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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    La conciliazione silenziosa (1959)


    “Il Resto del Carlino”, 11 febbraio 1959; poi in G. Spadolini, “Il Tevere più largo. Da Porta Pia ad oggi”, Longanesi, Milano 1970, pp. 121-128.


    Quando Giovanni Giolitti morì nel luglio del 1928, i Patti Lateranensi non erano stati ancora suggellati e le trattative fa Italia e Vaticano, già aperte da due anni, conoscevano ostacoli e difficoltà non trascurabili. È probabile che, se il grande statista dell’Italia prefascista fosse arrivato al ’29, il suo voto contrario si sarebbe associato a quello dei grandi spiriti liberali che ancora sopravvivevano nelle aule ormai “sorde e grigie” dei due rami del Parlamento italiano, da Croce a Ruffini.
    Ma l’opposizione di Giolitti si sarebbe probabilmente appellata a ragioni ideali e storiche del tutto diverse da quelle avanzate dall’anticlericalismo di maniera – un anticlericalismo nel quale il vecchio Presidente non si sarebbe riconosciuto mai. Lo statista di Dronero avrebbe probabilmente eccepito che la conciliazione formale aveva un’importanza secondaria e del tutto strumentale rispetto all’altra, alla conciliazione delle anime e delle coscienze, che era stata realizzata nel primo ventennio del Novecento e che era la sola importante, la sola valida, sia dal punto di vista del cattolicesimo che da quello dello Stato.
    Nelle “Memorie” di Giolitti – un vero monumento di sobrietà letteraria pari solo alla consapevolezza interiore – non si trova mai la parola “conciliazione” così come non si trovano mai citati, neppure per caso, neppure per errore, i quattro Pontefici che accompagnarono la sua lunga e feconda stagione politica, da Leone XIII a Pio X, da Benedetto XV a Pio XI. Eppure il “ralliement” fra Roma vaticana e Roma italiana rappresentò la costante del suo periodo di governo, nel pieno rispetto dell’integrità dello Stato moderno, nella assoluta difesa dei valori della libertà di coscienza.
    Perché non parlare di “conciliazione silenziosa”? Tutti i problemi che avevano turbato le relazioni fra Quirinale e Vaticano, nell’età di Depretis e di Crispi, nell’età dell’assalto alla salma di Pio IX e dell’inaugurazione del monumento a Giordano Bruno, trovarono nell’epoca di Giolitti quel principio di risoluzione che solo consentì l’incontro delle trincee nel ’15-’18, che solo consentì l’innesto fra cattolicesimo e democrazia con la nascita del partito popolare nel ’19. “Dormiente” ormai la questione romana, dopo le punte aspre del periodo crispino, dopo la illusoria e velleitaria politica del cardinal Rampolla, dopo il grande sogno di “révanche” di Papa Pecci. Inquadrate le masse guelfe – la riserva dell’antica opposizione sanfedista e reazionaria – nella logica dello Stato italiano; sottoposta l’iniziativa politica dei cattolici alla ferrea disciplina delle gerarchie ecclesiastiche. Superato, sia pure virtualmente, il veto del “non expedit”; aperte le urne ai cattolici deputati in attesa che maturassero i tempo dei “deputati cattolici”; bloccata la legislazione eversiva, e fermata in tempo ogni legge che urtasse gli interessi cattolici; nuove coincidenze fra la politica estera italiana e quella vaticana ritrovate in campo coloniale e suggellate dalla guerra di Libia. Rotte le separazioni, e le preclusioni, del positivismo; riavvicinate cultura laica e vita religiosa; compenetrate le sfere del pensiero critico e della fede. La coscienza del credente non più opposta a quella del cittadino; la patria celeste non più contrapposta a quella terrena.
    Distensione degli animi, placamento degli spiriti, apertura alla “conciliazione” psicologica e spirituale che ebbe però sempre un limite, un limite invalicabile: il rispetto della “legge delle guarentigie”, lo statu quo nei rapporti fra Italia e papato, la salvaguardia delle tavole storiche e giuridiche del Risorgimento. Su questo punto Giolitti, l’uomo delle alleanze eterico-moderate, l’uomo del “Patto Gentiloni”, non fu in nulla diverso dai suoi predecessori del post-Risorgimento.
    E si spiega. Esponente della Destra nel senso piemontese e cavourriano della parola (di una Destra quindi riformatrice e progressista, di una Destra da novello “Connubio”, che presto si configurerà come Sinistra giovane), Giolitti vedeva nella legge di Visconti-Venosta e di Bonghi il “non plus ultra” della perfezione giuridica, il massimo dell’equilibrio e del realismo: uno strumento che consentiva di evitare ritorni clericali come ondate anticlericali, che arginava le correnti del giacobinismo come frenava gli impulsi di una controffensiva “ultra” tale da minacciare le basi dello Stato. Legge, quella delle guarentigie, che rispecchiava il senso del liberalismo da cui Giolitti era animato, il senso concreto e operoso della storia come paziente ricerca di compromessi non come antologia di conquiste, della storia saggia e canuta dove un anno vuoto vale più di un anno di sciagure, dove un nodo sciolto vale più di un’imposizione forzosa, dove un onesto incontro a mezza strada prevale su un’ostentata e malsicura vittoria.
    Guarentigie e non concordati. Da un accordo in senso giuridico, da una pace formale e solenne fra Italia e Vaticano, Giolitti resterà sempre alieno, sempre lontano. Non sarà possibile con lui un caso Tosti (con quel fervore di passioni suscitate, con quell’attesa quasi messianica e millenaristica), non sarà possibile neppure un caso Mocenni (con quel sottinteso di potenza così gradito al Papa e a Crispi, con quel primo e confuso presentimento di un incontro fatale fra Italia e Santa Sede sui campi dell’Africa e sulle rive del Mediterraneo orientale).
    Problema – quello dei “do ut des” giuridici o territoriali – che non lo tormenta, che non lo appassiona; tanto sente che la storia l’ha risolto con la sua suprema saggezza, con una saggezza su cui nulla hanno potuto errori e deviazioni di uomini. Problema che non lo porta neppure a concepire misure preventive verso la controparte, ad assicurarsi garanzie o pegni. Nel 1904 penserà per un momento di annullare il “veto” dell’Italia all’inclusione della Santa Sede nella conferenza dell’Aja; all’inizio della grande guerra non avrebbe mai pensato di far escludere il Vaticano dalle trattative di pace (un’idea tipicamente sonniniana: ultimo residuo di una Destra che non c’era più).
    Agli occhi del Giolitti del nuovo secolo, la questione romana si riduceva alla presenza oltre Tevere di un efficiente commissario di Borgo, che agisse bene e tutelasse severamente l’ordine pubblico, consentendo alla Santa Sede il pacifico e tranquillo esercizio di tutte le libertà (ed erano molte) riconosciute dalle guarentigie. Una volta che nel 1902 confessò questo suo proposito a un giornalista cattolico, l’altro ne rimase scandalizzato: la questione romana ridotta a una “faccenda di polizia!” Eppure, ai suoi occhi, l’equilibrio conquistato era così prezioso, così perfetto, che non conveniva intaccarlo. C’è un documento inedito che è venuto in questi giorni sotto le nostre mani, un documento suggestivo, quasi patetico, che illumina questa realtà: il commissario di Borgo, il fedele e devoto ambasciatore di Giolitti, Cesare Bertini, teme una violenta manifestazione anticlericale (siamo nel settembre del ’13) in relazione all’agitazione per il corteo ginnastico cattolico, schiera quattrocento uomini di truppa in modo da bloccare la sede della “Giordano Bruno” e i soci colà radunati, dispone infine che una compagnia di bersaglieri si spieghi di fronte al palazzo abitato dal Pontefice e dal Segretario di Stato, “perché da quelle finestre si vedesse come le autorità italiane avessero ben provveduto, e ad esuberanza, alla tutela di quei luoghi”.
    Metodo giolittiano che si prolungherà in tutti i campi, che si trasmetterà ai successori. Se le trattative di Orlando – l’antico Guardasigilli di Giolitti – fallirono nella Parigi del ’19, ciò avvenne perché la classe dirigente liberale, legata – diversamente da quella fascista – alla morale del Risorgimento, non avrebbe mai consentito alla restituzione di una sovranità territoriale al Pontefice, neppure nei limiti simbolici consacrati dal Trattato del ’29. Per i liberali del vecchio mondo, lo scudo della libertà religiosa avrebbe dovuto essere ben più sicuro e più efficace della Città del Vaticano e delle convenzioni giuridiche sottoscritte da un qualsiasi regime; la difesa della coscienza collettiva – pacificata con la Chiesa e con Roma – avrebbe dovuto valere infinitamente più di tutte le garanzie del potere politico, sempre effimero e mutevole.
    Non è un’eredità perenta. I valori della Conciliazione vivono solo in quanto si radichino nell’anima popolare e coincidano con lo spirito di libertà. La formula dei “Concordati” nacque sempre, per la Chiesa, da esigenze difensive, contro assalti esterni, contro insidie altrimenti invincibili. Non a caso essa fu adottata soprattutto di fronte ai regimi dittatoriali; non a caso essa rappresentò, da Napoleone a Hitler, l’estremo usbergo, l’ultima difesa, spesso illusoria, contro l’autoritarismo di Stato deciso a penetrare nel foro delle convinzioni interiori. Ma nei regimi di libertà il valore di tutti gli accorgimenti e di tutti gli strumenti giuridici è più apparente che reale. Nei regimi di libertà l’ossequio delle anime conta più dell’omaggio dei potenti: il fervore dei sentimenti prevale sul fasto degli apparati.
    L’art. 7, qui, non c’entra. L’incontro fra lo spirito di religione e lo spirito di libertà – l’incontro realizzato nella lotta contro il totalitarismo e la statolatria – costituisce una garanzia più importante, e più definitiva, di tutte le canonizzazioni costituzionali. Ce lo ricorda, con la forza di un magistero intrepido, la parola postuma di Pio XI che Giovanni XXIII ha voluto farci sentire oggi, proprio trent’anni dopo i Patti Lateranensi, quasi ad ammonirci – col vigore di una religiosità adamantina – sulla perennità dei valori di fede rispetto alla contingenza delle situazioni storiche.
    “Profetate, ossa apostoliche, l’ordine, la tranquillità, la pace… profetate la prosperità, l’onore, soprattutto l’onore, di un popolo cosciente della sua dignità e responsabilità umana e cristiana”. Di un popolo dove la parola del Papa non sia soffocata, dove i vescovi non siano contrapposti ai vescovi, dove le spie non si affianchino agli onesti, dove non si confonda fra civiltà e persecuzioni, dove la Croce di Cristo non sia oscurata da altre Croci nemiche di Cristo. Grati estote.

    Giovanni Spadolini


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  2. #212
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Un pensiero per Francesco Compagna (1989)


    “Nuova Antologia”, a. CXXIV, fasc. 2169, gennaio-marzo 1989, Le Monnier, Firenze, pp. 373-375.


    Meridionalismo liberale. Così Francesco Compagna intitolò nel 1975 un’antologia di scritti curata per l’editore Ricciardi, con quei caratteri, quella copertina, quello stile, quasi nella continuazione del culto crociano in cui l’indimenticabile amico si era formato. Erano duecentotrentasei pagine precedute da una lunga introduzione. Avevo incoraggiato il vecchio compagno di battaglia a quella silloge che assume oggi, a questi sette anni dalla sua morte, il valore di una suprema testimonianza autobiografica.
    Il titolo di quel libro è stato adottato anche per un’antologia di scritti inseriti nella collezione di studi meridionali che fu fondata e diretta da Umberto Zanotti-Bianco. E siamo contenti per la diffusione che ne seguirà degli scritti di Compagna; anche se avremmo preferito che fosse ristampato in anastatica quell’antico volume programmatico nella sua secchezza, nella sua essenzialità e nella sua autenticità. E proprio in coincidenza con questa antologia degli scritti, curata da Giuseppe Ciranna e Ernesto Mazzetti, e che ha visto anche interventi di uomini lontanissimi dal paesaggio culturale e civile di Compagna, noi preferiamo in questa occasione ristampare tale e quale lo scritto che il 25 luglio del 1975, sulle colonne della “Stampa” di Torino, dedicammo alla lunga battaglia di Compagna e al suo “civile impegno meridionalista”. Nel solco di un’amicizia che durò una vita e che si concluse nella comune responsabilità di governo, egli mio più diretto collaboratore come sottosegretario alla Presidenza che funzionava da vice-presidente del Consiglio, io impegnato in quella lotta senza quartiere contro gli infiniti ostacoli che si posero al primo pentapartito, a cominciare dal terrorismo.
    Sia questo il mio saluto all’amico di sempre.

    27 febbraio 1955. Ero direttore del “Resto del Carlino” da appena una settimana. Per allargare il respiro del giornale, per immergerlo nel vivo del dibattito civile e culturale che si era inasprito con la crisi del centrismo, senza alternative a portata di mano, avevo deciso di aprire il ‘fondo’ ad autorevoli esponenti delle forze politiche, o della coalizione di governo che reggeva il paese (erano gli ultimi mesi del quadripartito S. S., Scelba-Saragat, secondo l’infamante ed ingiusta accusa del comunismo di quei tempi, così solcato da vene staliniane).
    Niente distici, niente corsivi di spiegazione o di limitazione. Sola differenza coi collaboratori regolari e qualificati del giornale, un corpo in cui era entrato da pochi giorni Alberto Ronchey; sola differenza, dicevo, il titolo del parlamentare o del ministro, in corpo di nota, sotto la firma. Il primo uomo politico che rispose all’appello fu Ugo La Malfa, non ancora leader del PRI ma già ricco delle esperienze di governo nei gabinetti Parri e De Gasperi, già impegnato in un ruolo essenziale di mediazione culturale e politica fra le forze della sinistra laica e non socialista.
    Ricordo il titolo di quel fondo di La Malfa sul “Carlino”: La penetrazione comunista nel Mezzogiorno. E ricordo che l’articolo, secco e incisivo come La Malfa sa essere, una colonna e un quarto scarsa, finiva con un elogio fervido al gruppo di “Nord e Sud”, la rivista che Francesco Compagna aveva inaugurato due mesi prima, alla fine del ’54, e che avrebbe rappresentato nel corso di oltre un ventennio la voce più autorevole e inconfondibile del meridionalismo democratico, di radice insieme crociana e salveminiana; “esile barriera”, notava La Malfa, ma da potenziare e arricchire ad ogni costo.
    Leggendo o rileggendo le belle e suggestive e talvolta malinconiche pagine sparse che Compagna ha adesso riunito sotto il titolo Meridionalismo liberale – un titolo fermo e coraggioso come fermo e coraggioso fu sempre l’impegno civile di questo vero intellettuale del Mezzogiorno – trovo un episodio inedito, dei rapporti dell’autore con Salvemini, che giustificava quell’aggettivo “esile”, poi fortunatamente smentito o almeno rettificato dal successo e dalla costanza di un fecondo ventennio. Salvemini, sempre curioso e perfino ingenuo nella sua curiosità, domanda a Compagna, alla fine del ’55, quanti abbonamenti avesse raccolto il neonato “Nord e Sud” nel Mezzogiorno. E il giovane direttore risponde “duecento”. Gesto di meraviglia e di lieto stupore del vecchio grande meridionalista: l’ “ ‘Unità’, in tutto il Sud, ne raggiunse sette”.
    Si capisce che Compagna, nella sua lunga e coerente battaglia meridionalista, ha sempre guardato a quei sette, o ai figli di quei sette lontani abbonati e sostenitori dell’impopolare e anticipatore periodico di Gaetano Salvemini. Pochi uomini di cultura, del filone laico e liberale di sinistra o repubblicano, hanno avuto come Compagna la ossessione della demagogia, l’insofferenza, quasi costituzionale e fisica, per le genericità e il pressapochismo, anche se mascherati sotto le sembianze progressiste o utopiste.
    Il suo meridionalismo, quale appare da questo volume essenzialmente autobiografico, si è nutrito di studi severi. È partito da Croce, e da una lettura decisiva di Croce (cui non a caso è dedicato il primo e fondamentale saggio, attuale e illuminante nonostante i venti e più anni che denuncia nell’anagrafe: quanti scrittori politici possono ristamparsi, rinunciando a correzioni o aggiunte, vent’anni dopo?). Ha incontrato Salvemini, senza sfuggire al confronto con Giustino Fortunato. Su una matrice storicista, ha inserito i fermenti di una cultura democratica avanzata con forte vibrazione illuminista: la cultura che si rispecchiò nell’esperienza del “Mondo”, di cui Compagna è stato uno degli interpreti più significativi e più conseguenti (lo riconosce anche Paolo Bonetti, in un libro per certi aspetti polemico o risentito, quale Il Mondo – 1949-1966 – Ragione e illusione borghese, edito di recente da Laterza).
    Queste pagine di Meridionalismo liberale sono cosparse di incontri e ormai di memorie: un Renato Giordano, un Vittorio De Caprariis, un Mario Pannunzio. C’è, in qualche momento, una vena elegiaica, un’inflessione patetica, una nota di rimpianto del “mondo perduto”, l’Italia einaudiana e degasperiana in cui Compagna si formò, avviò la sua milizia politica e quella scientifica, destinata a concludersi più tardi nell’approdo universitario della cattedra di geografia politica ed economica (anche questa una scelta rigorosa, scarna e anti-mistificatoria, preannuncio del “no” alla sbornia sociologica).
    Credo di avere avuto una qualche influenza sul vecchio amico e collega, nella decisione di raccogliere queste pagine sparse di oltre un ventennio, con analoga raccolta mia di scritti e frammenti storici dal titolo Autunno del Risorgimento. Ma non vorrei che le conclusioni fossero altrettanto pessimiste e sconsolate. Nella vigorosa introduzione a questo libro, intitolata non a caso “Senso dello Stato e senso della realtà”, Compagna squarcia i veli del futuro con maggiore fiducia di quanto, non ritenessi di fare io, delineando l’abbandono crescente degli ideali e della morale del Risorgimento, la fuga nell’irrazionale.
    E forse la battaglia meridionalista di questi democratici autentici, ostili sempre a ogni “meridionalismi di potere”, ha qualche maggiore possibilità di proiettarsi nell’incerto futuro del nostro paese se in un dibattito parlamentare, non a caso rievocato da Compagna, Giorgio Amendola ha potuto interrompere l’esponente repubblicano con queste parole: “Sento, invecchiando, il fascino del moralismo salveminiano…, che vedo convalidato dall’attuale quadro desolante”. Non vorremmo che per bocca sua parlasse solo il figlio memore e fedele di Giovanni Amendola.

    Giovanni Spadolini


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  3. #213
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Legge elettorale e polo laico riformista (1993)


    “Il Messaggero”, 20 maggio 1993



    La storia dell’Italia unita è una storia travagliata in materia elettorale. Non è vero che il collegio uninominale abbia rappresentato il punto di riferimento inalterabile del giovane Stato italiano che nasceva un secolo e mezzo fa dal guscio piemontese e si muoveva nell’ambito e nei limiti ferrei dello Statuto albertino.
    No: non è vero. Il collegio uninominale rispecchiò l’adolescenza della nazione, quell’Italia quasi infantile in cui su una popolazione sfiorante i trenta milioni di abitanti solo 600 mila avevano diritto al volo per la sola Camera – in virtù dell’educazione e del censo – e solo 300 mila partecipavano al voto stesso. Dopo la liberazione di Roma, nel 1870, toccammo il record dell’assenteismo, scendendo al 45.5 per cento di votanti.
    Eppure: bastò che le frontiere, già così sottili, della destra e della sinistra si dissolvessero con la rivoluzione parlamentare del 1876 e si allargasse il respiro della lotta politica con l’avvento della sinistra al potere perché, proprio all’alba degli anni ottanta, l’esigenza dello scrutinio di lista e di una tendenziale forma di proporzionale si imponesse al paese. Ecco la riforma elettorale del 1882, ideata da Depretis che non era certo un uomo né imprudente né impaziente: riforma elettorale che allargava a due milioni gli aventi diritto al voto (ma mai più di un milione superò la media dei votanti fino al suffragio universale maschile, cioè fino al 1913) e che durò appena dieci anni. Contestata, contrastata, discussa come era stato discusso il collegio uninominale e come sarà discusso negli anni successivi.
    Nel 1892, alle soglie dell’età giolittiana e proprio alla vigilia del primo ministero Giolitti – quello di diretta emanazione della Corona -, l’Italia tornò al collegio uninominale. La seconda adolescenza della nazione fu accompagnata dal sistema che il demiurgo Giolitti arrivò a controllare con mano anche spregiudicata e tagliente, fino ad attirarsi gli strali di “ministro della malavita” da parte di Gaetano Salvemini e fino ad alimentare una letteratura antiparlamentare capace di rivaleggiare con quella che aveva infuriato nell’ultimo ventennio del secolo precedente.
    Ci volle il 1919 e ci volle l’avvento sulla scena politica dei grandi partiti di massa, socialisti e cattolici popolari, perché la proporzionale caratterizzasse il nuovo breve corso della libertà italiana fra il ’19 e il ’22. Nettamente osteggiata da Giolitti; combattuta dalla vecchia classe dirigente liberale che non sapeva muoversi al di fuori dell’aspirazione maggioritaria; ma in ogni caso tale – Gobetti lo capì meglio di ogni altro – da alimentare un minimo di dialettica nei partiti, quella dialettica che poi riesploderà vigorosa e trasformatrice all’indomani della lunga parentesi fascista, nel clima della liberazione.
    La legislazione elettorale in Italia, quindi, ha sempre assecondato e seguito la lotta politica. La mancanza di un’alternativa netta – quella che ha impedito il bipolarismo di tipo anglosassone sia durante l’età depretisiana e giolittiana sia durante l’età degasperiana e morotea – quella mancanza di alternative non fu certo interrotta dal ritorno al collegio uninominale nel 1892 e dalla sua permanenza per oltre un ventennio.
    Ora che siamo di fronte ad una nuova svolta importante nella storia italiana dobbiamo ricordare che il sistema maggioritario, scelto dal popolo italiano in via referendaria per il Senato e, indirettamente, per la Camera, è qualcosa che non può esaurirsi nella meccanica della riforma ma deve estendersi ad una riarticolazione e ricostruzione dei partiti. Secondo uno schema capace di realizzare grandi aggregazioni e di nutrire una dialettica politica per il futuro della nazione del tutto diversa da quella che ha retto il passato, in funzione anti-partitocratica. Maggioranza netta; opposizione netta. Stabilità del governo, e massima autorità del Parlamento. Bisogna avere il coraggio di riconoscerlo. Il sistema delle coalizioni che ha rappresentato la grandezza dell’Italia degasperiana e il tormento dell’Italia morotea è ormai finito da alcuni anni. Si era consumato e logorato in una costante incapacità di creare le condizioni di una democrazia fondata sul ricambio, un fallimento altrettanto costante della rottura – da tutti auspicata a parole ma mai realizzata nei fatti – del cosiddetto consociativismo (un termine al quale noi ricorriamo pochissimo perché se ne è fatto uso ed abuso, al di là del lecito).
    L’unico che aveva capito la necessità dell’alternanza e che pagò questa intuizione con la vita fu Aldo Moro. Inserendo i comunisti di allora, già impegnati nel profondo processo di trasformazione impostato da Berlinguer, nella maggioranza parlamentare, e sottilmente distinguendo la maggioranza parlamentare da quella di governo, Moro aveva avviato un processo di ricomposizione delle forze politiche che le Brigate rosse riuscirono a spezzare (non si saprà mai con quali complicità e con quali adesioni, anche di segno opposto).
    Gli anni dopo Moro costituiscono gli anni della ricerca di un punto di equilibrio fra l’emergenza che perdurava e la solidarietà che non c’era più. Emergenza senza solidarietà: come la chiamai io all’inizio degli anni ottanta, in coincidenza con uno di quegli esperimenti di governo.
    E il logorio della formula di coalizione e la sua interna disgregazione aggravarono i mali che già avevano caratterizzato gli anni successivi al 1970: l’elefantiasi dei partiti, il loro sconfinamento nella vita civile, la vasta mappa della corruzione che per tanta parte coincide con gli ultimi dieci anni, e forse meno.
    L’istanza della riforma del sistema elettorale, espressa nei referendum, è nata dal “no” a tale processo degenerativo e dalla certezza che il mutamento del sistema elettorale servisse al mutamento del sistema politico e creasse le condizioni per l’alternanza. Cioè per un sistema bipolare o tripolare o comunque tale da consentire il ricambio fra governo ed opposizione, fra forze moderate e forze di sinistra.
    Oggi è tutto più difficile perché la parola destra e la parola sinistra non hanno più il valore che avevano una volta e non segnano neanche più nettamente i confini. E c’è un affollamento a sinistra che rischia di lasciare sguarnito il centro.
    È un tema delicato che si pone all’attenzione di tutti i partiti. Nessuno può restare quello che era prima. Ma la verifica del cambiamento è legata ad un’impostazione programmatica e ideale che non può essere disponibilità a tutto, che deve tenere fermi alcuni convincimenti e alcuni princìpi. Le confluenze referendarie non bastano, di fronte alle scelte politiche.
    Le aree sono quelle che sono: i cattolici, il Pds, la Lega. Ma c’è tutta un’area di democrazia laica e riformista che non si è potuta mai esprimere compiutamente nel regime proporzionale del dopoguerra per le correzioni o per i freni che le emergenze internazionali hanno via via apportato all’esplicazione globale del proprio pensiero. Oggi si tratta di individuare un punto che consenta a quelli che erano i seguaci della terza forza di una volta di ritrovarsi nel segno del nuovo, col sistema maggioritario, in uno schieramento che possa determinare i futuri equilibri del sistema parlamentare corretto.
    Una volta parlai di “partito della democrazia”. Le formule cui si guarda adesso non sono troppo lontane.

    Giovanni Spadolini


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  4. #214
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Dieci anni (1956)

    di Giovanni Spadolini – “Il Resto del Carlino”, 2 giugno 1956


    A dieci anni dall’avvento della Repubblica, la mente risale ai mesi travagliati difficili in cui si operò il trapasso istituzionale. Solo ripercorrendo a ritroso il cammino di questo decennio, è possibile misurare in tutta la loro estensione gli ostacoli che sono stati superati, le difficoltà che son state rimosse, gli obiettivi che sono stati raggiunti.
    Dieci anni fa, gravi ombre si addensavano sul paese. La penetrazione comunista era giunta al massimo in tutti i gangli della vita dello Stato, attraverso la partecipazione del PCI ai ministeri di coalizione, che aveva servito soltanto a praticare la politica del “doppio binario”, cioè l’agitazione sistematica nelle piazze e l’apparente corresponsabilità degli atti di governo. Gli ideali della Resistenza, che pur avevano fuso forze tanto diverse, che pur avevano legato liberali e cattolici, uomini di destra e di sinistra, stavano per essere monopolizzati e usurpati dal gruppo comunista, nel tentativo di giustificare la conquista del potere. Si era ancora lontani dal giorno della scissione socialista, e tutte le grandi speranze alimentate dal ritorno degli ideali di Turati e di Treves (che pur suscitavano vasti consensi nella stessa borghesia) si urtavano contro la dura realtà del “patto di unità d’azione”, contro la minaccia di un “fronte popolare”. La Democrazia Cristiana faceva difficoltà ad inserirsi nella realtà, così diversa e complessa, del nuovo Stato italiano ed era dilacerata dalla sua doppia anima, di ritorno al partito popolare da un lato, di ansia di rinnovamento dall’altro.
    I partiti storici dello Stato italiano apparivano tutti in una crisi profonda che invano l’unità legale dei CLN si sforzava d nascondere; e il più esposto ai pericoli della situazione era senza dubbio il partito liberale, in cui si era riassunta la tradizione monarchica, la tradizione della Monarchia del 20 settembre, la tradizione di quella Monarchia nazionale e laica, che sembrava a molti come l’estremo residuo giacobino, come l’ultimo cemento unitario.
    Le conseguenze della disfatta si facevano sentire in tutto il paese; la minaccia del regionalismo batteva alle porte; i corpi organici dello Stato, dalla Magistratura all’Esercito, erano tutti in crisi, ed in crisi appariva quel complesso di valori morali, quella tavola di princìpi ideali, che avevano retto lo Stato italiano dal Risorgimento fino all’usurpazione totalitaria.
    In quella situazione storica, aggravata dai residui della guerra civile, la crisi istituzionale poteva aprire la strada ad esperienze pericolosissime, poteva facilitare la disgregazione dell’unità nazionale. Se tali rischi furono scongiurati, se la Repubblica, al contrario, poté in breve tempo consolidarsi e sanare tutte le lacerazioni del passato, ciò avvenne in virtù dell’opera di un gruppo di uomini e di partiti, che ha impresso il suo segno incancellabile alla ricostruzione italiana.
    È quello il gruppo di uomini e di partiti che ha dato vita alla politica di centro – sanzionata proprio in questi giorni, e non senza significato, dal corpo elettorale -. Raccogliendo un’eredità di lutti e di rovine, quella pattuglia di uomini riuscì a sollevare l’Italia dalle strette e dalle umiliazioni del “diktat”, a reinserire il nostro paese nel circolo della vita internazionale, a restaurare l’unità dello Stato insidiata da tante forze centrifughe e separatiste, a fugare la spaventosa ombra dell’inflazione, a ricostruire le basi dell’economia nazionale sconvolta e dissestata, a neutralizzare la minaccia dei nuovi totalitarismi che si affacciavano all’orizzonte.
    Fu attraverso quella politica, coraggiosa e talvolta temeraria, che si riuscì a liquidare l’ipoteca comunista sul governo, ad allontanare il PCI dai ministeri di coalizione, a ricostituire l’ordine, la polizia, la Magistratura, in una parola l’unità, e la dignità dello Stato: presupposti per la grande vittoria del 18 aprile. E fu sempre attraverso quella politica che la democrazia poté passare dalla difensiva all’offensiva, poté impostare quei piani organici di riforma e di rinnovamento che dettero un volto nuovo al Mezzogiorno, che alimentarono la rinascita economica, che consentirono la formazione di nuovi ceti sociali.
    Ad un certo punto apparve chiaro, agli stessi monarchici leali e conseguenti, come la Repubblica offrisse ai partiti di democrazia una piattaforma di intesa contro il totalitarismo comunista, che andava al di là di ogni necessità di compromesso. In quello spirito nacque la coalizione democratica, che neppure il 7 giugno riuscì a spezzare e che si è rivelata più forte di tutte le tendenze di rottura e di separazione. Perché? Per una ragione che va al di là di ogni interesse e di ogni calcolo politico: in quanto la lega dei partiti democratici è venuta, ad un certo momento, ad assumere in sé il carattere di un fondamento necessario e quasi “istituzionale” allo Stato repubblicano, contro la doppia offensiva di sinistra e di destra, contro l’urto concentrico e spesso coordinato delle forze totalitarie.
    Da quel fondamento la Repubblica non potrà prescindere neppure nei prossimi anni. Incapace di reggersi su una sola assise guelfa e cattolica, per ragioni che si collegano alla stessa logica dello Stato italiano, la Repubblica non può fare a meno di quelle forze liberali, democratiche e laiche, che rappresentano insieme una garanzia del passato e un impegno per l’avvenire. È una sintesi necessaria, al di là di ogni integralismo, al di là di ogni esclusivismo.

    Giovanni Spadolini


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  5. #215
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Quel primo numero della “Nazione” (1989)

    di Giovanni Spadolini – Articolo pubblicato da “La Nazione”, nel supplemento per il 130° anniversario della nascita del giornale [luglio 1989].


    Centotrent’anni. Sono gli stessi dell’unità nazionale, avviata nel 1859 anche se completata nel 1861. E nessuna testata di giornale si identificherà così intimamente con la genesi di uno Stato nazionale.
    L’Italia non sarebbe diventata nazione senza lo sbarramento che la forza d’animo di Ricasoli – fondatore e animatore della “Nazione” – oppose al Regno dell’Alta Italia, regno italico di napoleonica memoria, inserendo il nesso toscano nel nesso nazionale e rompendo il confine degli Appennini. “La Nazione” fu il segno predestinato di quello sbarramento. Nel luglio 1859 l’Italia come Stato nazionale e unitario era un sogno che si accingeva a diventare realtà, che veniva consacrato realtà prima di esserlo.
    Storia d’Italia e storia di Firenze si intrecciano, nel graduale passaggio dal giornalismo politico d’opinione di risorgimentale memoria al giornalismo di informazione. Qualche centinaio di copie all’inizio (si toccherà la cifra record di tremila all’inizio degli anni settanta, cioè alla fine del quinquennio di Firenze capitale), circa trecentomila oggi: quasi un simbolo dell’Italia che cresce.
    Ho raccontato nelle mie pagine su Firenze capitale quella straordinaria notte in cui Bettino Ricasoli, ministro dell’Interno ma in realtà dittatore di Toscana, decise la nascita di un quotidiano, per l’indomani, dopo che per settimane si era opposto alla analoga richiesta degli amici fiorentini, Carlo Fenzi, Leopoldo Cempini, Piero Puccioni.
    È il 13 luglio 1859. Siamo nel vivo della guerra di indipendenza, ma tutto in poche ore sembra precipitare e cambiare. È appena giunta la notizia degli accordi di Villafranca, che arrestano la guerra franco-piemontese alla Lombardia con la rinuncia alla liberazione del Veneto; Ricasoli è infuriato non meno di Cavour che a Monzanbano ha insolentito il Re e rassegnato le dimissioni. Grava l’ombra della restaurazione dei sovrani spodestati, la meta dell’unità nazionale sotto il Re Galantuomo, Vittorio Emanuele, sembra dileguarsi.
    Ricasoli non è Cavour. La sua reazione è diversa, è per la immediata battaglia, l’immediato rifiuto. Occorre un quotidiano politico, per far capire alle cancellerie europee che la Toscana è ferma nel rivendicare il diritto di autodecisione (nel rispetto del voto di annessione al Regno di Sardegna), nel tenere sollevati gli animi recando ai patrioti fiorentini e toscani una parola di fede e di speranza.
    Tutto è improvvisato, per avere il primo numero del nuovo quotidiano, dodici ore dopo averne deciso la nascita.
    Il titolo lo decide Ricasoli: “La Nazione”, la nazione come fatto acquisito della coscienza italiana, come punto di partenza irrevocabile. Per le notizie, Ricasoli offre i giornali che ha sul tavolo (“Gazzetta di Genova”, “L’opinione”, “Siècle”) e invita gli amici a usare le forbici, per riempire quel foglio programmato, nelle parti non occupate dall’articolo di fondo, dall’articolo politico, il solo che al leader dei moderati toscani veramente interessi.
    Quell’articolo verrà affidato a Alessandro D’Ancona, che sarà di lì a poco direttore politico del giornale, retto per meno di un mese da Leopoldo Cempini.
    Stampatore, il tipografo Gaspero Barbèra, l’editore della “Biblioteca civile dell’Italiano”, patriota convinto, artigiano piemontese formatosi a Firenze, sensibile ad ogni voce di libertà e di unità. E là, nella sua tipografia, in fondo a Via Faenza, non lontano dalla Fortezza da Basso, si reca Bettino Ricasoli, in persona, la mattina alle 5,30, per leggere il pezzo di D’Ancona, per impartire le ultime disposizioni, per imporre l’uscita del “mezzo foglio” per le dieci in punto del mattino.
    Ci sarà. Per cinque giorni “La Nazione” fu pubblicata in quel patetico mezzo foglio, improvvisata con l’entusiasmo di pochi redattori volontari, di pochissimi tipografi volontari: senza neppur indicazione di prezzo, senza nome di gerenti o di responsabili. Solo il 19 luglio comparirà il n. 1, il primo numero ufficiale della serie. Sotto il tiolo una breve dicitura: “giornale politico quotidiano”. Dopo il settembre, fino a tutto il 1860, quasi a non lasciare dubbi sul programma: uno scudo sabaudo sovrastante la testata.
    Quotidiano di Firenze, non di “Firenzina”: niente di provinciale, di nostalgico, di municipale. La prima battaglia, prima di un secolo e mezzo di battaglie e di storia, quella per l’unità nazionale, per un’Italia destinata a protendersi dalle Alpi alla Sicilia.
    Tutto qui. Il grande giornale della Destra toscana, il giornale che doveva assecondare le battaglie del primo e del secondo ministero Ricasoli, il giornale che doveva avallare i progetti per la libertà della Chiesa e sanzionare il ritorno di Venezia all’Italia, nacque senza capitali, senza una propria redazione, senza una propria tipografia: per un solo slancio di cuore, per un solo moto irresistibile della coscienza liberale toscana decisa a trovare a tutti i costi le strade per imporre i propri ideali e per far trionfare le proprie scelte.
    Ideali di unità, di indipendenza, di libertà, secondo il programma di Cavour. Libertà economica e amministrativa, piena e assoluta libertà di coscienza, libertà politica col solo limite del rispetto dell’ordine pubblico. Una linea cui il giornale ha cercato di mantenersi fedele, accompagnando nelle varie epoche, dall’unità ad oggi, la crescita, non facile e talora tumultuosa, del paese.
    Le varie stagioni della vita italiana, rievocate in queste pagine secondo una distinzione cronologica documentano a dovere il ruolo e la presenza del quotidiano nella società del tempo.
    Rivivono in quelle pagine i grandi temi e problemi dello Stato unitario e post-unitario, i complessi rapporti fra Stato e Chiesa, la ricerca di un adeguato ruolo dell’Italia nel contesto delle nazioni europee, l’attesa di rinnovamento che accompagnò la rivoluzione parlamentare del 1876 e l’avvento della Sinistra al potere, le preoccupazioni e i timori della borghesia di fine secolo davanti ai primi scioperi, alle agitazioni sociali, lo scetticismo davanti alle “aperture” giolittiane, di cui si seppero cogliere gli aspetti negativi più che quelli positivi (come del resto accadde al maggior quotidiano del periodo, il “Corriere della Sera” di Luigi Albertini), le inquietudini della guerra e del dopoguerra, gli anni bui del fascismo e del regime totalitario.
    E il secondo risorgimento, quello che nasce dalla resistenza e dalla lotta di liberazione, fino alla Costituente e alla Repubblica, questa Repubblica. Alla fedeltà all’antico liberalismo si aggiunge la fede nella democrazia, “non per adeguamento a contingenti opportunità”, come scriveva l’indimenticabile amico Nino Valeri, ma come riconoscimento, appunto, della maturazione avvenuta in centotrent’anni di storia della “coscienza politica” del popolo italiano. La nostra società è cambiata per tenore di vita, per livelli di vita, per costumi e per cultura, nel quarantennio della Repubblica – ricorda Giorgio Amendola – più di quanto sia accaduto nei quasi duemila anni che hanno seguito l’avvento del cristianesimo.

    Giovanni Spadolini


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  6. #216
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    Il Mazzini di De Sanctis (1952)

    “Il Messaggero”, 27 febbraio 1952

    “Il Mosè dell’unità”: giudicò Mazzini Francesco De Sanctis, concludendo il suo ciclo di lezioni sull’agitatore genovese all’università di Napoli, nel 1874. Al pari di Mosè “intravide la terra promessa, ma non ci entrò lui; ci entrò Giosuè”: nel caso concreto la Monarchia piemontese che aveva avuto un maggiore rispetto delle “leggi storiche e naturali” e aveva calato il programma dell’indipendenza nella realtà delle forze e degli equilibri politici, in quella sola realtà che aveva consentito le campagne del 20 settembre. Profeta e, meglio che profeta, “precursore”, “uno dei tanti uomini di valore – preciserà il rigoroso e storicista De Sanctis – i quali, chi in un modo, chi in un altro, chi con maggiore, chi con minore efficacia scrivono alcune linee dell’avvenire, credendo che la pagina sarà compiuta secondo quelle linee”; ma poi si trovano di fronte alla “storia fatta per altre vie e per altri mezzi” e vi cozzano contro con tutto il vigore dell’animo offeso (la presa di Roma, che commuoverà De Sanctis sembrerà a Mazzini una “profanazione”).
    Non qualità di politico gli riconosceva lo storico della letteratura, neppure doti di pensatore, a riguardare nel complesso delle sue dottrine così incoerenti, composite e frammentarie: creatore di formule, suscitatore di miti, animatore di passioni collettive sì, e particolarmente nel periodo fra il ’30 e il ’48, in quanto aveva saputo vivere lo spirito del tempo, legare la sua azione alle esigenze dei ceti più progressivi della società italiana. Azione che era stata rivoluzionaria, che era stata trasformatrice, in quanto aveva gettato le sue radici in un terreno “storico”, e non mitologico o ideologico, in quanto aveva incontrato le speranze e le inquietudini della borghesia post napoleonica, in quanto era arrivata a trascendere gli schemi dottrinari nella realtà dell’azione nel vivo della lotta, che corregge tutte le impostazioni astratte e santifica l’errore.
    Agitatore quindi, ma non riformatore religioso, inventore di formule, ma non iniziatore di una nuova rivoluzione delle coscienze, eccitatore di energie, ma non fondatore di stati: ecco i precisi confini che per primo De Sanctis definisce e puntualizza, indagando il pensiero di Mazzini, studiandone la vita, collegandone gli scritti con l’apostolato e la cospirazione, nelle bellissime pagine che ora vengono ripubblicate nel XII volume, e primo in ordine di tempo, delle Opere complete di Einaudi (un’iniziativa degna di ogni elogio, per lo scrupolo ideologico, l’obiettività dell’impostazione, l’attenzione critica che la distingue: ne è prova questo Mazzini e la scuola democratica, curato da Carlo Muscetta e Giorgio Candeloro). Le lezioni su Mazzini e quelle su Rossetti, su Colletta, su Berchet e su Niccolini non sono raccolte a caso nello stesso volume, non sono legate solo esteriormente nel quadro dell’ “opera omnia”: quali che siano stati i rapporti fra i vari protagonisti, De Sanctis sentiva come quei pensatori e artisti tanto diversi si trovassero sul piano di quella che egli chiamava la “scuola democratica”, la visione democratica della vita.
    Scuola liberale e democratica: ecco la grande divisione a cui De Sanctis ricorre ad apertura del suo corso (e si spiega perché quella distinzione sia rimasta così ferma e viva in Benedetto Croce). La prima tendenza storicistica, romantica, conciliatrice, che guardi al “vero”, che parla con stile asciutto e disadorno, che fissa i suoi occhi nel Medioevo cristiano e comunale, portata ad accettare le gerarchie esistenti, ad assumersi i pesi della tradizione, ad accettare gli insegnamenti del passato, volta a conciliare cattolicesimo e idee moderne, classi ricche e plebi, dinastie e popolo; la seconda tendenza invece razionalistica, classicistica, non priva di accentuazioni giacobine, che guarda all’ideale, che parla con linguaggio paludato e artificioso, che spazia negli orizzonti del mondo greco-romano, incline a rifiutare il mondo di oggi, a restringere i privilegi consacrati, a postulare una società diversa, una umanità migliore.
    A questa corrente, che si colora diversamente nei poeti, nei filosofi, nei politici, Mazzini conferisce un’importanza particolare con la sua posizione religiosa, con la sua polemica anticattolica, col suo sogno di una rinnovazione spiritualista: in quel disperato desiderio – dirà con mirabile evidenza il De Sanctis – di tramandare il Dio reazionario in Dio rivoluzionario, il “Dio dei tiranni”, in “Dio liberale e progressista”.
    In realtà, quel che De Sanctis, con sicuro senso storico, rimprovera a Mazzini non è tanto e quanto la scarsa originalità delle formule, la mancanza di novità, quanto la inefficacia sostanziale, agitarsi “nel vago e nell’indefinito”, e non su “organismi concreti”, quell’operare delle astrazioni che hanno il precedente delle fedi trascinatrici, che non si identificano col corso dei sentimenti collettivi. Né De Sanctis giudicherà sufficiente il calcolo contingente, l’impulso occasionale, il desiderio “di affrettare l’unità nazionale”: che è a suo modo “instrumentum regni”, “arma politica”, condizione per mantenere l’Italia nell’altalena fra “paganesimo” e “ipocrisia”, fra la superstizione delle classi basse e l’immoralità delle alte.
    Laddove Mazzini fu grande – e De Sanctis non esita a riconoscerlo – è in quelle formule di morale collettiva, che valsero più di mille battaglie vinte, che rappresentarono un fermento potente per la gioventù italiana, uno stimolo incomparabile a congiungere l’azione col pensiero, a superare la divisione e la lacerazione ereditata dalla Controriforma. “Pensare e operare, la vita è dovere, il dovere è sacrificio”: l’etica del mazzinianesimo, la sua “mirabile coerenza”, apparirà al maestro di Napoli come un’autentica rivoluzione nel costume italiano. Rivoluzione che non si legava a una riforma religiosa, neppure a un successo politico, ma che sulle spoglie di parecchie sconfitte configurava valori nuovi, destinati a operare largamente nello stesso campo del liberalismo, ad allargarne le prospettive e il respiro.
    Non a caso, quando De Sanctis teneva queste lezioni, il suo sogno era quello di costituire una “Sinistra giovane”, costituzionale, riformatrice, progressista, che evitasse la spostamento verso il socialismo, che riprendesse l’esperienza incompiuta del Risorgimento. Nella quale “Sinistra” l’insegnamento di Mazzini avrebbe avuto gran peso.

    Giovanni Spadolini


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  7. #217
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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    [Gaetano Salvemini], l’anti-Giolitti (1957)


    “Il Resto del Carlino”, 7 settembre 1957


    “Il ministro della malavita”. Più che a tutte le sue opere storiche, più che a tutte le sue indagini sulla Firenze medievale o sul pensiero di Mazzini, più che alla stessa eccellente e fortunata sintesi sulla Rivoluzione francese, Gaetano Salvemini dovette per anni e anni la sua popolarità a questo rarissimo e pressoché introvabile opuscolo della “Voce” prezzoliniana, a questo singolare e appassionato “pamphlet” di lotta politica ed elettorale.
    Non molti furono, alla vigilia della guerra, i lettori del saggio salveminiano (gran parte del quale era del resto assorbito da un’accurata e puntigliosa documentazione dei metodi elettorali impiegati contro la sua candidatura in un collegio della Puglia). Ma quella definizione icastica e incisiva, “il ministro della malavita”, ebbe largo corso in Italia e servì ad alimentare infinite polemiche di stampa e di opinione e riflesse tutto uno stato d’animo, di insofferenza e di critica largamente condiviso dalle giovani generazioni. Quando scoppiò la tempesta dell’interventismo, quando le legioni della democrazia di sinistra (e di destra!) si ritrovarono nel comune odio al metodo giolittiano e al “parecchio” dell’uomo di Dronero, l’immagine di Salvemini servì a rispecchiare perfettamente quell’esasperazione, spesso irrazionale e immotivata, che si concluse nell’impiccagione in effige del grande ministro sul corso di via Vittorio Veneto a Roma, sotto l’eco della sferzante e risonante oratoria dannunziana.
    Il professore di storia dell’università di Firenze, il fondatore dell’Unità e il critico del vecchio socialismo utopistico, l’autore del mirabile saggio sui “Magnati e popolani” e l’infaticabile apostolo delle plebi meridionali, si ritrovò allora a fianco degli uomini che avrebbe dovuto poi combattere fermamente e implacabilmente dopo la guerra e il fascismo, si vide sfruttato e utilizzato dai seguaci dei nuovi miti nazionalisti e imperialisti destinati a preparare l’avvento della dittatura. Fu quello il più grave (ma non il solo) equivoco che doveva scaturire dall’ “antigiolittismo” oltranzista di cui Salvemini si era fatto portatore ed interprete; e solo i lunghi ed amari anni dell’esilio americano dovevano spingere successivamente l’insigne storico pugliese a rivedere i suoi giudizi, a rielaborare e in certi casi a moderare le sue prospettive di condanna dell’Italia giolittiana e prefascista, dell’ “Italia della malavita”.
    Ma fino a che punto? Quando uscì nell’immediato dopoguerra un libro sull’età giolittiana dovuto ad un giovane allievo italo-americano dell’esule d’America, il Salomone, e a cui il maestro aveva dettato una viva e fervida prefazione, molti gridarono alla “conversione” di Salvemini, molti videro in quelle pagine una abiura dell’antico opuscolo vociano alla luce della tragica esperienza totalitaria sotto l’influenza di un profondo e accorato ripensamento della storia italiana.
    Era un’impressione superficiale e fallace. L’uomo che è scomparso ieri a Sorrento dopo una lunga e tenace battaglia contro la morte ebbe fra le sue doti dominanti una coerenza spinta all’ostinazione, una fedeltà talvolta temeraria alle proprie posizioni politiche e alle proprie intransigenze polemiche.
    Bastarono pochi anni perché l’impressione – forse dovuta a un cambiamento di toni e di accenti – fosse corretta dallo stesso autore. In una conferenza tenuta a Torino nel maggio del 1950, Gaetano Salvemini riprese i temi della sua antica polemica contro il giolittismo e a tutti i difensori dello statista di Dronero oppose quel motto che sarebbe uscito dalla bocca dello stesso Giolitti: “Hanno ragione, sì, i miei oppositori, ma hanno ragione proprio come si avrebbe ragione biasimando un sarto che ha tagliato un vestito per un gobbo”. “Cavour – aggiungeva Salvemini – lasciò dietro a sé meno gobbi di quanto ne aveva trovati, mentre Giolitti ne aumentò il numero”.
    In una serie di articoli sul Ponte di Firenze, l’instancabile storico tornato alla sua vecchia cattedra dell’università di Firenze, partiva da un altro e ancor più singolare episodio al fine di stabilire una specie di “equazione” fra giolittismo e fascismo.
    Il 16 marzo 1928, l’ultima volta che Giolitti parlò alla Camera per opporsi alla riforma elettorale del regime fascista, Mussolini l’aveva interrotto apostrofandolo duramente: “Già, verremo da lei a imparare a fare le elezioni”. Al che il vecchio statista, con l’imperturbabile calma e l’inflessibile dignità che lo distinguevano, aveva ribattuto seccamente: “Lei è troppo modesto. Io non mi sono mai sognato di avere una Camera come la sua”. Il parallelo del dittatore serviva all’antifascista di sempre per rinnovare le antiche accuse al “ministro della malavita”, in uno stile che non era più quello dell’opuscolo della Voce, che non aveva più le asprezze e le violenza di un tempo, ma era sempre martellato, incisivo, apodittico. “Fu l’Italia prefascista una democrazia?” si domandava Salvemini ed arrivava alla conclusione che Giolitti sta a Mussolini come Giovanni il battezzatore a Cristo, che la differenza fra i metodi elettorali dei due è in quantità piuttosto che in qualità, che la tesi di Gobetti non è stata smentita dal tempo, e il mutamento sostanziale fra il regime fascista e il regime giolittiano consiste nell’aver esteso a tutta l’Italia il sistema dei “mazzieri”.
    Era una tesi legittima quella di Salvemini? O la passione delle antiche lotte politiche faceva velo al giudizio dello storico in cui la “vis” polemica rappresentava un abito mentale e quasi una ragione di vita? È questo il quesito che ha dominato la giovane storiografia italiana negli anni dalla liberazione ad oggi ed ha trovato una risposta assai diversa da quella che avrebbe potuto sperare l’autore dell’opuscolo sul “Ministro della malavita” mai riconciliatosi con lo statista piemontese.
    Lontana dalle passioni contemporanee, che spiegano le intemperanze polemiche così come le indulgenze agiografiche, la nuova corrente storiografica di fondamentale ispirazione democratico-liberale ricongiunge la esperienza di Giolitti ai dati costitutivi della società italiana, inquadra il suo “trasformismo” nella cornice dei partiti post-risorgimentali, non dimentica di collegare l’opera dello statista a quella delle forze dominanti nella vita del nostro paese, Monarchia, Chiesa, organizzazioni economiche, non trascura neppure le incidenze delle situazioni e delle stratificazioni di classe sui concreti indirizzi riformatori e di politica sociale.
    Un esempio? A coloro che rimproverano a Giolitti di aver impedito la costituzione di un forte ed efficiente partito liberale, si risponde da quella parte come il problema sia storicamente mal posto, come i “se” non abbiamo diritto di cittadinanza nella storia, come sia impossibile pensare a un Giolitti di tipo Salvemini o di tipo Corradini, come la caratteristica distintiva e peculiare del giolittismo sia da ricercare anzi in quell’empirismo spregiudicato e costruttivo che consentiva i più ricchi e fecondi fermenti di vita, che lasciava a tutte le forze il modo di esplicarsi e di articolarsi liberamente. Un sistema organizzato, ben definito, che avesse richiesto il concorso di tutte le forze liberali e tagliato in due il paese, non avrebbe forse isterilito quello spontaneo impulso di vita che accompagnò i primi quindici anni del secolo? Non rappresentava forse, il giolittismo, l’abbandono della tradizione crispina, il superamento delle ultime inquietudini risorgimentali?
    Gli stessi progressi decisivi di quel periodo non sarebbero stati possibili senza la rinuncia alle cristallizzazioni storiche del post-Risorgimento: né la conciliazione con le classi operaie, né il rinnovamento economico, né il suffragio universale. Certo qualcosa si perdeva (ed è la più fondata osservazione del filone salveminiano in singolare consonanza con quello albertiniano e liberale conservatore) che era quel costume della Destra storica, quel senso severo e austero della vita politica, quella coscienza segreta ed esclusiva dei “valori quiritari”, quello spirito religioso e intransigente che aveva caratterizzato le classi dell’unità. Ma Giolitti era il responsabile di quel tramonto, o non ne era piuttosto l’interprete avveduto e responsabile?
    Senza contare che, a sua volta, Giolitti evocava altri valori, portava con sé una certa visione della vita, che era più disadorna, più scarna, meno affascinante, forse meno ricca di quella dei Minghetti o dei Ricasoli, ma che avrebbe potuto costituire egualmente un valido titolo di legittimità per un paese moderno, per uno Stato che si fosse accinto ad affrontare i suoi problemi storici, a conciliarsi con le grandi forze di reazione al Risorgimento, socialisti e cattolici. Ricordate il “ritorno a Giolitti” che caratterizzò un certo gruppo di letterati e studiosi italiani, nell’altro dopoguerra? Ricordate gli articoli di Burzio, di Ambrosini, di Salvatorelli, di Pareto, di Bacchelli?
    Incapace di scrivere un discorso alla Salandra, Giolitti non avrebbe mai confuso, come capita talvolta agli esponenti della Destra, fra patriottismo e dannunzianesimo, fra conservazione democratica e sovversivismo reazionario. “Ogni nullatenente che diventa proprietario è un difensore dell’ordine”: è il testo di un suo pensiero, che nasconde forse la segreta chiave della sua azione di governo. Massima di perfetto conservatorismo, che si sarebbe perfettamente adeguata a quelle plebi del Mezzogiorno per le quali tanto si batté Gaetano Salvemini. Quasi a rappresentare il punto d’incontro – che in vita non fu mai possibile – fra il moralista e il politico, fra lo storico della Rivoluzione francese e lo statista del riformismo liberale del primo decennio del Novecento.

    Giovanni Spadolini

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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    La riforma elettorale non è fine a se stessa (1993)

    “La Stampa”, 26 maggio 1993


    “Ho l’impressione che non ci si metterà d’accordo sulla riforma elettorale”. Sono parole di Norberto Bobbio, al Salone torinese del libro e poi ripetute nel dibattito con Napolitano all’Università.
    Vorremmo non condividere il pessimismo del nostro grande amico e collega. L’alternativa alla riforma della legge elettorale è di fatto una sola: le elezioni politiche anticipate ad ottobre, in un clima di sfacelo e di disintegrazione, con il sistema maggioritario per il Senato, ormai consacrato dal voto referendario, e la vecchia legge proporzionale per la Camera, preservata solo dalla colpevole inadempienza delle forze politiche.
    Fui il primo a formulare l’ipotesi nel novembre scorso, al congresso repubblicano di Carrara. E fui ripreso, attaccato, ammonito o redarguito da varie parti. Allora avevo parlato di una spirale tipo Weimar; e subito il leader leghista, Bossi, mi accusò di ignorare o violentare la storia.
    In realtà l’alternativa è così anomala e così assurda da costituire il più forte deterrente a favore di una soluzione coordinata fra Senato e Camera e di una consultazione elettorale, anche anticipata, ma tale da tener conto del tempo necessario per la ripartizione razionale dei collegi sia a Palazzo Madama sia a Montecitorio.
    Fra i due presidenti, di Camera e Senato, esiste una perfetta intesa procedurale sui tempi e sui modi. Il Senato preparerà il testo della normativa per la Camera alta, ispirato al voto popolare che fissa il rapporto fra la quota proporzionale e la selezione maggioritaria (un rapporto del 25 per cento che può essere certamente calato nelle disposizioni di legge). La Camera elaborerà il testo per Montecitorio, sulla base del lavoro, già avviato, della Commissione Affari Costituzionali e di quello che fu anche il lavoro istruttorio e preparatorio della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Ma i due uffici di Presidenza delle rispettive Commissioni permanenti di Camera e Senato avvieranno contatti periodici, a partire da oggi martedì, scambieranno esperienze, punti di vista, possibili soluzioni. In vista di accorciare i tempi.
    A metà giugno potrebbe essere pronto per l’aula di Montecitorio il testo della riforma elettorale della Camera; per la terza decade di giugno il testo degli adempimenti referendari, con qualche integrazione, per l’aula del Senato. Sbocco terminale del duplice lavoro: i primi di agosto. Non si impone un’identità assoluta fra Camera e Senato. Occorre individuare una forma di raccordo organico, secondo la logica del bicameralismo, con due rami del Parlamento entrambi di investitura popolare ed entrambi coinvolti nel processo formativo della fiducia. Con quelle differenze che la “base regionale” del Senato, consacrata dalla Costituzione, consiglierà.
    La riforma elettorale non è in nessun caso fine a se stessa. Non si esaurisce minimamente in operazioni di ingegneria istituzionale. Essa parte da un processo di erosione e di disgregazione dei partiti, che è all’origine delle sventure nazionali (e la proporzionale ha favorito l’espansione del cancro della partitocrazia, e quindi della tangentocrazia). E punta, attraverso i meccanismi elettorali scelti, al mutamento del sistema politico e quindi alla creazione delle condizioni per l’alternanza. Cioè per un sistema bipolare o tripolare o comunque tale da consentire il ricambio fra governo e opposizione, fra forze moderate e forze di sinistra.
    Il modello, che scaturirà dalle scelte del Parlamento, potrà non essere perfetto. Potrà aver bisogno di correzioni e rettifiche con l’aiuto dell’esperienza. Non sarà un testo definitivo né ne varietur. La stessa esperienza della quinta Repubblica francese, cui si richiamano i fautori del doppio turno, dimostra quanti adeguamenti e ripensamenti siano stati necessari nell’iter costituzionale della nazione vicina.
    Una cosa è certa: il sistema maggioritario scelto dal popolo italiano in via referendaria per il Senato e, indirettamente, per la Camera, è qualcosa che non può esaurirsi nella meccanica della riforma ma deve estendersi ad una riarticolazione e ricostruzione, e vorrei dire, con un brutto termine, “riplasmazione” dei partiti. Secondo uno schema capace di realizzare grandi aggregazioni e di nutrire una dialettica politica per il futuro della nazione, ma in funzione anti-partitocratica. Maggioranza netta, opposizione netta.
    Il termine “aggregazione” sta entrando nella vita italiana. Cozza contro infiniti interessi, contro resistenze tenaci, contro ottusi particolarismi. Ma è una strada a cui non ci si può sottrarre. C’è, amico Bobbio, tutta un’area laica e progressista nella vita italiana che è stata sottorappresentata in regime di proporzionale: essa potrebbe assumere un ruolo condizionante nel rinnovamento che si impone, oltre tutte le delusioni e le amarezze di questi giorni.
    La storia di domani è tutta da inventare.

    Giovanni Spadolini


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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    La Rivoluzione francese. Un mito e una storia (1952)


    “Il Messaggero”, 29 dicembre 1952


    Fu nel 1889 che Ruggero Bonghi lanciò il frammento inedito di Alessandro Manzoni sul parallelo fra la Rivoluzione francese del 1789 e quella italiana del 1859 e sulla sostanziale superiorità della seconda, che aveva potuto economizzare i mezzi violenti ed evitare la sovversione sociale. Da quel moderato e conservatore che era, il Bonghi intendeva opporsi alla prevalenza del mito radicale e giacobino della Rivoluzione, che proprio in quel centenario rifioriva ad opera dei «clubs» massonici, delle associazioni per il libero pensiero, dei circoli pro-Giordano Bruno. Né la storiografia italiana, in quel poco che si era occupata del fenomeno rivoluzionario, era mai riuscita ad elevarsi al disopra degli schemi moralistici e didascalici che distinguevano la valutazione clericale, o a trascendere le visioni plutarchesche e guerrazziane, che ispiravano i tribuni dell’Estrema alternati ai sociologi positivisti.
    Se non fosse stato per il libro di Salvemini, saremmo rimasti ancora alle impostazioni dell’astrattismo rivoluzionario o ai lamenti del paternalismo ammonitorio: non saremmo andati oltre le conferenze dell’«Università popolare» o le dissertazioni del Poggiolini. L’opera del Salvemini accettava fondamentalmente le ispirazioni laiche e democratiche, ma non restava prigioniera, riusciva, anzi, a superarle nella visione di un moto rivoluzionario come conclusione della formazione dello Stato borghese (l’eredità mai smentita di Tocqueville). Dove il Salvemini si accettava, era di fronte al momento di rottura fra la borghesia rivoluzionaria e il proletariato, alla esperienza storica culminata nel terrore. Fino a che punto la Rivoluzione francese si era conclusa in senso «borghese»? Fino a che punto la fase sanguinosa ed esplosiva delle condanne di massa, dell’attacco alla proprietà, dell’accentramento amministrativo, dei dirigismo economico integrale si ricollegava alle premesse implicite nella «dichiarazione dei diritti dell’uomo» e fino a che punto ne sottintendeva invece una contraddizione e una negazione? Il regime robespierrista apparteneva soltanto all’ordine della patologia politica o rappresentava piuttosto l’espressione paradossale della difesa delle conquiste rivoluzionarie?
    Gli interrogativi, che Salvemini non si poneva (escludendo Robespierre e la dittatura giacobina dal suo quadro), furono ripresi parecchi anni più tardi da uno storico italiano particolarmente sensibile ai problemi giuridici e incline a studiare l’evoluzione delle strutture sociali in rapporto a quella delle forme costituzionali: da Giuseppe Maranini in un volume su Classe e Stato nella Rivoluzione francese, che Sansoni presenta oggi in una rinnovata edizione. Il processo di revisione e di approfondimento, che trovava nell’opera acuta e penetrante del Maranini la sua prima e migliore espressione italiana, era stato contrastato e drammatico. Esaurita l’interpretazione classicistica ed epica, respinte le suggestioni «nietzschiane» ed «eroicistiche», vinte le deformazioni cesariste e napoleoniche, la reazione della storiografia francese si era orientata, verso la fine dell’800, nel senso di configurare un unico «blocco rivoluzionario», un complesso unitario destinato a giustificare la mistica laica e repubblicana sulla quale si reggeva il regime uscito dalla catastrofe bonapartista. Fu il momento dell’«Affare Dreyfus», dei blocchi radicali, della grande scissione di coscienza della Francia contemporanea, che si riportava alle stesse distinzioni del 1792, che ricreava il medesimo abisso fra le forze conservatrici e quelle progressiste. Fu, storiograficamente parlando, il momento di Aulard: la rivoluzione come misura unica, mitica leggendaria, quasi come «chanson de geste» della terza Repubblica. La reazione a quell’interpretazione esclusivamente politica e pragmatica partì da Jaurès nella sua «Storia socialista della rivoluzione» e fu quella che si approfondì e arricchì, trascendendo la contesa politica con Albert Mathiez e con George Lefebvre.
    La Rivoluzione francese non appariva più come un’unità monolitica, ma al contrario si delineava come una successione drammatica, lacerata e contraddittoria. Proletariato e borghesia non venivano più a confluire nello stesso solco, ma invece si dividevano e dissociavano. Al fondo del «Terrore», si ricercava la «base» sociale, si rintracciavano i fermenti egualitari: e non ci si limitava più ad imprecare contro le carrette dei condannati a morte e contro le aberrazioni dell’Ente Supremo. Si respingeva la condanna moralistica, che sarebbe piaciuta a Bonghi, ma anche l’idealizzazione democratica, che avrebbe affascinato Bovio. Si ricercava una dinamica interna che sfuggiva a ogni classificazione e rompeva ogni schema. L’interpretazione del Maranini, infatti, non accetta nessuna delle versioni tradizionali, delle interpretazioni concordate, ma tutto sottopone a riesame, a una revisione severa, talvolta amara. Né unità di classi né unità di partiti si salvano nel suo quadro.
    La dittatura robespierrista nasce dal dissolvimento girondino; ma il dissolvimento girondino, a sua volta, nasce dall’insufficienza del Terzo Stato trionfante ad esercitare un arbitrato sociale che risolva il problema della fame, che vada incontro alle esigenze, spesso incomposte e contraddittorie, delle classi povere (pronte a trasformarsi in strumenti di «jacquèrie»). Come mancò alla borghesia vittoriosa l’«animus regiminis», la forza di fondare lo Stato? È quello che spiega l’avvento del Terrore, la suprema illusione di Robespierre di salvare la «rivoluzione borghese» contro le regole della libertà economica e del privilegio di classe sulle quali si fondava l’intermezzo della Legislativa. La logica di Termidoro è implacabile. Napoleone riprende la politica di Robespierre, ma senza l’arbitrato sociale, senza il dirigismo economico, senza la limitazione della proprietà: il suo è soltanto un «arbitrato politico perfetto». La rivoluzione si contraddice nella dittatura, per non annullarsi del tutto nella reazione termidoriana e nell’impotenza del Direttorio.
    Il vecchio mito storiografico sul quale si resse la «leggenda» della terza Repubblica (così come sul Risorgimento idealizzato si fondò, in Italia, la Monarchia liberale), si spezza e dissolve ogni volta che l’indagine critica vada oltre le apparenze, rinunci ai personaggi, trascenda i fatti «gloriosi», o «virtuosi». Nulla più sopravvive, nell’opera mossa e commossa del Maranini, del «sociologismo» classificatorio e apodittico: il processo storico è studiato «ab interno», in una successione di forze politiche che si annullano progressivamente, nel tentativo di superare le contraddizioni rivoluzionarie. Una rivoluzione – conclude Maranini – che «ha instaurato il dominio di classe della borghesia, ma nello stesso tempo ha inficiato di illegittimità». Una rivoluzione che ha lasciato a noi un’eredità così pesante e gravosa: la guerra di classe. Una rivoluzione che ha imposto il problema di fondare una nuova legittimità, che non sia solo razionale ma anche storica. Perché sono forti – è la morale del libro – solo quelle democrazie che hanno una struttura di libertà storiche preesistenti alla Rivoluzione francese, che conoscono la molteplicità dei corpi associativi intermedi anziché l’unità del giacobinismo. È la lezione del mondo anglosassone.

    Giovanni Spadolini


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    Predefinito Re: Giovanni Spadolini (Firenze, 1925 - Roma, 1994)

    Gino Capponi, una lingua per l'Italia unita (1984)

    "La Voce Repubblicana", 23-24 luglio 1984

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