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  1. #161
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    [Scritti giovanili] - Mazzini oggi (1948)


    “Il Messaggero”, 5 agosto 1948



    Esiste il “mito di Mazzini”. È il tipico mito italiano, eclettico e confusionario: riassume tutto, concilia tutto, giustifica tutto. In questo senso, Mazzini si è prestato, si presta e si presterà sempre a esser sfruttato da tutti i regimi: liberali, democratici, trasformisti, fascisti, socialisti, comunisti. Ma pochi conoscono la “realtà”, del pensiero e dell’azione mazziniana, ciò che è morto, oggi, e che è vivo di lui.
    Cosa c’era di caduco nel mazzinianesimo? Quel riflettere gli atteggiamenti più estremi della “Weltanschaung”, massonica, di quella visione della vita che s’era formata nel Settecento e che era tutta intrisa e compenetrata di umanitarismo, di egualitarismo, dei principi della pace, della giustizia, della fratellanza, dell’armonia e del progresso universale.
    E cosa c’era di genuino nel Mazzini? Quel dipingere il popolo come “profeta della rivoluzione”, quell’affermare il nesso fra Dio e popolo, quell’insistere su un’impossibile “iniziativa popolare”, quell’illusione, quella fissazione, quella passione “popolaresca”, che mai egli perse nonostante le delusioni del ’48 e le smentite del ’59.
    E cosa c’era di retorico? Quell’inseguire il mito della “Terza Roma”, e anzi assegnare alla terza Roma, quale “mente della terra”, “verbo di Dio fra le razze”, centro della religione dell’umanità, il compito di unificare tutte le genti disperse d’Europa e d’America sotto un sol senso comune (quale poi fosse precisamente, nessuno sapeva).
    E quanto di derivato dalle dottrine straniere o antiche? A chi guardi il volto complesso e composito del mazzinianesimo, non sfuggiranno i sedimenti del gioachimismo, i ricordi e le eresie medievali, i residui della Riforma, le tracce del giansenismo, le influenze di Saint-Simon, le ripercussioni di Lamennais, i riflessi del Quinet o del Vinet, le risonanze del socialismo utopistico: del suo pensiero, ben poco resterà di originale.
    Quel è dunque, la ragione dell’attuale e forse immortale vitalità del pensiero di Mazzini? Mazzini è in primo luogo l’unico grande riformatore religioso che l’Italia abbia avuto dopo Savonarola. In quel moto, a carattere essenzialmente politico-diplomatico che fu il Risorgimento, egli portò un lievito, un fermento, un tormento religioso, che danno alla rinascita italiana un significato che non ebbe nessun altro movimento nazionale europeo.
    In un paese, che non aveva più sentito una profonda istanza di religiosità civile, laica, umanistica dalla Controriforma in là, il pensiero mazziniano rappresentava, con l’affermazione dell’unità fra politica e morale, del nesso fra Stato e Chiesa, del vincolo fra democrazia e religione, l’affermazione solenne della necessità di un rinnovamento delle coscienze, di un’interiore “metanoia” prima ancora d’una riforma delle strutture sociali e politiche.
    In secondo luogo, Mazzini è il creatore del “mito” operante dell’unità. L’unità, in Italia, non era una realtà geografica, non era un’eredità storica, non era una vocazione nazionale. L’Italia era il paese delle città e dei Comuni; l’Italia era il popolo delle infinite rivoluzioni federali, e nel ’48 ne aveva vissuto l’ultima e più grandiosa; l’Italia era la terra che aveva sempre ondeggiato fra una realtà municipale e una destinazione universale, fra un presente di provincia e una metà di impero; l’Italia era infine la sede del Papato, cioè dell’organismo più universale della storia, e non solo la sede, quanto il cuore, il centro, il fulcro stesso del Pontificato romano. Mazzini riuscì a dare a questo popolo l’illusione dell’unità; riuscì a infondere nelle sue classi dirigenti il sogno, la speranza, il desiderio dell’unità.
    Il “mito” unitario non era per Mazzini limitato al fatto nazionale. Egli voleva l’unità fra gli italiani, in quanto, fosse a sua volta principio e premessa dell’unità fra popolo e stato, fra stato e chiesa, fra cielo e terra. Unità nazionale d’Italia; unità internazionale d’Europa; unità universale del mondo; unico dogma quello del progresso; unica religione quella dello spirito; unica educazione quella del vero; unico Stato quello ispirato alla democrazia e alla giustizia.
    L’ “unità”: ecco la grande forza di Mazzini. In un paese tendente alla molteplicità, alla diversità, alla discordia, Mazzini gettava questo seme di unità, e lo consacrava col sangue dei martiri. Se oggi si celebra il ’48 come rivoluzione nazionale, lo si deve a lui, non certo ai Principi e ai Granduchi in onore dei quali si organizzavano le varie e inutili mostre commemorative.
    Essendo unitario, Mazzini non poteva essere, non fu mai liberale. È l’ultimo equivoco che bisogna dissipare. La visione del liberalismo moderno era per Mazzini il prodotto complessivo dell’individualismo, dell’utilitarismo e del materialismo: tutto ciò a cui bisognava opporsi nella fondazione della nuova società. Se il liberalismo rappresentava la concezione dei diritti individuali rispetto ai poteri dello Stato, Mazzini vagheggiava una concezione in cui fossero ben stabiliti i doveri “individuali” rispetto ai diritti dello Stato. Se il liberalismo era laicismo, religione della laicità, Mazzini sognava uno “Stato teocratico”, dove “fossero sacerdoti tutti con uffizi diversi”. Se il liberalismo era immanentismo, Mazzini sognava una trascendenza, sia pur diversa da quella cattolica. Se il liberalismo era umanesimo, Mazzini auspicava una rivelazione divina, che si attuasse attraverso i geni “angeli di Dio sulla terra” e il popoli “profeti di Dio in terra”.
    Se il liberalismo, insomma, era dialettica, dialettica di forze e di idee, di istituti e di uomini, libertà di iniziative e senso di autonomia, capacità dell’autogoverno e vigore di individuale creazione, Mazzini era, invece, per la riduzione a unità delle forze e delle idee, degli istituti e degli uomini, per il controllo delle iniziative e la subordinazione dell’autonomia personale alla nazione e allo stato, per l’educazione impartita dall’alto e secondo uno schema unitario, infine per l’opera sociale, lo sforzo collettivo, l’azione dei molti, l’associazione.
    Mazzini non fu mai un liberale, perché in fondo non fu mai un “politico”. Egli fu un anticipatore, un apostolo, un profeta: e io non conosco nella storia un apostolo e un profeta che sia mai stato liberale.


    Giovanni Spadolini


    https://www.facebook.com/notes/giova...23728564385415
    Ultima modifica di Frescobaldi; 22-04-16 alle 23:27
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    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

  2. #162
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Le inquietudini dei partiti minori (1951)

    “Epoca”, 24 novembre 1951



    La proposta dell’on. La Malfa per una “Costituente programmatica dei partiti laici” è tramontata sul piano della battaglia politica, ma sopravvive su quello dell’opinione a dimostrare l’inquietudine e il turbamento dei partiti minori. Fuori e dentro il governo. La situazione italiana è tale, che sembra egualmente difficile adattarsi ai recinti del ministero e attestarsi sugli spalti dell’opposizione. Entrambi quegli atteggiamenti rappresentano fonti perenni di equivoci, di malintesi, di lacerazioni, di contrasti. Le ragioni non sono difficili a spiegarsi: la partecipazione governativa, senza un corredo adeguato di forze, senza un consenso profondo del paese, senza un appoggio e un aiuto delle forze contermini, rischia di diventare puramente nominale ed estrinseca, o al massimo finisce per identificarsi con alcune personalità di più netto rilievo, di più accentuato significato politico. Il discorso vale per i repubblicani, ma non troppo diverso dovrebbe essere per i socialisti democratici e i liberali, per i gruppi che hanno preferito l’opposizione costituzionale e si sforzano ancora di trovare una formula unitaria e coerente che li definisca e li rappresenti davanti all’opinione pubblica.
    La realtà è che l’opposizione costituzionale non è l’attitudine più comoda e più facile in una “crisi di regime” qual è quella che l’Italia attraversa, in una situazione caratterizzata da una discussione e da un’invalidazione degli stessi fondamenti di legittimità dello Stato italiano – il che obbliga i gruppi democratici a far fronte unico in tutte le occasioni, e sono le più numerose -, in cui l’azione stessa del governo valga a frenare i due opposti blocchi di destra e di sinistra e a difendere i cardini dello stesso ordinamento politico-sociale. Come porre il problema di un’azione politica rigorosa e conseguente quando si tratta di condividere le direttive fondamentali del governo per non scoprire e indebolire le ragioni profonde del regime?
    I repubblicani di cinquant’anni fa combattevano la Triplice Alleanza, la politica protezionistica, il colonialismo – tutte le manifestazioni fondamentali dell’orientamento di governo – e come tali riuscivano a trovare agevolmente un termine di separazione, di “scissione” per dirla bergsonianamente. I socialisti lottavano per una diversa organizzazione sociale, per una trasformazione delle strutture produttive, per l’immissione di nuovi ceti politici dirigenti nella vita del paese, e in una tale prospettiva la loro azione mirava a rinnovare le basi stesse dello Stato liberale e unitario ereditato dal Risorgimento. I radicali si definivano e caratterizzavano per la loro resistenza ostinata alle spese militari, alle avventure africane, alle involuzioni reazionarie, per quello slancio e desiderio e anelito di allargare il fronte della borghesia, di ammodernare la struttura dello Stato, di aggiornare lo spirito dello Statuto che improntava tutta la loro azione, che intonava tutti i loro sforzi. Rispetto alla maggioranza giolittiana (a quella che equivarrebbe alla democrazia cristiana di oggi), repubblicani, socialisti, radicali avevano termini diversi, ma egualmente efficaci e positivi di distinzione, di autonomia, quando necessario di lotta.


    Segnati con rigore i limiti della politica interna

    Ma oggi? La politica atlantica (quella che sarebbe stata allora la Triplice Alleanza) è condivisa incondizionatamente da tutt’e tre le formazioni minori, liberali, socialdemocratici, repubblicani, e certi gruppi la propugnano con una passione e un fervore sconosciuti allo stesso partito dominante, talvolta con accentuazioni psicologiche che non sono destinate a suscitare popolarità e favore. Partendo da questa pregiudiziale fondamentale, da questo legame insuperabile con la situazione internazionale, i limiti stessi della politica interna e sociale sono segnati con un rigore che nessuno potrebbe pensare di attenuare o correggere; e ne deriva che quasi sempre, sul piano delle leggi fondamentali, l’accordo di sostanza è superiore alla stessa volontà dei “distinguo” e alle stesse casistiche dei singoli capifrazione o dei singoli parlamentari. L’attuazione della Costituzione – nei limiti segnati dal buon senso e dalla ragione – è un impegno vincolante per tutti i partiti democratici che parteciparono egualmente alla sua formulazione e traggono di lì la loro forza, la loro legittimità e la loro ragion d’essere; la resistenza contro le estreme fasciste e comuniste è un altro cemento unitario che accomuna liberali e socialisti, democristiani e repubblicani, tutti consapevoli che un cedimento su quel terreno porterebbe a uno spostamento radicale della vita italiana, e magari aprirebbe, a destra, la porta delle scissioni liberali e delle involuzioni clericali e, a sinistra, quella delle attrazioni fusioniste e delle suggestioni comuniste.
    Lo stesso programma sociale del 18 aprile non è esclusivo di un partito, non è particolare della democrazia cristiana, e in verità non sarebbe facile ritrovarvi i segni di un’intransigenza social-cattolica (forse Toniolo, se fosse vivo, continuerebbe a insegnare all’università di Pisa); nelle sue linee fondamentali – riforma agraria, tributaria, fiscale – rappresenta ancora l’eco delle esperienze e dei tentativi del periodo successivo alla guerra, il compendio di quelle inquietudini e di quelle aspirazioni che allora fermentarono largamente nella società italiana. Non a caso, quando si è realizzato qualcosa di serio (vedi l’Ente Sila), antichi azionisti si sono trovati a fianco dei democratici cristiani, e le pregiudiziali laiche e confessionali non sono bastate a dividerli.
    Né dimentichiamo che la lunga collaborazione al governo dei liberali e socialisti fino a ieri, dei repubblicani a tutt’oggi ha creato vincoli personali, legami di lavoro, convergenze d’opinione, solidarietà psicologiche o di interessi che non sono facili a spezzarsi e che in ogni caso l’opinione pubblica non dimenticherebbe facilmente. Come qualificarsi, come caratterizzarsi nell’imminenza della nuova campagna per le elezioni politiche? Non pare neppure che il terreno del “laicismo” sia il più favorevole a creare un effettivo punto d’intesa: a giudicare dalle reazioni diffidenti o perplesse che la proposta dell’on. La Malfa ha suscitato negli interessati e dalle stesse precisazioni che i dirigenti repubblicani si sono affrettati a formulare, e cioè che la parola “laicismo” era usata solo per distinguere un certo tipo di schieramento politico, e non per contrapporsi alla DC e tanto meno per risollevare questioni di legislazione ecclesiastica o di politica generale. Né i socialisti potrebbero mai rinunciare alle loro connotazioni programmatiche in nome di un laicismo che è sostanzialmente estraneo alla loro tradizione, alieno dallo spirito delle masse e collegato inscindibilmente all’esperienza e alla concezione liberale.


    Disagio della base repubblicana

    Lo stato d’animo del paese è tale che esige, da parte di tutti, chiarezza, lealtà, divisione di compiti e di scopi. All’opposizione o no, il logoramento dei piccoli partiti non è stato minore di quello dei grandi e per i dirigenti responsabili si tratta oggi di risalire la china, di rimontare le corrente, di ricreare una condizione di spiriti e di animi tale da difendere i suffragi del passato e possibilmente da allargarli ed estenderli. Forse la strada migliore è quella di un’assunzione netta ed esclusiva di responsabilità: nel quadro di una complessiva difesa democratica, ma non di un “bloccardismo” superficiale, e infecondo.
    L’unificazione liberale rappresenta un importante contributo alla chiarificazione dello schieramento politico del paese: e i suoi risultati saranno tanto più significativi quanto più si riuscirà a definire il termine “liberale”, ad affrancarlo dalle pericolose commistioni e adulterazioni, a farne un centro d’attrazione di ideali dispersi e di aspirazioni deluse, a imperniarvi un programma di liberalismo effettivo, coraggioso e militante, nella lotta contro il cesarismo burocratico, contro il dispotismo partitocratico, contro l’inefficienza o l’assenza dello Stato. La stessa unificazione socialista (sei mozioni per il congresso sono troppe e l’on. Calosso l’ha capito al volo) potrà dare i suoi frutti concreti solo quando passerà dal piano delle impostazioni programmatiche a quello di un’azione sciolta, vigorosa e consapevole, solo quando acquisterà quel mordente e quell’energia che il paese esige.
    Quanto alla proposta del ministro La Malfa, essa tradisce evidentemente il disagio e la scontentezza della base repubblicana, che non si sente di condividere più le responsabilità di governo, che invoca una maggiore libertà d’azione, che punta a un’intesa coi socialisti, che alla periferia l’ha già realizzata almeno negli spiriti e nelle coscienze. Poiché hanno capito che il fondo del progetto di La Malfa non toccava a un “embrassons nous” dei liberali di Giovannini e dei socialisti di Preti, ma riguardava piuttosto l’invito ai socialisti di formulare insieme per le prossime elezioni politiche un programma di netto carattere laburista, un piano che fosse capace di riempire il “vuoto” a sinistra.
    Quali che siano gli sviluppi del futuro, i compiti imminenti sono netti: difendere i margini del centro democratico e costituzionale nelle varie posizioni che la geografia politica assegna ai raggruppamenti: i liberali coi liberali, i socialisti coi socialisti e magari con gli alleati della sinistra radicale. La chiarezza è indispensabile allo stile dei partiti come a quello degli uomini.

    Giovanni Spadolini


    https://www.facebook.com/notes/giova...33123273445944
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  3. #163
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Moro, un silenzio che si fa sentire


    Aldo Moro e Giovanni Spadolini


    “La Stampa”, 9 maggio 1979


    Il 9 maggio 1978, un anno fa, non fu ritrovato solo il cadavere di Aldo Moro, vittima della ferocia sanguinaria e premeditata – minuto per minuto, a partire dal 16 marzo, e senza mai una prospettiva diversa di sbocco – delle Brigate rosse. Quel giorno entrò in crisi la politica dell’emergenza, che Moro aveva testimoniato con la vita.

    La commozione del paese fu grande; l’omaggio delle forze politiche unanime, al di là delle differenziazioni pur sensibili che avevano diviso il partito dello Stato dal partito della trattativa impossibile. Il sabato 13 maggio Paolo VI, presago della fine imminente, officiò il rito funebre nella basilica di San Giovanni in Laterano, rito che vide riunite, intorno al tumulo del presidente democristiano trucidato (senza la salma), tutte le forze costituzionali della repubblica. Quasi a rinnovare il patto che aveva legato la grande maggioranza di esse alla formula del governo di salute pubblica, sia pure momentaneamente espressa negli abiti stretti di un monocolore democristiano, il monocolore Andreotti di necessità.

    Ma si trattò di un’illusione fugace. Bastò la consultazione elettorale amministrativa della domenica immediatamente successiva, il 14 maggio, quasi dominata dai rintocchi delle campane funebri di Roma, perché le ragioni di concordia si attenuassero, perché prevalessero, prepotenti e irresistibili, tutti i motivi di divaricazione, di differenziazione, alla fine di contrapposizione. Qualche migliaio di voti guadagnati da un partito, qualche migliaio perduti da un altro aprirono un processo di accertamento delle responsabilità, che si riflesse in una diversa condotta delle forze politiche che all’accordo di marzo avevano aderito, che compromise gli obiettivi stessi del “nuovo corso”.

    Moro aveva lavorato per un governo di emergenza negli ultimi difficili mesi della sua vita con ostinazione pari alla coscienza della funzione cui doveva assolvere quella fase provvisoria ed eccezionale della vita italiana. Il presidente del Consiglio nazionale della dc non era affatto un fautore del compromesso storico, come lo dipingevano gli ambienti conservatori, con un’antipatia che aveva radici lontane, che ai loro tempi avevano riscosso statisti per certi aspetti somiglianti a lui, come Giolitti e De Gasperi.

    Moro non era neanche un sostenitore della democrazia consociativa; obbediva a un’ispirazione culturale così complessa e articolata da escludere l’adesione a formule totalizzanti o semplificatrici, come il duopolio dc-pci. Aveva un altissimo concetto del suo partito, un “orgoglio” di partito che non trova confronto in nessuno dei suoi successori o continuatori (tranne, ma con accenti ed educazione diversi, Fanfani).

    Aveva rivendicato, intera, l’eredità della dc quando il processo allo scudo crociato, nei giornali, negli schermi cinematografici, nei salotti, aveva rotto tutti gli argini. Puntava a un’associazione di forze, analoga a quella del periodo della Costituente, ma con ruoli diversi e distinti; in vista di superare la crisi di fondo che investiva il meccanismo economico e sociale di sviluppo con l’adesione di quella larga quota di forze sociali che la dc non controllava e che dipendevano in larghissima misura dal partito comunista. Sotto questo profilo il suo pensiero di fondo si avvicinava a quello di La Malfa, si incontrava con l’intuizione dominante nel leader repubblicano, non meno ingiustamente attaccato dagli stessi ambienti, e per le stesse ragioni.

    È perfettamente inutile domandarsi quale periodo di tempo Moro avesse segnato alla fase dell’emergenza. Più breve che lungo, certo: per il fatto stesso che, fra tutte le espressioni possibili, egli aveva scelto il termine “emergenza”, che si identifica sempre con qualcosa di transitorio e di straordinario. Ed egli era un così consumato conoscitore della lingua italiana, e delle sue sfumature e sottigliezze, da non poter sbagliare nella scelta dei termini giusti (per mesi aveva evitato – mi disse una volta – di sciupare quel termine).

    Ma nell’ambito di quel periodo, e nella coscienza di quei limiti, Moro perseguiva un piano che avrebbe condotto innanzi con la stessa tenacia e quasi caparbietà impiegate nella fase iniziale e costituente del centro-sinistra. La gravità della crisi economica, già avanzante ai tempi del bicolore con La Malfa, lo atterriva. Non gli sfuggiva la dimensione nuova della sfida del terrorismo (aveva attribuito all’assassinio di Carlo Casalegno un’importanza che a molti altri era sfuggita, quasi come salto decisivo nella tecnica della intimidazione e della minaccia del partito armato). Seguiva con crescente preoccupazione l’allargarsi della disoccupazione intellettuale e giovanile: professore universitario come si considerava nel fondo dell’animo, prima ancora che politico.

    Riteneva che uno sforzo di salvezza nazionale dovesse essere compiuto da tutti i partiti disponibili, senza esclusioni e senza pregiudiziali, e di quella fase difficile e accidentata pensava di poter diventare garante e moderatore, dalla sedia di capo dello Stato, alla scadenza del dicembre 1978 (che per parte sua non avrebbe fatto nulla per accelerare). Per quanto non parlasse mai del Quirinale, si capiva che non era disponibile né a prolungare troppo il mandato di presidente della dc, che aveva accettato con limitato entusiasmo, né a cimentarsi nella guida di un nuovo governo.

    L’assenza di Moro si fece sentire immediatamente dopo quel terribile 9 maggio, quando il suo cadavere fu ritrovato a metà strada fra le Botteghe Oscure e piazza del Gesù, con una scelta dei luoghi e dei tempi rivelatrice del piano lucido dei suoi assassini (quella che La Malfa amava definire l’ “intelligenza” politica delle Brigate rosse). Finché fu vivo, nel fondo oscuro della prigione del popolo da cui partivano segnali enigmatici e contraddittori, e comunque tutti condizionati dai carcerieri, il rispetto per il prigioniero si unì alla speranza, o al timore, di un suo ritorno sulla scena. Fu un deterrente indiretto. La tragedia del 9 maggio chiuse anche quel capitolo.

    La parabola dell’emergenza si snodò in modi e in forme del tutto diversi da quelli che la stessa vicenda avrebbe seguito, vivo Moro. Poche volte, come nel caso di Moro, una politica si è altrettanto identificata con una persona. Era una scelta fatta di silenzi più che di parole, di prudenze più che di provocazioni, di calcoli a lungo termine più che di strumentalizzazioni elettoralistiche sul tamburo.

    All’indomani del 14 maggio si cominciò a urlare e si è tanto urlato che si è arrivati all’epilogo di una campagna elettorale senza punti di riferimento e senza convinzioni, in cui è possibile tutto e il contrario di tutto. Forse questa constatazione malinconica costituisce il migliore omaggio, un anno dopo, alla memoria dello statista scomparso.

    Giovanni Spadolini

    https://www.facebook.com/notes/giova...33763116715293
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Ho sempre ritenuto che la questione morale fosse – come dice Bobbio – una grande questione politica. La maggiore delle questioni politiche alle quali è necessario dare risposta se si vuole salvare una democrazia che si articoli nella vita dei partiti.
    Ciò significa ritornare alla spirito della Costituzione, laddove prescrive che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
    I partiti non hanno il compito di gestione dell’economia e della vita dello Stato. Non hanno il compito di fare appalti con le imprese. Non hanno il compito di controllare reti televisive o, addirittura, giornali. I partiti hanno il compito di approfondire i problemi del paese e di preparare la politica nazionale. Cominciamo a riflettere se non sia il caso di elaborare una legge di pochi articoli, di poche righe, che investa le nomine pubbliche. La mia tesi è che queste debbano essere sottratte al gioco dei partiti. Le nomine che riguardano tutti gli enti pubblici, economici e non economici, debbono essere affidate a criteri di metodo in cui non giochi la spartizione partitocratica.
    In secondo luogo è indispensabile una revisione radicale della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. E su questo il Parlamento ha già dato avvio ad alcuni meccanismi con la nomina, da parte dei presidenti delle Camere, dei revisori dei conti.
    In terzo luogo si impone un certo tipo di divisione fra funzione di governo e funzione di proselitismo politico, anche al fine di respingere l’assalto dei partiti nella vita dell’esecutivo.
    Quarto, occorre rivedere la vita all'interno dei partiti, riaprendo la selezione che non c’è più e riaprendo le sezioni ai giovani che non ci sono più.


    Giovanni Spadolini – Intervista al Direttore del “Popolo”, Pio Cerocchi. Gennaio 1993.
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  5. #165
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Le minacce contro l’Italia sono grandi. L’offensiva mafiosa non è stroncata. Le collusioni fra affarismo e politica non sono state tutte né individuate né neutralizzate. C’è una crisi economica e finanziaria che deve essere ancora “vinta”. C’è un ancoraggio con l’Europa che è sempre più debole, sempre più incerto e vacillante. Vi sono tendenze, pericolose e capillari, a ridiscutere i princìpi-base dell’unità nazionale.
    E c’è, soprattutto, una crisi morale, una crisi che investe le giovani generazioni. Aggravata dalle prospettive della disoccupazione.
    […] Il rinnovamento istituzionale presuppone una riforma elettorale. E si conclude con la riforma dei partiti. Basti pensare ad alcuni punti-chiave: la revisione, radicale, del sistema di finanziamento pubblico dei partiti (che è strafallito); la nuova legge per le immunità parlamentari (con la caduta di superstiti privilegi intollerabili per la coscienza popolare); un confine preciso fra interessi pubblici e interessi privati su tutto il promontorio del parastato, e dell’economia di Stato, che hanno generato tante deviazioni e tanti abusi. Certo che bisognerebbe stringere. Ma nel rispetto delle garanzie istituzionali per tutti.

    Giovanni Spadolini – Intervista al “Corriere della Sera”, 28 dicembre 1993.
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  6. #166
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    La passione civile di Luigi Salvatorelli


    Luigi Salvatorelli (Marsciano, Perugia, 1886 - Roma, 1974)



    “La Voce Repubblicana”, 2-3 novembre 1984


    15 luglio 1945. Su “La nuova Europa”, il settimanale che ha fondato nel dicembre dell’anno precedente, in Roma da poco liberata, con l’Italia ancora divisa in due, Luigi Salvatorelli pubblica un fondo dal titolo singolare e suggestivo, Il partito della democrazia.
    Da buon direttore di periodico non rinuncia quasi mai al fondo, orientatore, stimolatore, vorrei dire, per quello stile scarno ed essenziale che lo caratterizzava, “inquadratore” dei problemi. Cederà solo, in un anno e mezzo, quel diritto, e per qualche volta, a Guido De Ruggiero, suo “redattore” (fin dal primo numero, appena chiusa la parentesi di ministro della Pubblica Istruzione), a Mario Vinciguerra, suo “redattore-capo”, una volta anche a Carlo Sforza e a Piero Calamandrei.
    Siamo agli inizi del governo Parri; Salvatorelli ha contribuito a fondare il Partito d’Azione fin dal 1942, ha pesato nella scelta risorgimentale di quel nome, che è un po’ suo. Non c’è azionista di rilievo che non abbia letto il Pensiero e azione del Risorgimento, quello straordinario spaccato della storia italiana che ha coinciso con la fine del fascismo. Politicamente è vicino a La Malfa e a Tino, al gruppo che – nell’ambito ricco e composito del Partito d’Azione – proviene dall’esperienza dell’Unione Democratica Nazionale di Giovanni Amendola, l’Unione che lo aveva visto relatore nel primo e unico convegno del 1925, relatore sulla politica ecclesiastica, anticipatore lucido degli epiloghi concordatari.
    Il governo Parri è il primo e solo governo che abbia alla testa un credente nel laico “partito della democrazia”, non marxista, non classista, esponente della borghesia illuminata e illuminista che ha resistito al fascismo, che l’ha combattuto a viso aperto, che ha ispirato e guidato la lotta di liberazione.
    Sembrerebbe, il titolo di quell’articolo, paradossale o inattuale. Eppure Salvatorelli guarda lontano; egli sente quanto sia debole e squilibrato il quadro politico complessivo. Avverte e denuncia i limiti del confessionalismo democristiano; sottolinea le contraddizioni e i confini insuperabili delle due forze che in modo diverso si richiamano al marxismo. Sente la vocazione liberale-conservatrice, piuttosto che liberale, del partito che pure si onora del nome di Croce. Auspica una forza nuova che si fondi sull’idea di democrazia pura, “democrazia interclassista o superclassista, ed extraconfessionale”. Rivela che almeno tre partiti si muovono in quella direttrice: il Partito d’Azione, il Partito Repubblicano, il Partito Democratico del Lavoro.
    Il terzo, residuo del vecchio e stanco radicalismo, non era amato da Salvatorelli, e la collezione della “Nuova Europa” ne è la prova. Il primo – incalza l’articolista, con giudizio storico, e non di militante – è il più vicino a quella idea, o il meno lontano; ma l’autore ne scorgeva l’interno travaglio, viveva intera la dicotomia fra l’anima socialista e l’anima democratico-riformatrice, che poi porterà alla spaccatura del 1946. Il secondo sarà, dopo la scissione azionista, il partito di Salvatorelli, quello cui si avvicinerà l’uomo che aveva rilanciato Cattaneo, nel silenzio degli anni fascisti, fin dal 1935, nelle pagine sul Pensiero politico, e riscattato Mazzini da tutti i tentativi di deformazione o usurpazione della storiografia nazionalista.
    A chi deve rivolgersi il nuovo partito? “Partito di individui, e non di mezzi”. E di individui ben compositi e articolati. “Possono essere, anzi sono, liberali, ma non accettano la concezione speciale del liberalismo del Partito Liberale; possono essere credenti, anche cattolici ortodossi, ma non accettano il confessionalismo democristiano; possono essere, anzi sono, profondamente persuasi della necessità di una larga, innovatrice politica sociale (socialisti, nel senso ampio, tendenziale della parola), ma non socialisti del classismo marxistico rappresentato dai due partiti proletari. Individui in questa posizione e disposizione politica se ne trovano dappertutto, e anzi entro gli stessi ranghi dei quattro partiti, in cui l’uno o l’altro di loro è entrato, in mancanza di meglio, e si trova a disagio. Come ceti sociali, dobbiamo pensare alla piccola e media borghesia e (almeno virtualmente) ai gruppi più qualificati del proletariato, con netta prevalenza tuttavia delle due prime categorie sociali”.
    Linguaggio diverso da quello di tutto un certo mondo politico, compreso fra il Partito d’Azione e i versanti del radicalismo laico. Linguaggio già solcato da una vena di comprensione, di penetrazione laica, di superiore pietas verso il passato e quindi di più avvertita intelligenza del futuro. Uomo di fermissimi convincimenti, Salvatorelli, ma non di odi o di vendette. Compagno di cordata di Buonaiuti, anche nell’avversa fortuna accademica, ma capace di capire cosa voleva dire il movimento democratico dei cattolici politici, una volta finita la dittatura fascista e una volta dissolti gli equivoci che l’innesto strumentale fra Trono e Altare aveva generato (con la connessa retorica della Croce dell’Aquila).
    C’è un articolo di Luigi Salvatorelli sulla “Nuova Europa”, dell’agosto 1945, che è illuminante e rivelatore al riguardo. Quando molti laici scambiano speranze e realtà, questo razionalista intrepido prevede la maggioranza relativa alla democrazia cristiana, nella non lontana consultazione elettorale, e osserva che con fatica socialisti e comunisti – sicurissimi di stravincere in quelle settimane con l’aiuto del vento del Nord – avrebbero superato insieme il rinnovato scudo crociato, con lo stemma “Libertas” riaffiorante dal fondo dell’Italia comunale e popolare…
    Salvatorelli ebbe nettissima la sensazione che la DC non era solo l’erede dell’accigliato e un po’ appartato Partito Popolare – con la sua vena, gobettianamente definita, di “messianesimo riformatore” – ma sintetizzava interessi, posizioni, esperienze, stati d’animo di un’area sociale assai più larga e nella quale si inseriva tutto quel filone di “fascismo cattolico” che era pur esistito, che aveva temperato le asprezze del totalitarismo con una vena di scetticismo nazionale, riparato dietro l’antica fede di padri.
    Il mondo democratico e laico di sinistra non capì questa realtà, sconvolgente e inedita rispetto a tutti gli schemi politici consolidati dalle stesse ripartizioni presuntive dei comitati di liberazione nazionale o della Consulta; nell’ “intervista” a Ronchey, tanti anni dopo, La Malfa confesserà l’errore in cui quegli uomini erano caduti: “noi vedevamo solo il partito del Vaticano”.
    La DC di De Gasperi era una proiezione del mondo cattolico, e quindi anche del Vaticano, ma non era solo quello. E Salvatorelli corresse le infatuazioni vittoriose dei laici, qualche mese prima della scissione del Partito d’Azione, non meno di quanto rettificasse un altro “luogo comune” dilagante in quel clima, il “partito unico del lavoro” che avrebbe dovuto superare le differenze fra socialisti e comunisti, prima che fossero sciolti i grandi nodi ideologici e internazionali, che neanche la comune lotta antifascista aveva districato.
    Ecco perché su tutto emergeva, agli occhi del direttore della “Nuova Europa”, la necessità di un partito della democrazia capace di bilanciare le tre forze in cui egli lucidamente vedeva articolarsi lo schema politico italiano del futuro, la democrazia cristiana, i socialisti, e comunisti. Con un suo messaggio peculiare, con un suo specifico e inconfondibile programma riformatore.
    Fu una polemica, quella sul partito della democrazia, che non si fermerà all’originario articolo di Salvatorelli. Le repliche saranno numerose e appassionate. Salvatorelli aveva ipotizzato una saldatura fra i ceti medi e il proletariato, ma con prevalenza dei primi (secondo lo schema dell’Unione amendoliana); Leo Valiani non sarà d’accordo e in agosto ribatterà sulla rivista che nessuna formazione del genere è possibile senza il riconoscimento della “funzione preminente” del proletariato.
    Era stata, in qualche misura, la stessa polemica che fra 1924 e 1925 aveva diviso Giovanni Amendola da Piero Gobetti, proprio Gobetti, l’editore del Nazional-fascismo salvatorelliano, un testo fondamentale per capire il fascismo, come ci ha ricordato anche, nella recente riedizione, Giorgio Amendola.

    Giovanni Spadolini
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    [Le elezioni del 1968, IV] – Prima analisi


    “Corriere della Sera”, 21 maggio 1968




    I calcolatori elettronici non hanno funzionato. I risultati elettorali sono arrivati col consueto ritardo, e nella consueta confusione. È difficile, quindi, formarsi un’opinione precisa dei risultati del 19 maggio, ma è già possibile delineare un bilancio del voto per il Senato, sulla base di dati non ancora ufficiali ma attendibili.
    Tre elementi emergono con sufficiente chiarezza da una prima sommaria analisi. Il primo è l’avanzata netta e incontestabile della democrazia cristiana, sulla quale sono confluiti tutti i ceti turbati dai sintomi di turbamento e di sconvolgimento che hanno colpito il mondo comunista e l’Europa intera (i fatti di Praga e i fatti di Parigi hanno giuocato inequivocabilmente a favore del recupero della DC, un recupero che premia lo sforzo instancabile di Moro e di Rumor). Il secondo elemento, purtroppo uniforme, è rappresentato dal calo dei socialisti unificati in una misura che, almeno per palazzo Madama, ha superato le previsioni, quasi unanimi e generali, su una inevitabile flessione collegata alla dissidenza socialproletaria, una dissidenza rafforzata da tutti i fermenti massimalisti e intolleranti scatenati dalla violenza maoista. Il terzo elemento, che rafforza la necessità di difese adeguate per l’intera democrazia italiana, si identifica con l’attestazione dei comunisti e dei socialproletari sul trenta per cento dei voti: un trenta per cento cui il PSIUP apporta un contributo che oscilla fra il 4,5 e il 5 per cento.
    Il passo avanti della democrazia cristiana, come ha giustamente e legittimamente rilevato l’onorevole Rumor, è senza dubbio notevole. Per il Senato la DC è arrivata a sfiorare il 40 per cento rispetto a circa il 36 toccato nell’aprile 1963.
    Con questo risultato la DC torna al suo tradizionale baricentro del 40 per cento che è stato, dopo il clamoroso exploit del 1948, il perno elettorale del partito, con variazioni marginali di cinque in cinque anni. Dove ha preso questi voti in più il partito di maggioranza relativa? È impossibile dare una risposta precisa. Probabilmente alle destre, che sono in diminuzione, ma anche – e sia pure in parte minore – ai socialdemocratici dato che il calo dei socialisti unificati non è andato tutto a favore dell’estrema sinistra e del partito repubblicano.
    Il secondo elemento certo è il regresso subito dal PSU che passa dal 20,4 per cento – la somma, cioè, dei voti ottenuti nel 1963 per il senato dai socialisti più i socialdemocratici – ad oltre il 15 per cento. È una perdita di cinque punti, quasi identica al guadagno dei socialproletari anche se, molto probabilmente, il travaso dei voti è stato molto più complesso. Sta di fatto che gli interessati e anche gli osservatori esterni avevano messo in bilancio un calo socialista, ma in proporzioni minori di quello che si è verificato.
    La prima ipotesi è stata di un calo determinato dal meccanismo delle candidature: i socialisti non avrebbero gradito votare per un candidato proveniente dal PSDI e viceversa. È probabile che anche questo elemento abbia giocato a sfavore del partito unificato, ma non in modo esclusivo, a giudicare dai primi dati della Camera.
    Appare più verosimile, invece, che alla base di questa flessione ci siano altri motivi più profondi: la scarsa coesione del partito che è ancora bicefalo ed è ancora diviso sulle prospettive, la difficile coabitazione fra ex-PSI e ex-PSDI, la pressione sulla sinistra di un PCI e di un PSIUP che hanno combattuto nei riguardi del PSU una battaglia senza esclusione di colpi, un evidente calo di voti nuovi. Sono tutti motivi che, aggiunti alle difficoltà collegate alla scelta dei candidati, hanno influito in modo negativo sul comportamento elettorale del PSU. Il quale resta, comunque, terzo partito dello schieramento e ago insostituibile della bilancia politica italiana.
    Infine, i comunisti. Il PCI più il PSIUP ha avuto il trenta per cento dei voti: ma soltanto i dati della Camera potranno consentire di attribuire un peso esatto ai due partiti. Questo del Senato era in realtà un risultato in gran parte scontato: i soli comunisti avevano avuto a Palazzo Madama nel 1963 il 25,9 per cento dei voti e in tutte le prove elettorali amministrative i socialproletari – presenti per la prima volta alle politiche – avevano totalizzato un “pacchetto” di voti oscillante sul 4-4,5 dei voti con punte più alte, in Sicilia per esempio. L’alleanza imposta dalle Botteghe Oscure, con il sacrificio di una dozzina di senatori “donati” al PSIUP, ha premiato i piani propagandistici del PCI.
    Un giudizio più completo sul comportamento elettorale del partito di Longo potrà venire solo dai dati definitivi della Camera, dove il PCI si presenta senza l’ausilio del PSIUP e senza la maschera di comodo del “minifronte”. Quello che sembra certo fin da ora è che l’elettorato del PCI è immobile: non ha recepito la lezione di Praga così come non comprese in passato la lezione di Budapest.
    Netto il successo dei repubblicani che in Senato hanno quasi triplicato i consensi, raggiungendo il 2,3 per cento: il ruolo di “coscienza critica del centro sinistra” ha giovato al piccolo partito di La Malfa che ai suffragi delle isole tradizionali ha potuto aggiungere voti nuovi in zone del tutto nuove.
    I liberali hanno mantenuto, a quanto pare, le loro posizioni ed hanno subito soltanto una lievissima flessione per palazzo Madama: se anche alla Camera la tenuta dell’opposizione costituzionale verrà confermata, ci sarà un elemento positivo in più in un turno elettorale per altri versi poco confortante. In calo appaiono le destre, che proseguono nello sfaldamento progressivo registrato anche nelle ultime elezioni amministrative. E secondo la logica che ha accompagnato tutto il cammino della democrazia italiana nell’intero dopoguerra.
    In conclusione: sotto il velo di un’apparente apatia l’elettorato ha maturato scelte che non mutano gli schieramenti politici ma pongono altri interrogativi. I voti nuovi che erano poco meno di quattro milioni hanno giocato a favore della DC e dell’estrema sinistra confermando la pericolosa tendenza alla radicalizzazione che non sorprende nei giovani. Infine le schede bianche: i persuasori della diserzione hanno ottenuto, almeno in parte, il loro effetto e il “voto senza voto” – questa assurda manifestazione di opposizione globale al sistema – è aumentato rispetto al passato.
    Questo è il quadro. Anzi è una sola parte del quadro. Sarà il voto di Montecitorio – dove ognuno si presenta con il suo voto – a dare una risposta ai quesiti lasciati aperti da questi primi risultati.

    Giovanni Spadolini
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  8. #168
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    [Le elezioni del 1968, V] - Nervi a posto

    “Corriere della Sera”, 22 maggio 1968


    Prima di tutto: nervi a posto. Il risultato elettorale ha deluso le legittime speranze dei socialisti ma non ha sconvolto gli equilibri parlamentari su cui poggiava e poggia la continuità del centro-sinistra e in genere la stabilità democratica.
    Diciamolo in tutte lettere, senza limiti o ipocrite perifrasi. Il partito socialista unificato ha pagato fino in fondo, fino all’ultimo voto, la scissione socialproletaria. Dei sei milioni e poco più di suffragi che i due gruppi socialisti, il PSI e il PSDI, avevano conseguito nell’aprile del 1963, con una strategia a ventaglio che questa volta è stata impedita dalla logica stessa dell’unificazione, il PSU ne ha ceduto oltre un milione e quattrocentomila, nelle elezioni per la Camera, al partito social proletario: il quale è tornato a Montecitorio con i suoi deputati, anzi con uno di meno.
    Non c’è stato recupero sul PSIUP, d’accordo; ma neppure crollo di fronte al blocco compatto, e organizzatissimo, e capillarmente articolato dei comunisti e dei socialproletari, aiutati, al Senato, dalle frange degli indipendenti di sinistra e degli intellettuali del dissenso. I quattro milioni e seicentomila voti che il partito unificato ha ottenuto per la Camera sono tutti voti autenticamente socialisti e democratici: voti raccolti, con immense difficoltà e in mezzo a resistenze di ogni genere, in un elettorato vaccinato e responsabile, grazie ad una campagna elettorale coraggiosa, coerente e sostanzialmente uniforme.
    Nessuno dei capi qualificati del PSU pensava di riassorbire completamente l’emorragia socialproletaria. Nessuno, e tanto meno l’onorevole Nenni. La speranza, la speranza più ottimistica era di attestarsi sui cinque milioni o cinque milioni e mezzo di voti, in una percentuale oscillante fra il 15, 5 e il 17 per cento.
    Non è difficile individuare le cause che hanno impedito di toccare un tale traguardo, che era in ogni caso il traguardo più ambizioso. L’offensiva antiamericana sul Vietnam, perseguita dai comunisti con efficacia pari all’ostinazione, aveva provocato larghe brecce nell’elettorato della sinistra socialista: brecce che non sono state colmate neppure dal faticoso e precario avvio dei negoziati di Parigi per la pace nel Sud-est asiatico. Lo scatenamento del delirio filo-cinese in Europa, non solo a Berlino ma anche a Parigi, alla vigilia immediata delle elezioni italiane, ha finito per aiutare quello che è ritenuto non a caso il partito della dissidenza e della protesta “cinese” in Italia, per alimentare cioè il massimalismo e l’intransigenza del PSIUP.
    Ma non basta. Certi provvedimenti impopolari, come la riforma tardiva e discussa delle pensioni, hanno servito solo ad avvantaggiare le opposizioni estreme a tutto danno dei socialisti: offrendo armi troppo facili all’implacabile concorrenza di comunisti e socialproletari. Certe lentezze e inadempienze nell’azione legislativa, soprattutto nella travagliata e drammatica agonia dell’ultimo parlamento, si sono riflesse tutte negativamente sul PSU, senza coinvolgere minimamente il suo partner di governo, la democrazia cristiana. Le asperità della lotta per la candidature fra i due rami così prematuramente unificati del partito non sono passate senza lasciare tracce abbastanza profonde: basti guardare la Toscana o la Liguria, quella Liguria che non è riuscita a rimandare a Montecitorio neppure il suo vicepresidente, uno degli esponenti più autorevoli ed illuminati della vecchia socialdemocrazia, l’onorevole Paolo Rossi.
    Aggiungiamo che i fatti di Praga, come già quelli di Ungheria nel 1956, non hanno minimamente intaccato la forza dei comunisti e dei loro alleati: forza che si collega ai vantaggi congiunti dei una opposizione protestataria e indiscriminata uniti allo sfruttamento sapiente e sagace del potere locale, amministrativo e sindacale (insegnino per tutti i balzi in avanti del PCI in Emilia e in Toscana!).
    In questa situazione psicologica e politica, i socialisti sono riusciti con fatica, e non senza sforzi e sacrifici eroici, a salvare le posizioni parlamentari che erano emerse nel 1964 dalla scissione del PSIUP: i loro 64 senatori a palazzo Madama e 91 deputati, solo tre in meno, a Montecitorio. Attestandosi su quella percentuale del 15, 2 per cento al Senato e del 14, 5 alla Camera che coincide “grosso modo” con la percentuale media degli unificati in tutte le consultazioni amministrative succedute alla scissione socialproletaria.
    Non è un successo, certamente; ma non è neppure una sconfitta che debba consigliare di cambiare politica o tanto meno di rovesciare il fronte delle alleanze, a vantaggio di un’illusoria e utopistica “riqualificazione” giacobina ed estremista, alla Lombardi. Al contrario. Ora che tutte le perdite possibili e immaginabili sono state subite dal PSU sulla propria sinistra – pesante ma inevitabile scotto pagato per la collaborazione al governo e per la rottura della tradizione massimalista -, si impone una scelta consapevole e risoluta che assegni al partito un ruolo stabile e determinante volto a preservare l’equilibrio del centro-sinistra e a rafforzarne l’azione, sul piano di difesa della democrazia e di promozione del progresso sociale. Lo stesso netto indebolimento della sinistra socialista nel giuoco delle preferenze e nelle candidature senatoriali accentua la necessità, e la logica, di una scelta ormai inevitabile.
    L’aumento della DC, pur importante e significativo, non è tale da sconvolgere l’equilibrio fra cattolici e laici, cui sono legate le sorti, e la stessa sopravvivenza, della democrazia italiana. Alla Camera lo scudo crociato risale, grazie all’azione instancabile di Moro e di Rumor, dal 38, 3 al 39,1 (siamo ancora lontani dal 42,3 del ’58). È un guadagno sensibile, se si pensa al logorio inevitabile per un partito che da oltre venti anni regge il peso essenziale del potere, ma non tale da consentire alla DC né l’illusione del monocolore né il sogno di un secondo 18 aprile. La stessa avanzata dei repubblicani, che conquistano nove deputati al posto dei cinque seguiti alla secessione pacciardiana, accentua le possibilità “contrattuali” della sinistra democratica e laica nel dialogo, necessario e insostituibile, con le forze di impronta cattolica.
    Se poi si tiene presente che il partito liberale, assolvendo appassionatamente e con assoluta correttezza ai suoi doveri di opposizione costituzionale, ha mantenuto gran parte delle proprie posizioni alla Camera e al Senato, si deduce che il fronte dei partiti laici e risorgimentali, pur divisi nella collocazione topografica parlamentare, preserva le condizioni di fondo per la salvaguardia delle costanti legate alla migliore eredità degasperiana.
    Resta l’aumento, allarmante e grave aumento dei voti comunisti: più grave alla Camera che al Senato anche per la maggiore e inquietante incidenza dei voti giovanili. Undici deputati in più, quasi ottocentomila voti cresciuti. È il problema più grave della prossima legislatura. Ed è un problema che si potrà affrontare solo con un’azione di governo sottratta a tutte le tentazioni del “doppio binario”, con una iniziativa politica più netta e decisa da parte delle varie falangi democratiche, al di fuori di ogni complesso di inferiorità, al di fuori di ogni ammiccamento furbesco o di ogni spartizione di potere. Altro che “dialogo”! I margini della democrazia tendono a restringersi ed occorre da parte di tutti, socialisti, democristiani, repubblicani, una ferma fede in se stessi. E nel destino dell’Italia, inseparabile oggi più che mai da quello della libertà.

    Giovanni Spadolini

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  9. #169
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Socialisti e liberali

    “Corriere della Sera”, 24 luglio 1971



    L’aperto elogio che Mancini ha rivolto dagli schermi della televisione al partito liberale non ha mancato di suscitare un senso di sorpresa nel mondo politico: fino ai limiti dell’ironia, neppure del tutto ingiustificata, dalla sponda estrema del “Manifesto”. Qualche variazione di tono nei riguardi del PLI si era già avvertita sulla stampa socialista, in occasione del tormentato congresso nazionale svolto dai liberali in gennaio e caratterizzato dal risveglio delle sinistre interne; ma oggi i riconoscimenti, sussurrati o velati sei mesi orsono, si sono trasformati in una dichiarata e ostentata ammissione della preziosa e insostituibile funzione democratica che i liberali continuano ad assolvere, in chiave antifascista e costituzionale, contro la stessa inquietante avanzata del Movimento Sociale Italiano.
    Lasciamo da parte le polemiche retrospettive. Sarebbe stato certo più giusto, dieci anni fa, che il centro-sinistra evitasse quei toni di discriminazione e di rifiuto quasi teologico verso il partito liberale in cui, per la verità, i socialisti occuparono il primo posto (ma neppure DC e socialdemocratici fecero eccezione). L’esclusione della componente liberale dalla lega di centro-sinistra fu giudicata, per anni, condizione irrinunciabile della “purezza” e dell’ “autonomia” della coalizione coi socialisti: quasi che il partito di Croce e di Einaudi rappresentasse un limite insuperabile a quelle riforme serie e concrete che sono sempre, per natura, “liberali” (quando non si tratti di soluzioni peroniste o giustizialiste: nel qual caso diventerebbero anche antisocialiste). Neppure l’atteggiamento di assoluta intransigenza da parte dei liberali – l’opposizione aspra e impietosa di Malagodi, in più di un caso, superò il segno – fu estraneo a quel processo storico che scavò troppi solchi fra le forze che si riconoscevano nella comune ispirazione laica e risorgimentale, con la conseguenza, assolutamente negativa, di estraniare i liberali da atti e momenti determinanti della vita dello Stato, come, per fare un solo esempio, l’elezione di Saragat al Quirinale.
    Ma il problema oggi non è storico: è politico. E politicamente è impensabile che il reingresso dei liberali nell’area democratica, patrocinato con tanto zelo dall’onorevole Mancini, possa limitarsi alla scadenza delle elezioni presidenziali, non a caso richiamata dal segretario del PSI. Se un partito, come il liberale, assolve, e non c’è dubbio che assolva, un’essenziale funzione di garanzia e di tutela democratica soprattutto contro la nuova tecnica di “destra nazionale” e di maggioranza silenziosa del MSI, se un partito, come il liberale, assume responsabilità importanti per la difesa di posizioni democratiche – sono parole testuali di Mancini -, allora è doveroso porre fine a tutti gli ostracismi e tutti i bandi, del resto infondati, contro il liberalismo, allora è giusto trarne tutte le conseguenze.
    E la conseguenza prima che ne deriva, sul piano logico, è che il partito liberale potrebbe domani, in condizioni di emergenza democratica dalle quali del resto non siamo troppo lontani, essere richiamato a condividere responsabilità di governo o di maggioranza come all’epoca centrista, occupando uno spazio che oggi forse è il più esposto alla concorrenza e all’insidia elettorale degli avversari del presente regime democratico.
    Nella situazione concreta dell’Italia, un’ipotesi Brandt-Scheel non esiste. Anche con la migliore buona volontà dell’onorevole Mancini, un governo di socialisti e liberali, quale regge ora la Germania di Bonn sia pure con un margine di pochi voti, non è ipotizzabile. Né un fronte laico esteso ai liberali potrebbe tradursi in una concreta maggioranza di governo, in quanto implicherebbe la presenza determinante dei comunisti: le confluenze sul divorzio o sul no al referendum non sono destinate ad allargarsi ad altri temi qualificanti della vita italiana.
    Il ruolo del partito liberale – e qui ha ragione Malagodi, nonostante le impuntature e le intransigenze del suo carattere – non può non essere un ruolo di centro: contro gli opposti estremismi, contro ogni seduzione totalitaria, di destra neofascista o di sinistra comunista. E l’ipotesi di una possibile alternativa centrista dovrebbe quindi scaturire, se le parole hanno un senso, dalle aperture e dai riconoscimenti dell’onorevole Mancini. Sulla carta, in questo Parlamento, esiste una maggioranza di democristiani più socialdemocratici più liberali. Conosciamo le difficoltà e gli ostacoli alla sua attuazione. Ma il punto non è questo. Il punto è un altro: i socialisti ammettono o no la piena liceità democratica di tale ipotizzata maggioranza, in antitesi al monocolore, il giorno in cui l’alleanza fra DC e PSI dovesse incontrare difficoltà tali da non poter mantenersi in piedi, almeno fino al decisivo chiarimento elettorale del 1973?
    Ecco tutto. Una democrazia non vive senza alternative, anche solo potenziali o tendenziali. E il maggiore errore del centro-sinistra, specie dopo le elezioni del ’68 e lo sciagurato disimpegno, è stato quello di irrigidirsi nel dogma di una “irreversibilità” contraddetta poi dalle infinite miserie di una collaborazione spesso dispettosa, reticente e infeconda.
    Un’opposizione costituzionale, come quella liberale, non può difendere il suo spazio vitale, sul centro-destra dello schieramento democratico, se non viene reinserita in un certo giuoco politico: un giuoco che non può limitarsi alla richiesta o alla contrattazione dei voti del PLI per l’elezione di un eventuale candidato socialista al Quirinale.
    Malagodi ha risposto benissimo a Mancini. Il PLI è contro tutte le violenze: non tiene i manganelli dietro la schiena ma rifiuta anche di legittimare, come i socialisti hanno fatto troppe volte in retorico ossequio ai miti tramontati della contestazione, “le sbarre di ferro dei picchiatori di sinistra”. Il PLI rifiuta l’antifascismo filo-fascista ma anche l’antifascismo filo-comunista. Lo Stato non si salva con le milizie private di Firenze né con le squadre operaie al posto delle forze dell’ordine.
    Il compito dei liberali è di dimostrare, ai ceti moderati più sensibili alla mimetizzazione neofascista, che il MSI non rappresenta e non può rappresentare nessuna tutela dei pur legittimi interessi conservatori: né per superare la crisi economica in atto (ci vuole altro che il Parlamento corporativo!) né per ristabilire l’autorità dello Stato discussa e insidiata da tutte le parti. O la soluzione finale del dramma italiano sarà democratico-liberale, oppure tutti i problemi irrisolti della nostra storia torneranno al pettine. In condizioni molto più drammatiche – nessuno si illuda – di quelle del 1922.

    Giovanni Spadolini


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    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Il principio cui si ispira la stampa, in un paese a struttura democratica e pluralista, è il principio del “libero esame”. Ogni fallo, ogni avvenimento deve essere sottoposto ad una verifica severa, obiettiva, imparziale. Le mitologie o le speculazioni di parte contraddicono alla funzione dello scrittore e del giornalista politico, il quale attinge la pienezza del suo magistero solo in quanto si sottrae a tutti i richiami dei potenti o dei prepotenti, a tutte le suggestioni di coloro che detengono le leve del potere.


    Giovanni Spadolini – “Corriere della Sera”, 4 marzo 1971.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 
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