Alonso e i visionari, Anna Maria Ortese Adelphi 1996.


In un’Italia come quella attuale, dove Oriana Fallaci è stata definita dalla Lucia Annunziata come “La più grande scrittrice italiana vivente!”, vale forse la pena di accostarsi ad autrici, magari "estinte", per le quali scrivere ha sempre rappresentato una disciplina. Alle ostentazioni tutte aggettivate, ai capoversi pieni di rancore (ricordiamoci Kundera: i romanzi non si scrivono per denunciare o duellare con qualcuno) e scritti con dei testicoli immaginari, gonfiati da ostentazione narcisistica, sarebbe preferibile opporre pagine dove chi scrive duella soprattutto con il linguaggio, contro le facili banalità, e ogni frase esprime una profonda pietas, carica di comprensione, verso la natura umana.
Parliamo quindi dell’ultimo romanzo di quella che è davvero tra le più grandi scrittrici italiane, sebbene la sua serietà letteraria non abbiano mai dato modo ai media di dichiararlo con ostentazione: Anna Maria Ortese. Alonso e i visionari, uscito poco prima della morte dell’autrice, non è neppure il suo miglior romanzo. “Il porto di Toledo”, ad esempio, è ancora più affascinante, ma richiede un impegno che, per dirla con Svevo, “non è per lettori distratti”. Si tratta comunque di una prova notevole, con lampi di pura vertigine.
All’epoca della sua uscita, Enrico Grezzi definì Alonso e i visionari “geniale e delirante". Non saprei trovare giudizio più azzeccato. Apro qui una parentesi per dire che, di solito, i miei gusti letterari oscillano in due direzioni: da un lato vado alla ricerca di un’espressione totalizzante, olistica, eclettica ed enciclopedica, nella quale l’autore-demiurgo cerca di dar fondo allo scibile molteplice; dall’altro, invece, apprezzo quel sottile gioco di rimandi e di allusioni, d’evocazione che lascia spazio a sensazioni che non possono essere spiegate. Naturalmente nulla è così dicotomico: capita che le direzioni s’incrocino, ma i metodi espressivi dell’autore rimangono diversi. Rispetto al primo, il secondo tende all’interiorizzazione, spesso riflette di meno sul rapporto con i generi. Siamo lontani dal postmoderno. Anche coltissimo, l’autore dà retta ad una magia che non vuole spiegare.
Alonso e i visionari appartiene alla seconda categoria di opere letterarie. Libro sapientemente costruito, contenitore di svariati generi (c’è chi lo ha definito un “thriller filosofico”) conserva tuttavia una forma aleatoria e un po’ criptica, dove un particolare conduce a mille considerazioni non scritte. Niente si spiega palesemente, anzi, sembra che l’autrice usi un linguaggio o per iniziati, adatto a chi ha doti spirituali per capire. L’insieme è metafisico e inclassificabile, quasi come i romanzi di Thomas Bernhard, con la differenza che qui il respiro è maggiore, come il gioco dei punti di vista.
I punti di vista caratterizzano l’intera storia (filosofica, cronacistica, fiabesca… chi può dirlo?). Pregio dell’Ortese è avere sostenuto il romanzo come storia orale, falsata da un’allucinazione che sembra precisa e non lo è. D’istinto non condivido chi ha elogiato la precisione del romanzo, concorde sul fastidio che l’argomento terrorismo può avere generato. Storicamente, qui il terrorismo non è mai approfondito: si colgono accenni collocabili ovunque, esasperanti gl’impulsi umani. A interessare è l’animo umano, mentre la Storia è intesa in senso joyciano: come un incubo da cui vorremmo liberarci. Eppure colgo in questa imprecisione tutta una serie d’intuizioni e illuminazioni, non sempre spiegabili, accenni e rimandi sottaciuti che costituiscono una forma superiore o, se vogliamo, più profonda.
Sotto questo aspetto Alonso e i visionari è un’opera modernissima, calato in un’attualità più bruciante di qualsiasi cronaca. Perché affronta ciò che ancora ci spaventa: ciò che gli uomini hanno il coraggio di pensare e di tramutare in azione, o di vedere direttamente realizzato, senza volerlo riconoscere. Mi viene in mente “I demoni” di Dostoevskji, spiritualmente legato a questo romanzo da un’identica tensione emotiva.
Se poi quest’interrogazione ci sembra inaccettabile, bé… ci rimane sempre la Fallaci.

Claudio Ughetto.