"La globalizzazione e i suoi oppositori", il volume dell'economista Joseph Stiglitz

I crimini economici del Fondo monetario

Gemma Contin

«L'esperienza dell'Argentina offre alcuni importanti insegnamenti. Da tempo l'Fmi e la Banca mondiale sottolineano l'importanza della stabilità del settore bancario. E' facile creare banche solide che non perdano denaro a causa di prestiti mai restituiti. Basta imporre loro di investire in buoni del Tesoro degli Stati Uniti. La sfida, però, consiste non soltanto nel creare banche solide, ma nel fare in modo che queste forniscano il credito necessario per la crescita».

Quello dell'Argentina è solo uno degli innumerevoli esempi dell'impressionante e lucida attualità con cui Joseph Stiglitz "fa le pulci" alle istituzioni finanziarie, monetarie e commerciali mondiali. Nel libro La globalizzazione e i suoi oppositori (Einaudi, pp. 258, euro 19,00) il vincitore del premio Nobel per l'economia nel 2001 mette sotto i riflettori il ruolo e i vizi privati e pubblici della World trade organization (Wto), della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale (Fmi).

L'ex professore della Columbia University parla di realtà e di organizzazioni che conosce molto bene e da vicino - anzi dall'interno - essendo stato, oltre che consigliere dell'ex presidente Bill Clinton, senior vice president e chief economist della Banca mondiale. Stiglitz però (in questo non del tutto "al di sopra delle parti") si scaglia più di tutto, senza freni e senza peli sulla lingua, contro il Fondo monetario, colpevole - secondo l'autore - delle peggiori nefandezze economiche nei confronti dei paesi poveri, in via di sviluppo o in crisi; di errori strategici e sociali che spesso si sono trasformati in vere e proprie tragedie; e del più bieco e strisciante servilismo nei confronti del potere e degli interessi degli Stati Uniti d'America.

Il libro va letto non certo per l'imparzialità del premio Nobel, che anzi è parzialissimo ed entusiasta supporter della globalizzazione e lo dichiara, sostenendo però di essere stato illuminato sulla via di Damasco come Paolo di Tarso dopo aver assistito al tracollo economico, politico e civile di tanti e tanti paesi dell'Africa, dell'Asia e dell'America latina. Il libro di Stiglitz è importante perché fornisce una quantità di racconti e di testimonianze precise e preziose, che configurano una vera e propria sequenza di economic crimes, se non di deliberate azioni di strangolamento di paesi ed economie nazionali già deboli, quando non erano in grado di adeguarsi alle condizioni capestro dettate dalle organizzazioni mondiali e, in particolare, dal Fondo monetario. Insomma, lo strozzinaggio condotto su base planetaria e di portata globale.

«A mio modo di vedere - scrive Stiglitz nella prefazione - le tribolazioni patite dai paesi del Terzo mondo nel processo di globalizzazione e di sviluppo, così com'è stato concertato dall'Fmi e dalle organizzazioni economiche internazionali, sono state di gran lunga più gravi del necessario. La reazione violenta contro la globalizzazione ha tratto la propria forza non soltanto dal danno visibile arrecato ai Paesi in via di sviluppo dalle politiche guidate dall'ideologia, ma anche dalle iniquità del sistema del commercio internazionale. Oggi, a parte chi ha interesse a tenere i beni prodotti dai paesi poveri al di fuori dei circuiti commerciali, sono in pochi a difendere l'ipocrisia di chi finge di aiutare i Paesi in via di sviluppo obbligandoli ad aprire i loro mercati alle merci dei paesi industrializzati, mentre questi ultimi tengono i loro (mercati) ben protetti, attuando politiche che rendono i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri e arrabbiati».

Intendiamoci, Stiglitz non è innocente. Mentre era consigliere di Bill Clinton sono state varate le peggiori politiche dell'Organizzazione mondiale del commercio (Wto) in tema di proprietà intellettuale, brevetti, ricerca, organismi geneticamente modificati, e via lungo l'intera filiera dell'innovazione tecnologica, della comunicazione e dell'informazione, dell'ingegneria e della manipolazione genetica (come la privatizzazione della ricerca sul genoma umano); fino ai brevetti sulle sementi, sui fitofarmaci, sugli antibiotici e sui medicinali e i vaccini anti-aids. E inoltre, da chief economist della Banca mondiale, certamente non ha ricoperto il ruolo di vittima, semmai di carnefice, nei confronti dei paesi dell'America latina e del Sudest asiatico, nella gestione delle crisi finanziarie e geopolitiche che li hanno attraversati e in alcuni casi travolti nel corso degli anni Novanta. Argentina, Brasile, Venezuela, Corea, India, Indonesia, e persino il più occidentale tra tutti: il Giappone (per non parlare delle infime economie africane), hanno marchiato a fuoco sulle carni vive dei lavoratori e delle popolazioni i sacrifici e la precarietà "imposta" dalle condizioni del Fondo e della Worldbank, i quali - in combutta tra loro e in presa diretta con le politiche di autotutela praticate dagli Usa e puntualmente sollecitate dalla Federal Reserve - hanno preteso che economie "povere" o sull'orlo dell'abisso prima risanassero i loro conti - sprofondando così al di sotto della soglia di tenuta economica, politica e democratica - per poi aver diritto ad accedere ai prestiti "concessi" dalle istituzioni internazionali.

La ritrovata consapevolezza di Stiglitz nulla toglie al ruolo che egli ha avuto. Semmai quello che oggi ci racconta, con documentata efficacia e con ampia e diretta testimonianza "dal vivo", deve far aprire gli occhi alla sonnolenta Europa, la cui crisi economica è anche, in una parte non secondaria, una stretta derivazione dei protezionismi che gli Stati Uniti mettono in atto, quando serve, anche a danno dei più stretti alleati. E' in ogni caso ragguardevole quello che oggi il Nobel per l'economia sostiene, ad esempio, a proposito della globalizzazione e sul malcontento che provoca nella gran parte delle "periferie" del mondo.

Nel nono capitolo che si intitola "La strada da percorrere" si legge infatti: «Il malcontento nei confronti della globalizzazione deriva non soltanto dal fatto che le considerazioni di ordine economico sembrano prevalere su tutto il resto, ma anche dal predominio assoluto di una visione particolare dell'economia su tutte le altre: il fondamentalismo del mercato. L'opposizione nei confronti della globalizzazione in molte parti del mondo non riguarda la globalizzazione in sé - afferma Stiglitz - quanto quel particolare sistema di dottrine, il cosiddetto Washington Consensus, che le istituzioni finanziarie hanno imposto al mondo... Nelle nostre democrazie apriamo un dibattito su ogni aspetto della politica economica: non soltanto sulle questioni macroeconomiche, ma anche su temi come la struttura del diritto societario o la privatizzazione della previdenza sociale. Gran parte del resto del mondo (invece) si sente privata del proprio diritto di scegliere».

Non si tratta certo del "manifesto dei new-global", ma di un utile strumento di conoscenza, per chi ne ha piene le tasche del Washington Consensus, certamente sì.