Lobby e trame contro la sovranità del Vecchio Continente


di MAURO BOTTARELLI

Cominciamo oggi un’inchiesta-ricostruzione in due puntate sulle radici massoniche e mondialiste che hanno portato alla nascita dell’Unione Europea. All’interno vi troverete nomi e cognomi dei “congiurati” (anche italiani) che fin dal 1955, in nome dell’asservimento ai poteri economici e politici anglo-americani, hanno tradito l’Europa, contrastati soltanto da De Gaulle e Adenauer. Scoprirete inoltre come una delle punte di diamante dei “cospiratori”, il massone Valery Giscard d’Estaing, sia ora a capo della Convenzione europea, ovvero l’organo chiamato a stilare la costituzione comune dell’Ue. La ricostruzione ricalca fedelmente quella compiuta dal giornalista e storico Marco Dolcetta nel suo libro “Politica occulta”, pubblicato da Castelvecchi editore (1999).
L’Unione Europea, ovvero il processo di unificazione dei vari Paesi e la loro progressiva perdita di sovranità nazionale, ha una storia parallela. Una storia che, partorita dal paradosso che vede istituzioni e uomini non delegate dai cittadini decidere sopra le loro teste, affonda le sue radici in un piano ben preciso messo in atto da uomini legati a lobby politico-finanziarie mondialiste manovrate da interessi anglo-americani. Come spiega mirabilmente Marco Dolcetta, il primo esempio classico di conflitto fra “dirigismo mondialista” e “resistenza locale” al piano di abolizione delle sovranità nazionali è rappresentato proprio dal “Progetto Governo Europeo”, sorto il 13 ottobre 1955, quando il finanziere Jean Monnet fonda il Comitato d’Azione per gli Stati Uniti d’Europa. Ovvero, il centro di una rete d’influenza che penetrava le strutture nazionali, e aveva il potere di aprire o chiudere le carriere nella Cee. Tra i membri del Comitato ritroviamo, mescolati a membri del ramo europeo della Trilaterale, alcuni protagonisti della politica degli anni Sessanta e Settanta: Helmut Schmidt e Willy Brandt, Giscard D’Estaing e il radicale Faure. Tra i politici italiani furono subito arruolati Ugo La Malfa e Malagodi oltre a Saragat, Malfatti, Matteotti, Fanfani e Nenni. Più o meno consapevoli del progetto, costoro furono parte della “forza intellettuale” che ottenne dai parlamenti la ratifica del Trattato di Roma, firmato il 25 marzo 1957. Dedichiamo ora qualche riga a spiegare, per sommi capi, cosa sia la commissione Trilaterale, organismo a capo del “complotto” per svuotare i Paesi europei della loro sovranità e ridurli a contenitori vuoti e appendici di sudditanza. Il 27 giugno 1972, nella tenuta dei Rockfeller a Pocantico (Tarrington, New York) una ventina di persone si radunarono per dar vita a questo nuovo organismo, pensato come “passo avanti” rispetto alla politica del Bilderberg. Tra i presenti vanno ricordati Bayless Manning, allora presidente del potentissimo Council of Foreign Affaiers Usa; Max Konstamm, già intimo collaboratore del citato Jean Monnet; Guido Colonna di Paliano, presidente della Rinascente ed ex-membro della Commissione Cee. Da quel giorno la Trilaterale ha operato nel senso di costituire un sistema tripolare per blocchi economici, capace di gestire tecnocraticamente gli affari mondiali. Tra le aspirazioni principali vi erano la creazione di un’Europa “federata” e un continente americano “integrato”: ovvero quanto è stato realizzato in questi anni con il Trattato di Maastricht e con la creazione del Nafta, il mercato comune Usa- Canada-Messico. Nel maggio del 1986 il quotidiano spagnolo El Pais riportava la seguente frase: «La Commissione sostiene la tesi della necessità di un supergoverno dell’economia mondiale». Detto questo, torniamo agli Stati Uniti d’Europa. Nonostante l’ampio novero di sodali europei, i primi tre commissari del “Progetto” furono scelti fra tre fidati “consulenti speciali” di Monnet, destinati a diventare grand commis dell’establishment internazionale: Robert Madoilin che da “vicario” di Monnet sarebbe asceso ai vertici della Royal Dutch Shell, la multinazionale petrolifera anglo-olandese, il belga Jean Rey (poi chiamato a dirigere la Philips, multinazionale olandese) e Sicco Mansholt, che avrebbe applicato i devastanti princìpi della “crescita zero” all’agricoltura europea.
Sembrava tutto pronto per il passo successivo, quello che Monnet aveva descritto con parole precise riportate nel saggio di Dolcetta: «Creare un mercato monetario e finanziario europeo con una Banca Centrale, una Riserva Federale europea e l’uso in pool delle riserve nazionali (...). Il libero flusso dei capitali fra i Paesi membri e, infine, una politica finanziaria comune». L’epoca delle identità nazionali sembrava volgere al termine, senza che i cittadini degli Stati europei fossero mai stati chiamati a pronunciarsi in merito. Ma c’era un uomo che non poteva accettare questo progetto: Charles De Gaulle. Il generale sapeva perfettamente chi fosse Monnet. Lo aveva incontrato la prima volta nel 1940, nell’ora della disfatta della Francia. De Gaulle fondava allora l’organo della resistenza, “France Libre”, e si rese presto conto che Monnet non aveva nessuna intenzione di entrarvi. De Gaulle vide allora che Monnet preferiva “resistere” facendosi cooptare nella sfera dell’establishment anglo-americano e del suo braccio finanziario (l’asse Baruch-Morgan Guaranty-Lazard), non senza mantenere canali aperti con quelle che l’establishment considerava le “forze sane di Vichy”: non ultimo esempio di quell’ambiguo filone di “antifascisti” francesi che non disdegnarono di militare nel governo collaborazionista di Pétain, di cui Mitterrand fu un esponente. Ma, mentre altri collaborazionisti finirono fucilati, una “mano invisibile” ripulì Mitterrand di quel passato, avviandolo al successo.
Jean Monnet, anziché mettersi agli ordini di De Gaulle, divenne funzionario britannico: in questa veste fu spedito da Churchill a Washington, dove fu inserito nel “consiglio privato” di Roosevelt, accanto a uomini come Felix Frankfurter, Herbert Lehman, McCloy, Harriman, Acheson e i giornalisti “liberal” Walter Lippman e James Reston. Le strade dei due, però, si erano reincontrate nel 1943, ad Algeri. Monnet vi era stato spedito come plenipotenziario di Roosevelt, con un compito preciso: eliminare l’ala nazionalista della resistenza francese, liquidando De Gaulle e rimpiazzandolo con il più manipolabile generale Henri Giraud.
Quella volta fu un vero e proprio scontro, da cui De Gaulle uscì vincitore, e leader indiscusso della Francia. Ma, naturalmente, il generale dovette pagare un prezzo: Monnet era l’uomo che teneva la borsa dei rifornimenti americani. De Gaulle dovette inbarcarlo nel governo provvisorio come ministro e, dopo la guerra, affidargli l’incarico di “Commissario al Piano”, incaricato della ricostruzione e della riorganizzazione dell’economia francese: un vero cavallo di Troia. Nel 1955, quando Monnet creò il Comitato “per gli Stati Uniti d'Europa”, fu l’occasione del terzo scontro in certo senso quello definitivo. In una celebre conferenza-stampa, De Gaulle lanciò l’idea di una collaborazione politica più stretta tra i governi degli Stati sovrani d’Europa: nasceva “l’Europa delle Patrie”. Coerentemente con il suo approccio continentale, De Gaulle non coinvolgeva l’Inghilterra insulare, considerata longa manus degli interessi statunitensi, mentre coinvolgeva la Germania. Il patriota, il simbolo della resistenza antinazista tendeva quindi la mano al nemico storico della Francia. Panico e rabbia furono i sentimenti che percorsero le schiene dei fautori degli “Stati Uniti d’Europa”: nella cerchia dei “consiglieri” di Roosevelt non era mancata la proposta (avanzata alla fine della guerra dall’israelita Felix Frankfurter) di castrare la popolazione maschile della Germania debellata, e ridurre il Paese a una plaga smembrata senza struttura industriale e con un’economia di sussistenza agricolo-pastorale. Persino il controllatissimo Monnet non poté trattenersi dal criticare il generale: «Le concezioni di De Gaulle sono fondate su nozioni superate(...). È impossibile che Stati che mantengano la piena sovranità possano risolvere i problemi d'Europa». Il dado era tratto.
Ma Monnet tentò di utilizzare l’iniziativa del generale con abile pragmatismo, piuttosto che opporvisi frontalmente anche se la sua posizione era indebolita dal governo di Sua Maestà britannica, indisponibile a cedere anche un grammo di sovranità. Ci fu un viaggio in Usa, dove Monnet si consultò con “il gruppo di amici americani” che allora affiancavano il giovane presidente Kennedy: McCloy (allora al Disarmo), Acheson (delegato ai rapporti con la Nato), il banchiere Douglas Dillon, McGeorge Bundy (allora consigliere presidenziale alla Sicurezza Nazionale), e Katherine Graham proprietaria del Washington Post e figlia di quel finanziere, Eugene Meyer, che Baruch aveva messo alla guida del War Board. Per una strana coincidenza, proprio in quel periodo il Dipartimento di Stato e la Cia si implicarono in oscuri giochi destabilizzatori con l’Oas in Algeria. La progressiva distruzione dell’autorità francese sui territori d’oltremare era il prezzo che De Gaulle doveva pagare per la sua indisponibilità nei confronti di un processo che considerasse la Gran Bretagna come parte dell’Europa. Ma la mano che De Gaulle aveva teso non era stata lasciata cadere nel vuoto. Il generale francese aveva infatti trovato un fido alleato in Konrad Adenauer, cancelliere di una Germania ormai più sicura di quanto fosse negli anni Cinquanta, «quando i congiurati sovranazionali le avevano strappato la Ruhr».
1 puntata - Continua

Da "la Padania" di oggi