volta che ero al Senato, mi prese per un braccio e disse: «Vieni, voglio farti vedere una cosa di cui rimarrai meravigliato». Occupava un’intera camera: era la collezione del Corriere della Sera , dal primo numero fino al giorno in cui il giornale recò la firma di Luigi Albertini.
    La politica gli piaceva, ma non so fino a che punto. Montanelli scrisse: «Non ho mai capito se Spadolini andasse più fiero della sua carriera politica o di quella giornalistica. Furono entrambe napoleoniche».

    Gaetano Afeltra

  10. #30
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    Predefinito tratto da IL CORRIERE DELLA SERA 3 agosto 2004

    GIOVANNI SPADOLINI
    A dieci anni dalla morte, la sua lezione sull’opposizione democratica

    I laici inquieti in un Paese adolescente

    Novembre 1988. Da oltre un anno Spadolini è presidente del Senato, ma l'attività politica - anche al più alto livello istituzionale - non gli impedisce di trovare il tempo per proseguire, o arricchire, o completare i suoi studi storici. Così, dà alle stampe un volume che si intitola L'opposizione laica nell'Italia moderna , con l'aggiunta di due date, 1861-1922, e un sottotitolo chiarificatore: Radicali e repubblicani nell’adolescenza della nazione . Non è un libro «nuovo», ma un volume che raccoglie una serie di scritti giovanili, per buona parte nati nei primissimi anni Cinquanta sulle colonne del Mondo di Pannunzio (il settimanale «rabdomantico e problematico» - racconterà lo stesso Spadolini - che voleva esplorare un po' tutta «l'Italia sommersa»), con il dichiarato proposito di andare alla riscoperta delle forze di quella «opposizione democratica, laica, protestataria» che - in simbolico pendant con l'opposizione cattolica dell'altra sponda - non aveva riconosciuto la legittimità dello Stato unitario nella forma monarchico-moderata. Dunque, l'immagine della «opposizione laica» sintetizza, e insieme caratterizza bene, una parte rilevante dell'attività di Spadolini storico, che nell'arco di quasi mezzo secolo (il suo primo articolo, dedicato a Gobetti, esce sul Messaggero nel gennaio del 1948, quando non ha ancora ventitré anni...) avrebbe insistito a indagare la complessità, e spesso la «contraddittorietà», delle nostre vicende, ricostruendo i protagonisti di maggior spicco ( in primis un leader come Giolitti) e riproponendo figure e volti, anche minori e poco conosciuti, eppure indispensabili per comporre quella singolare galleria, da lui dedicata a Gli uomini che fecero l'Italia (1989).
    Dal grande Marc Bloch aveva appreso che - a differenza di quanto sosteneva la storiografia gramsciano-marxista, allora di moda - la storia è soprattutto «la storia degli uomini», con le loro passioni e intransigenze, coi loro grandiosi progetti e le rivalità spesso meschine, con le alleanze tattiche e le spaccature traumatiche. Ecco perché, se Garibaldi e Mazzini erano stati subito i protagonisti, su cui Spadolini ci ha invitato a riflettere per capire «l'adolescenza della nazione», tutta la suggestiva serie di ritratti e di profili di personaggi dell'Ottocento e del Novecento ha arricchito - anche con straordinaria vivacità di racconto - il suo modo di «rivisitare» la storia di ieri, per meglio intendere le vicende, e insieme le difficoltà e i tormenti, dell'Italia contemporanea (e spesso le anticipazioni le pubblicava sulla Nuova Antologia , la rivista a lui più cara, dove dai primi anni Settanta chiamerà a collaborare tanti amici, da Bobbio a Carlo Bo, da Jemolo a Valiani, da Galante Garrone a Magris).
    Basta aprire l'originale trilogia, che comprende L'Italia della ragione (1978), L'Italia dei laici ('80) e L'Italia di minoranza ('83), e metterla accanto alle pagine di altri libri, sempre attenti a verificare gli intrecci fra lotta politica e cultura, come Autunno del Risorgimento ('71) o Il mondo di Giolitti ('69) fino a Gobetti ('93), per verificare - come forse pochi sanno - che dal padre, il pittore Guido Spadolini, esponente della scuola fiorentina dei post-macchiaioli, ha ereditato quell'abilità nel ritrarre, senza inutili pose statuarie, i molteplici artefici della nostra tormentata storia nazionale, dai «padri della patria», tipo Cavour o re Vittorio Emanuele, ai «fedeli dell'unità», come Crispi o Cavallotti, agli esponenti della Belle Epoque , come D'Annunzio o Albertini, fino ai laici intransigenti, Salvemini o La Malfa, per intenderci.
    Aveva imparato da Croce che lo storico non dev'essere mai un giustiziere, ma deve sforzarsi di intendere e giustificare perché - nel caso dell'Italia, per esempio - miti e contraddizioni hanno accompagnato un processo plurisecolare, durante il quale lo Stato risorgimentale, assediato insieme dai clericali e dai laici irriducibili, ha saputo resistere e - nonostante errori e battute d'arresto - contribuire a quello che nel Novecento diventerà lo Stato liberal-democratico, e poi democratico-repubblicano. Anche in una simile prospettiva, consapevole non meno di Gobetti («il mio Gobetti», come amava chiamarlo!) che la storia è sempre più complessa dei programmi, credo si spieghi come mai l'impegno «pubblico», istituzionale e di governo, di Spadolini ha accompagnato la sua attività di studioso, convinto che la politica «è anche - sono sue parole del 1983 - l'esercizio di una missione, il compimento di un dovere civile».

    Il discorso di commemorazione per il decimo anniversario della morte di Giovanni Spadolini sarà tenuto domani a Firenze dal presidente della Camera Pierferdinando Casini alle ore 11, presso la sede del Consiglio regionale toscano, in via Cavour 2

 

 
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