Ultimo intervento di Giovanni Spadolini al Senato – Sulle comunicazioni del Governo (1994)
Senato della Repubblica, seduta pomeridiana del 17 maggio 1994
Il Presidente del Consiglio Berlusconi espose il programma del I Governo da lui presieduto nella seduta del 16 maggio 1994, ottenendo la fiducia al Senato nella seduta pomeridiana del 18 maggio. Il Governo rimase in carica dal 10 maggio 1994 al 16 gennaio 1995.
SPADOLINI. Signor Presidente del Senato[1], signor Presidente del Consiglio, onorevoli colleghi, un autentico privilegio del Presidente del Senato è quello di non votare. E mai come nel momento attuale rimpiango questa regola, che mi ha accompagnato per tutti gli anni della mia Presidenza, anni in cui mi sono ispirato ai princìpi dell’arbitrato e della mediazione super partes, connessi alla stessa istituzione presidenziale, istituzione che cancella, o dovrebbe cancellare, le stesse origini politiche del titolare dell’ufficio, imponendogli tutte le necessarie cautele e tutte le necessari rinunce.
Mi richiamo a questo lungo periodo di Presidenza del Senato per dirle, signor Presidente del Consiglio, che non potendo accordarle la fiducia, ma tenendo conto della mia esperienza al vertice di Palazzo Madama per tanti anni, mi asterrò dal voto.
Nel suo programma, che è un vasto e composito programma, frutto di un’alleanza vasta e composita, che non si era presentata come tale ed in modo definito all’elettorato italiano (altro che svolta maggioritaria!) ci sono elementi accettabili, ma ci sono anche elementi che debbono essere rifiutati o rettificati o reinterpretati. Ci sono speranze condivise da tutti gli italiani – la lotta per la maggiore occupazione, in primo luogo – mescolate a trasformazioni, talora confuse, che richiederebbero anni o decenni.
Noi non vogliamo impedirle di mettere alla prova quel che deve essere messo alla prova, di sottoporre al giudizio delle Assemblee, sia di questa sia della Camera, quelle misure da cui possa emergere un consenso parlamentare più vasto di quello su cui si regge la sua coalizione di Governo, solcata da dissensi che hanno riempito le cronache di queste settimane e confermato posizioni fortemente divaricanti e, in taluni casi, dilaceranti.
Ma c’è soprattutto un elemento dal quale, forti della nostra lunga esperienza parlamentare, noi vorremmo metterla in guardia con spirito di amicizia: quello di ritenere che col suo Governo cominci una nuova storia, che il nuovo di sovrapponga meccanicamente e insieme impetuosamente al vecchio, che tutto il vecchio (la costruzione della Repubblica attraverso la lotta di Liberazione, la scelta atlantica ed europeistica degli anni Cinquanta, il salto dall’Italia silvo-pastorale all’Italia industriale, la mediazione, in vari periodi feconda, tra forze laiche e forze cattoliche) sia da respingere o da abbandonare. E che il nuovo – e quale nuovo! – sia da esaltare in modo indiscriminato ed acritico, in omaggio ad una fiducia nel futuro che sembra prescindere dalla gravità dei problemi aperti (penso solo al debito pubblico), delle difficoltà da superare, delle eredità negative che dobbiamo cancellare, aggravate dai fenomeni corrosivi che hanno colpito e degradato le istituzioni.
Rispetto alle invadenze e alle sopraffazioni della partitocrazia (una parola che noi conosciamo bene fin dalle sue origini, all’alba degli anni Cinquanta, e che non abbiamo tardato ad impiegare negli ultimi anni e decenni) non c’è stato un solo segnale di novità, un solo elemento di svincolo da quella che era, con le conseguenze che tutti abbiamo pagato, la sovrapposizione insolente dei partiti e dei relativi apparati sulla vita delle istituzioni. E il fenomeno riguarda anche partiti appena nati o addirittura neanche nati come tali, come il movimento da lei capeggiato ed animato.
Chiudiamo dunque per sempre questo capitolo, riconoscendo che la storia di una nazione abbraccia in sé tutte le esperienze che è chiamata a percorrere.
Anche lei, signor Presidente del Consiglio, di cui sono ben note le benemerenze imprenditoriali, potrà dare un contributo a questa storia, a patto che s’accinga con umiltà ad un’opera cui non è chiamato da nessuna Provvidenza o da nessun destino; ad un’opera che è indicata dal corpo elettorale, ma che si iscrive nel solco delle generazioni che si succedono, portatrici di successi e di fallimenti, di traguardi e di sconfitte, di conquiste e di delusioni.
Quando faremo fino in fondo la storia di Tangentopoli e della corruzione, vedremo che le responsabilità sono assai più larghe di quelle che una propaganda sommaria ha tentato di definire e che la corruzione, questa maledizione contro la quale ci siamo sempre battuti fin dai tempi della P2 che ne fu una delle prime e più sconcertanti manifestazioni, investe tutta una realtà politica e sociale dalla quale nessuno può considerarsi esente. E noi abbiamo sempre posto la questione morale, anche in anni lontani, quando ci toccarono responsabilità di Governo analoghe alle sue, al centro della nostra azione e del nostro impegno, quali che fossero i rischi da correre o i sacrifici da affrontare.
Storia che continua, dunque, non storia che comincia. La nostra è la storia di una nazione che si è costruita gradualmente, in base ad una identità di lingua e di cultura che ha preceduto di secoli la formazione dello Stato, in un processo che appare miracoloso, ma che in realtà è stato faticoso, contraddittorio, spesso paradossale, pieno di sacrifici e in gran parte deludente (“Risorgimento senza eroi”, come avrebbe detto il nostro Gobetti).
Ecco perché tutto nella storia italiana è stato pagato a così caro prezzo; nulla ci è venuto mai gratis. Cominciando dalla faticosa ricostruzione post-bellica, dall’avvio dell’epoca repubblicana, dalle recenti – e quanto faticate – vittorie contro il terrorismo e contro l’inflazione.
Guardiamoci intorno. Così come non ho prestato troppo ascolto alla cosiddetta teoria della “fine della storia”, elaborata all’indomani del crollo del muro di Berlino, mi lasci dire che potrei difficilmente accettare l’idea di “nuovo inizio della storia” solo perché un Governo è succeduto ad un altro, dopo una crisi che ha registrato contraddizioni e condizionamenti e in attesa di un chiarimento definitivo circa sfera privata e sfera pubblica nello stesso ambito delle sue personali attività imprenditoriali (la televisione, per intenderci).
Rispetto delle regole, trasparenza, moralità. Tutto questo fa parte della fisiologia delle democrazia. In democrazia si va al governo, non si va al potere; la parola “potere” è stata introdotta nel mondo moderno dalle ideologie dittatoriali o dalle giunte militari; non si va al potere, si va al governo e sempre con le valigie pronte. (Applausi dal Gruppo Misto e dai Gruppi del Partito popolare italiano, Progressisti-Federativo, Progressisti-Verdi-La Rete, di Rifondazione comunista-Progressisti e del senatore Stanzani Ghedini). Ricordiamo quella fase del Moro bicolore (un Esecutivo del quale, io sì, mi onoro di aver fatto parte vent’anni fa esatti, nel 1974-75): “Ogni giorno dobbiamo viverlo indifferentemente come il primo o l’ultimo della nostra fatica”. (Applausi dal Gruppo del Partito popolare italiano).
Oggi di fronte a lei c’è un Paese impegnato a riscoprire, in una fase di profondo travaglio e di profondissimo disorientamento, la propria identità. E non sono certamente scomparsi gli squilibri che per tanta parte hanno caratterizzato le vicende multiformi e tormentate del nostro popolo, squilibri aggravatisi negli ultimi anni e squilibri che, se lei otterrà la fiducia delle Camere, toccherà anche a lei tentare di rimuovere.
Ma nonostante tutte le contraddizioni l’Italia è una democrazia che ha riconquistato a duro prezzo un posto nel consesso delle nazioni civili, una democrazia che attraverso il superamento dei confini ha saputo guardare all’Europa e spingersi anche al di là dell’Ottocento atlantico.
Noi dobbiamo sempre fare i conti con i nostri alleati e partner dell’Europa comunitaria, cui ci unisce la comune lotta contro il totalitarismo, in tutte le forme in cui si è espresso in questo secolo. E quando dico totalitarismo dico razzismo (Vicenza insegni), dico antisemitismo, dico xenofobia, dico sopraffazione e violenza, dico anche localismi a sfondo tribalistico (quelli che ci hanno portato all’Europa frantumata: la sindrome jugoslava, per intenderci).
Né sapremmo concepire il mondo moderno senza la grande lezione di civiltà, di serietà, di scienza e di amore per l’Europa che ha dato la democrazia nordamericana anche nella lotta contro il nazifascismo.
Il rischio è piuttosto un altro. L’isolazionismo che sorge dal Pacifico e che potrebbe spingere gli americani a separarsi dell’Europa, da un’Europa che in questo momento appare incerta e disorientata come non mai e rispetto alla quale deve essere definita una linea di governo assai più precisa e rigorosa di quella che appare nei sommari, necessariamente sommari, accenni del suo discorso. Non meno del terzaforzismo europeo, con qualche venatura di nazionalismo e di nazionalpopulismo, due virus mai completamente debellati che potrebbero tendere a staccarsi dal vincolo euroatlantico. La vera rivoluzione è stata quella atlantica, che ha assorbito insieme la rivoluzione francese e la rivoluzione americana, creando un nuovo diritto umano che è compito nostro perfezionare e adeguare ad un mondo che cambia.
E già che stiamo parlando di diritto e di trasformazioni, mi lasci soffermare per un attimo sulla questione delle riforme istituzionali, termine che va usato con tutta la prudenza, la sagacia e l’accortezza del caso, al di fuori di ogni facile dilettantismo di tipo goliardico e senza dimenticare l’indispensabile riforma elettorale, con l’auspicata introduzione del doppio turno.
Dobbiamo rivedere la Costituzione, dobbiamo adeguarla alle esigenze di una democrazia funzionante, di una democrazia dell’alternanza ancora tutta da costruire. Parlamento forte vuol dire Governo forte. Ma dobbiamo farlo al di fuori di ogni tentazione di sovvertimento, di sconvolgimento dei princìpi che hanno presieduto alla costruzione della Repubblica, sul fondamento di legittimità del patto nazionale, punto di incontro tra primo e secondo Risorgimento.
Non è con i colpi di teatro che si affronta una materia delicata ed essenziale come questa; ricordiamoci che una cosa è la forma di governo, tutt’altra cosa è la forma di Stato. Mi torna alla mente una frase di Musil ne L’uomo senza qualità: “Ogni generazione intenta a distruggere i buoni risultati di un’epoca precedente è convinta di migliorarli”.
I polveroni sollevati dal “movimentismo” istituzionale (che ha caratterizzato gli ultimi anni della vita italiana, non senza complicità anche nostre, dei partiti storici, vecchi, della democrazia italiana, che ora sono in via di superamento e di trasformazione nel nuovo quadro del sistema maggioritario, che per ora è soltanto tendenzialmente maggioritario) allontanano le riforme possibili; certo, non le avvicinano. Riformismo non è movimentismo. Essere “partito riformatore” non vuol dire in nessun caso essere partito “ginnastico”. Guai a contrapporre la piazza al Parlamento. Guai a contrapporre i fondamenti della Costituzione, sugli inviolabili diritti umani, ad una presunta radice plebiscitaria, contestatrice degli ordinamenti dello Stato.
So bene cosa significa portare la responsabilità della guida di un Governo, signor Presidente del Consiglio, e so che ogni consiglio può essere utile. Il imo consiglio a lei, signor Presidente, non è di procedura, ma di sostanza in questo caso. Qualunque schema di modifica dei lineamenti costituzionali del Paese, entri quei limiti insuperabili che ho tracciato, dovrà necessariamente essere il frutto di un dibattito da non confinare all’interno dell’angusto perimetro di una maggioranza. La Costituzione rappresenta un bene comune dell’intero Paese, della maggioranza non meno che dell’opposizione. Per questo auspico vivamente che le forze componenti il suo Governo, con angolazioni e origini così diverse, si rendano conto che il terreno ideale sul quale far maturare le riforme istituzionali è uno solo: il terreno parlamentare.
Esiste l’articolo 138 della Carta Costituzionale. È alle procedure e alle regole indicate in quell’articolo che bisogna rimanere fedeli, con la consapevolezza che i princìpi supremi fissati dalla Costituzione, fra i quali l’indipendenza della magistratura e il mantenimento della suprema garanzia costituita dalla Corte costituzionale, non possono cedere di fronte ad alcuna altra fonte di diritto, plebiscitaria o di altra natura.
Alle forze politiche che invocano la tutela e il potenziamento delle peculiarità regionali e locali – che sono tanta parte della complessa storia d’Italia – rispondo che si tratta di un’aspirazione legittima nell’ambito di quella che Piero Calmandrei chiamava la repubblica delle autonomie, che come tale è stata configurata, anche se non sempre nel corso di questi decenni attuata ed anche se in certi casi tradita.
La valorizzazione di questo patrimonio culturale e spirituale, ricchissimo e variegato, deve passare attraverso un potenziamento degli enti territoriali che tenga conto degli errori compiuti in questa prima fase della Repubblica, cominciando dal terreno fiscale. Ma il tutto in un quadro unitario, perché l’Italia è una e indivisibile. Il che esclude compromessi di tipo confederale o frammentazioni di stampo centro-europeo che sono al di fuori della storia. E senza dimenticare mai che l’unità nazionale si è realizzata nel post-Risorgimento e successivamente con la Repubblica, attraverso forme dirette e indirette di solidarietà delle regioni più ricche a favore delle regioni più povere (guai ad ogni forma di antimeridionalismo: io riaffermo qui la mia fede assoluta nel Mezzogiorno) e delle categorie forti a favore delle categorie deboli. (Applausi dai Gruppi Misto, Progressisti-Federativo, Progressista-PSI, Progressisti-Verdi-La Rete, di Rifondazione comunista-Progressisti, del Partito popolare italiano, Forza Italia e del Centro Cristiano democratico).
Questa è l’Italia; noi portiamo, avrebbero detto i nostri vecchi, un amore secolare all’Italia. Senza distinzione fra Busto Arsizio e Battipaglia. (Vivi, generali applausi. Molte congratulazioni).
Da G. Spadolini, “Discorsi parlamentari”, con un saggio di C. Ceccuti, Il Mulino, Bologna, 2002, pp. 331-336.
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[1] Era Presidente del Senato Carlo Luigi Scognamiglio Pasini.