Caduta del governo Prodi: Ma non eravamo stati noi?
di R.G.
Si continua a discutere, da quattro anni a questa parte, del perché e del percome cadde il governo guidato da Romano Prodi. Secondo una parte diffusa dell’opinione pubblica, nella vicenda fu determinante il ruolo di Rifondazione comunista, che nell’ottobre del ’98 non votò la legge finanziaria proposta da quel governo. Un tale ruolo, anzi una tale colpa che, a tutt’oggi, viene rimproverata al nostro partito, nelle circostanze più disparate - pubbliche o private, familiari o mondane, intime o sociali che siano. Negli ultimi mesi, tuttavia, il vento è cambiato. Dev’essere accaduto qualcosa, nei meccanismi della memoria e delle ricostruzioni mediatiche: il colpevole non è più Bertinotti, ma Massimo D’Alema. Il presidente diessino - che, come si ricorderà, successe allo stesso Prodi a palazzo Chigi e resse il governo fino alla primavera del 2000 - fu accusato, allora, di essere stato il «mandante», il regista occulto dell’operazione. Ma, giacché quell’accusa era evidentemente grottesca (come si fa a sostenere, sensatamente, che Rifondazione e Bertinotti prendono ordini dalla Quercia, anzi dal suo presidente, con il quale poi i rapporti sono tutto fuorché idilliaci?), ne è stata messa in giro un’altra, più sottile e generale. Essa si formula così: D’Alema è la rovina dell’Ulivo, la causa di tutti i suoi mali e, in particolare, dell’“esilio” europeo al quale Romano Prodi è stato costretto. D’Alema - ecco il paradosso - viene accusato, perfino, di essere troppo di sinistra, come ieri sulla Stampa Barbara Spinelli.
Questo, francamente, ci pare il colmo. Si può criticare, politicamente, il presidente diessino per quasi tutte le sue posizioni. Gli si può rimproverare, con un qualche fondamento, un eccesso di saccenteria, forse una specie di “complesso da primo della classe”. E’ legittimo, anche, registrare criticamente le sue deviazioni gastronomiche e velistiche. Infine, è lecito analizzare, una per una, le sue tante sconfitte tattiche prima che strategiche. Quel che non si può, tuttavia, è accusarlo di compiacimenti “di sinistra”: tra il “dalemismo” e la nozione di sinistra, qualunque cosa essa voglia dire, c’è ormai una distanza abissale. Siamo pronti a invocare molte e qualificate testimonianze, a cominciare da noi stessi. Si faccia attenzione: il governo Prodi cadde da sinistra, perché aveva imboccato un percorso - e contenuti - moderati, sulla politica sociale, sulla guerra nel Kosovo, sulle privatizzazioni. Come avrebbe potuto D’Alema invocare un orizzonte di questo tipo? Riprendiamoci la verità storica: siamo stati proprio noi - Rifondazione comunista - a provocare quella caduta. E non ce ne pentiamo.
8 ottobre 2002
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