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Risultati da 1 a 3 di 3
  1. #1
    Roderigo
    Ospite

    Predefinito Da Londra a Roma «Le nostre vite valgono più del loro petrolio»


  2. #2
    Roderigo
    Ospite

    Predefinito

    Un lunghissimo corteo di pace, dal Colosseo a piazza del Popolo. Giovani e immigrati, lavoratori e studenti, pensionati e politici per dare un'idea alla sinistra
    Centocinquantamila no alla guerra


    Frida Nacinovich

    C'è musica e musica. Quella dei giovani comunisti la senti da lontano, quando camminando per via Cavour il Colosseo ancora non si vede. I ragazzi che disobbediscono disertano amano sono in piedi sul loro camion, tra casse gigantesche e amplificatori a wattaggio che sembra illimitato. «Che bello, c'è una festa», dice in inglese una turista seduta al bar all'angolo. E la festa c'è da vero, in questo pomeriggio romano appena iniziato.
    C'è musica e musica. Manca ancora mezz'ora alla partenza del corte, e la Banda militante della Maremma è già al suo posto. Ottoni e tamburi, che ripassano un'ultima volta il programma. E il direttore d'orchestra? Non serve. «Siamo tutti militanti - racconta Aldo Montalti - e quasi tutti iscritti al partito. Facciamo repertorio di protesta e proletario». Dei classici insomma, ever green che al popolo di Rifondazione comunista non vengono mai a noia. E piacciono anche alle nuove leve, quelle che si godono la manifestazione e la sfilata delle mille e mille bandiere rosse sulle spalle del babbo.

    C'è il sole su Roma. Un sole caldo e luminoso, quello di una finalmente bella giornata di settembre. Dopo tanta pioggia è una benedizione. Oppure un segno del destino. I compagni di Trieste aspettano anche loro la partenza della manifestazione. Bandiera rossa in mano, straccio bianco legato allo zaino. Due modi identici per dire "no alla guerra". In ordine alfabetico viene prima Piombino, poi Pistoia e poi Pomigliano. Ma qui c'è già troppa gente per riorganizzare il corteo. Così il no alla guerra viene detto in cento dialetti diversi che si mescolano e rimescolano. «No alla guerra. E poche balle», c'è scritto sullo striscione arrivato dalla Lombardia. Più chiaro di così non si può.

    A piazza Venezia incontri le donne in nero. Quando c'è da impegnarsi contro la guerra e contro le discriminazioni, loro ci sono sempre. C'è una donna che alza orgogliosamente il suo cartello, sopra c'è scritto "mio figlio non ve lo do". Un messaggio che è quello di tutte le mamme del mondo. Lo dovrebbero dare a lei, il nobel per la pace. La testa del corteo parla tante lingue diverse, ci sono i curdi che alzano la bandiera di Ocalan. I palestinesi d'Italia - guidati da Nemer Hammad - che gridano la loro voglia di pace, di rispetto per la dignità di un popolo a cui è stato tolto tutto. Cesare Salvi e Luciano Pettinari portano lo striscione che apre il corteo accanto a Fausto Bertinotti, Alessandro Curzi e Vittorio Agnoletto. Subito dietro ci sono Piero Bernocchi, Lucio Magri, Lucio Manisco e Maurizio Zipponi. Un'idea per la sinistra? Fermiamo la guerra. Perché senza pace non c'è giustizia, lo dicono i lavoratori in lotta per la difesa dell'articolo 18, gli studenti che difendono la loro scuola pubblica, i cittadini che sono qui a Roma. E sono centocinquantamila.

    Lungo il Tevere scorre un fiume umano, che protesta contro la guerra e le politiche della destra. Qualcuno troppo stanco prende fiato, e si siede per terra o sulle spallette. Si sente una voce, diventa un coro: «Disarmiamoli». Una delegazione di Rifondazione comunista guidata da Giovanni Russo Spena ha appena consegnato una petizione contro la guerra all'ambasciata degli Stati Uniti in Italia, in via Veneto.

    E Liz Davies è venuta da Londra per partecipare alla manifestazione. Stop the war coalition è una delle organizzazione che sta sfilando in queste ore contro la guerra a Trafalgar Square. L'internazionale della pace è anche qui. Fabio Alberti, "Un ponte per Baghdad", sorride. «Questa è la prima manifestazione contro la guerra. Speriamo che ce ne siano molte altre, perché è quello che vogliono gli italiani. Mettere al centro il problema della guerra, e quindi della giustizia internazionale, è un buon punto di partenza per tutta la sinistra». Qui lo pensano in tanti, lo pensano tutti e sono venuti dalla Sardegna e dal Piemonte, dalla Sicilia e dal Veneto, dalla Toscana e dalla Calabria per gridarlo.

    Alle cinque la testa del corteo si affaccia in Piazza del Popolo. Giubbetti rossi con sopra scritto "No alla guerra" in italiano, inglese ed arabo. Sfilano una marea di bandiere rosse, quelle arcobaleno dei pacifisti e davanti al monumento a Vittorio Emanuele II appare una grande bandiera comunista. Indietro Savoia. Si vedono bandiere palestinesi e si alza il coro "Palestina libera". Poi compare un carrello della spesa con dentro i prodotti israeliani e delle multinazionali. «Da non comprare più assolutamente», grida il megafono. Scandiscono il corteo stendardi delle federazioni regionali e provinciali di Rifondazione. Spuntano dappertutto bandiere di Che Guevara, ed anche di Castro. Uno striscione ritrae Berlusconi disegnato come un detenuto ai lavori forzati e sopra la scritta «lasciatelo lavorare». Un altro striscione recita: «No alla legge Bossi-Fini, siamo tutti clandestini». Ci sono anche gli anarchici che marciano per «non dimenticare Valpreda». Tra gli striscioni spunta anche quello del circolo di Rc "Parri" da Arcore. Ma le cose più importanti sono le centocinquantamila voci diverse che chiedono pace, e fra queste i giovani. Ragazzi e ragazze che fanno per un attimo pensare a un futuro diverso. Possibile, e migliore.

    Le copie di "Liberazione" vengono autografate dal direttore Curzi, come ricordo di una giornata speciale. Le richieste arrivano dai partigiani della pace, un popolo in movimento, che domani continuerà a chiedere pace a scuola, all'università, sul posto di lavoro, al bar con gli amici.

    Il tramonto romano cala su piazza del Popolo. La luce si fa rosata e avvolge facce stanche ma soddisfatte. E' bello essere qua in tanti, sotto gli occhi del mondo. Di un mondo che non vuole la guerra.


    Liberazione 29 settembre 2002
    http://www.liberazione.it

  3. #3
    Roderigo
    Ospite

    Predefinito

    In quattrocentomila sfilano per le vie della capitale inglese. Il più grande appuntamento contro la guerra della storia britannica
    Londra ripudia Blair


    Ivan Bonfanti

    Londra - nostro inviato
    Vederla arrivare da Piccadilly Circus, saranno le due del pomeriggio, sembra non finisca più. Sul salitone che da Withe Hall attraversa la Londra dei palazzi del potere per andarsi a infilare nel rettilineo che sfocia in Hide Park, è una marea umana. Come Londra non l'aveva mai vista. «Ci sono quattrocentomila manifestanti» annuncia lo spiker di Sky News, la tv del Rupert Murdock che di Tony Blair è sempre stato uno dei grandi supporters. «Sono 450mila» stabilisce a sera la Bbc, mentre gli organizzatori si guardano increduli e si abbracciano: «E' la più grande manifestazione che Londra abbia mai visto, nemmeno ai tempi della guerra del Vietnam si era mai visto qualcosa di simile».

    Il sole ad Hide Park

    Persino il tempo è stato clemente, e l'infame pioggerella di Londra ha sfiorato la capitale solo nel tardo pomeriggio, ma è andata a tartassare solo la parte est, mentre ad ovest scorreva il corteo. A Hide Park c'è addirittura il sole. La spianata su cui affaccia il palco con il grande teleschermo montato per gli oratori si riempie in men che non si dica. Gli striscioni dei sindacati, delle tante organizzazioni che hanno aderito al Rally "Stop the war on Iraq" si sovrappongono senza soluzione di continuità interrompendo a tratti il vero leit motiv del corteo: "No war for oil" come recitano i tanti cartelli distribuiti dall'organizzazione e dalla Coalition Stop the war.

    Non manca niente, nella manifestazione più grande. C'è tutta l'umanità confusa di una "Londonistam" che una volta tanto si è riunita davvero. Bianchi, africani e orientali, tutti i colori di un mondo che nella capitale inglese si mescola spesso senza incontrarsi sono qui che sfilano, e non finiscono più. Di "guerra di civiltà", non c'è traccia, anzi. «In attesa che Tony Blair accenda la televisione e si accorga che a Londra il popolo britannico sta sonoramente rifiutando i suoi criminali progetti di guerra. Il risultato più importante della manifestazione è proprio l'aver riunito tutta insieme la gente di quelle culture che l'11 settembre della "guerra infinita" vogliono dividere», come spiega a Liberazione Ken Livingstone, il sindaco di Londra. «Questa è Londra, questi sono i cittadini britannici del futuro, che rifiutano un mondo di violenza e divisioni per costruirne uno di fratellanza e solidarietà», dice l'outsider della sinistra, che per due volte ha conquistato la poltrona di sindaco senza l'appoggio ufficiale del Labour di Tony Blair, guardando passare i ragazzotti pakistani con gli abiti tradizionali e i copricapo etnici che non disdegnano di quando in quando un sonoro Hallah Akbar, Hallah è grande. La comunità musulmana che ha trasformato alcuni quartieri di Londra nell'appendice di Karachi è tutta qui, e a parte un gruppuscolo di "cattivi" della moschea di Finnsbury - che peraltro vengono fatti sloggiare da un paio di maneschi militanti della Muslim Association of Britain (Map) - si dicono tutti convinti che «il migliore alleato di Bush è Bin Laden», come dice Khaled, diciottenne di Bradford, con le Nike sotto la tunica modello peshawar.

    La Muslim Association ne ha portati davvero tanti, ma non sono solo le ragazze e i ragazzi figli (di seconda o terza generazione) delle ex colonie britanniche, ad aver risposto all'appello contro la guerra promossa dalla coppia Bush and Blair. C'è la Unisol, il più grande sindacato d'Europa. Ci sono le Trade Unions dei ferrovieri, degli impiegati pubblici, degli insegnanti; persino un drappello di yuppies della London School of Economics, che nello striscione sentenziano No war for oil. Ci sono praticamente ovunque, i banchetti dei Social Workers, anima della Socialist Alliance, una delle organizzazioni più attive nell'organizzazione della manifestazione. E nell'universo di sigle che hanno aderito al cartello pacifista (ci vorrebbe un articolo solo per elencarle tutte) c'è pure Rifondazione comunista, che con un gemellaggio virtuale con la manifestazione romana è presente con Gennaro Migliore, responsabile Esteri, e un drappello di militanti del locale circolo Prc London. Ci sono, infine, tanti militanti laburisti, forse più imbarazzati, «di certo i più incazzati» secondo la battuta di Neil Lee, cinquantenne bancario che non si dà pace: «C'è l'elettorato che ha permesso a Blair di andare a Downing Street, ci sono quelli che hanno fatto la differenza in termini elettorali, ed è assurdo che il primo ministro non si renda conto che sta firmando da solo la salita al potere dei Tories.

    Il premier contestato

    Già, Tony Blair, è lui il più citato insieme a George W. Bush. Non solo nelle scritte più o meno ironiche che lo ritraggono come cameriere o cagnolino di Capitol Hill, ma anche dal palco dove l'imponenza di una manifestazione senza precedenti ha fatto scattare la corsa all'intervento per tanti esponenti Labour che hanno deciso solo all'ultimo di colmare il divario con i loro elettori.

    Addirittura una star della sinistra inglese, quel Tony Benn che non ha mai voluto rompere con la leadership dei laburisti nonostante il divario che ormai li separa (una sorta di Ingrao locale), dopo il rituale "Salam halekum" tuona dal palco: «Siamo noi la maggioranza del mondo, la maggioranza del popolo inglese e anche di quello americano. Il disarmo in Medio Oriente lo vogliamo tutti, a partire dagli irakeni - fa Benn - ma non si capisce perché si debbano disarmare solo quelli che non obbediscono agli ordini di Washington, forse Bush e Blari questa guerra la faranno comunque, ma si accorgeranno presto che niente potrà portare i popoli inglese e americano a combattere per ragioni che non condividono, anzi, a cui si oppongono».

    Iraq e poi iran, e prima ancora l'Afghanistan: è lunga la lista dei "roque states" che la Casa Bianca minaccia di attacco. «Non ci vengano a dire che è una questione di diritti umani» ammonisce ancora Ken Livingstone «perché questa guerra con la sicurezza degli inglesi non ha nulla a che vedere. E' la campagna di un presidente corrotto di una leadership corrotta che ha truffato dal primo momento in cui è salita al potere, dalla conta dei voti in Florida. Rispondono ai loro interessi economici, non a quelli dei cittadini che li hanno votati». Sul palco sale anche Scott Ritter, l'ex ispettore delle Nazioni Unite in Iraq che oggi accusa il presidente degli Stati Uniti «di condurre l'America al confronto contro il resto del mondo, di ingannare il popolo americano, che è un popolo di brave persone. Per questo - dice l'ex inviato dell'Onu additando un gruppetto di fondamentalisti - voi che gridate "Down America" dovreste vergognarvi perché io sono americano e sono qui e rappresento una buona parte del mio popolo».

    Il tono degli interventi è duro, il concetto inflazionato è che la maggioranza della popolazione mondiale questa guerra non la vuole. «In nostro nome hanno ucciso un milione di bambini iracheni con quella con l'embargo, una vera arma di distruzione di massa - dice Lindsey German, della Socialist Alliance - ma la nostra lotta oggi, il nostro grido "Not in my name" è paragonabile alle battaglie per la libertà che i nostri genitori hanno combattuto nel passato: da quella degli afroamericani per uguali diritti, a quella delle donne per l'emancipazione e il diritto al voto». Dice George Galloway, deputato scozzese e "campione" dell'opposizione alla guerra in Iraq: «vedo qui tra la folla lo stemma della brigata dei pompieri di Londra. Sappiamo tutti che Blair non ha i soldi da dare ai nostri lavoratori per spegnere gli incendi nella nostra città, ma mi chiedo con che faccia e con che soldi possa andare ad incendiare il resto del mondo».

    La piazza si svuoterà solo a sera, e mentre Londinistan ritorna al Tube che riporterà la gente nei quattro angoli della megalopoli inglese, la frase più bella ce la regala Amyad Aqil, ragazzina di 17 anni della Muslim Association: «penso che l'11 settembre ci ha insegnato qualcosa in più. Qualcosa in più sulla nostra religione, intanto, che abbiamo dovuto difendere dalle strumentalizzazioni di chi voleva dipingerci tutti come dei piccoli Bin Laden. Qualcosa in più sui nostri vicini di diversa cultura, che oggi sono qui con noi con una presenza che mi commuove».


    Liberazione 29 settembre 2002
    http://www.liberazione.it

 

 

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