Dal 'Corriere'.
Pound, l’eroico furore rimasto incompreso
di MARZIO BREDA
Una stanza con le finestre sulla laguna. Dentro la stanza un inginocchiatoio, candelabri, gladioli e garofani, ed Ezra Pound sul letto di morte. Il corpo, magrissimo, un fascio di nervi, dava l'idea di una grande energia appena disattivata. Il volto era una filigrana di rughe. I capelli e la barba, un candore assoluto. Chiusi gli occhi blu-zaffiro con i quali si spiegava ormai più che con le parole. Qualcuno disse: «Nessun poeta somiglia così tanto, addirittura impudicamente, a un poeta». Era vero, e fino all'ultimo incarnò la maestà della poesia e l'orgoglio della solitudine. Fino a quel primo novembre 1972, quando ben pochi vennero a rendergli omaggio alla vigilia del viaggio verso San Michele, l'isola cimitero di Venezia: i parenti e rari amici, quattro giunti dai quattro punti cardinali, come personaggi del suo «Catai». Poca gente allora, per l'Omero americano, e poca oggi a ricordarlo. Quasi un torto occuparsene perché era un autore proibito, e tale è rimasto per trent'anni. Ha vissuto due vite, e una ha schiacciato l'altra. Il primo Pound, rispettatissimo poeta e mediatore di culture, dura sino agli anni Trenta ed è quello alla cui porta bussa gente come Joyce, Hemingway, Eliot, per chiedergli aiuto e consigli, ottenendoli. Il secondo Pound comincia quando si trasferisce in Italia e si schiera contro Roosevelt e con Mussolini, ciò che gli vale un'incriminazione per tradimento negli Usa, il carcere a Pisa e 13 anni di manicomio di Washington, senza processo perché «spiritualmente confuso e incompetente a difendersi»: lo liberano, dopo ripetuti appelli internazionali, come «non pericoloso ma non guarito». «È stato incatenato a un ingiusto marchio di follia», recriminano gli ammiratori che ne hanno fatto l'oggetto di un culto speciale, spesso eleggendolo tra i profeti di una destra spiritualista. «No, quell'accusa non si può derubricare», ribattono i critici, i più bendisposti dei quali (non molti, a sinistra) frugano tra i versi della vecchiaia cercando gli indizi di un pentimento.
«Atteggiamenti entrambi sbagliati, frutto di un falso dilemma che continua a rinviare un confronto con la sua opera», taglia corto Mario Luzi, uno dei maggiori poeti italiani. «Infatti - aggiunge -, l'accusa di fascismo è inconsistente, per lui». Una tesi ardua da sostenere, specie se si pensa alle invettive radiofoniche da Roma, «Europe calling, Ezra Pound speaking...», durante le quali martellò gli Usa. Ma, riflette Luzi, «quel suo entusiasmo per Mussolini mi sembra dovuto più che altro a ingenuità, e l'ha pagato oltre il debito. Mentre il furore contro i circuiti della finanza, quella ebraica di Wall Street anzitutto, gli era fermentato dentro per un sottofondo provinciale, di puritano cresciuto nell'America fedele ai princìpi dei Padri Pellegrini e che giudica la potenza finanziaria di per sé un oltraggio».
Già: «il danaro che produce danaro», l'usura, fu l'ossessione del secondo Pound. Il quale elaborò una dottrina economica ispirata a certi studi eterodossi - di C. H. Douglas, ad esempio - sperando di convertirvi il duce. Non per nulla scrisse: «I tried to educate him», ho tentato di educarlo. Non per nulla nel '39 tornò in patria per convincere Roosevelt a non dichiarare guerra a Roma, inutilmente perché non fu ricevuto. E non per nulla spiegò al ministro della giustizia Usa, che l'aveva messo sotto inchiesta: «Non ho parlato riferendomi a questa guerra, ma per protestare contro un sistema che crea una guerra dopo l'altra».
L'Italia gli pareva «un Paese non corrotto dalla lebbra capitalistica», adatto a realizzare le sue idee. Ma, notò Prezzolini, «la segreteria di Mussolini era più informata su Pound che non Pound sul fascismo». E lo usò.
Basta pensare al memorandum annotato dal segretario del dittatore, dopo aver letto le lettere nelle quali «uncle Ez» anticipava le proprie teorie e chiedeva udienza: «Questo progetto è strampalato, concepito da una mente nebbiosa, sprovvista di ogni senso della realtà... ma tenuto conto dell'affetto che il Pound porta all'Italia, bisognerà fargli presente...».
Dice Luzi: «Anche quegli appunti servono a far luce su un abbaglio nato da un'utopia e dimostrano l'utilizzazione che il regime fece delle sue ingenuità. Le invettive antiebraiche non sono giustificabili: un "error", certo terribile. Ma sappiamo in quale magma di umori Pound le aveva sedimentate, con scopi nei quali non c'era nulla di malvagio, semmai un astratto impulso di giustizia».
Dunque, insiste, «possiamo finalmente liberarlo dalla "radiazione" scattata nel 1945 in America. Fu seppellito in manicomio con il seguente calcolo: meglio un poeta pazzo che un poeta, un grande poeta, traditore. C'era un imbarazzo di fondo: Pound contestava agli americani una decadenza basata su peccati capitali in grado di contraddire l'immagine di sé che gli Usa proponevano. Una cosa insopportabile, al di là dell'Atlantico, poiché c'era del vero».
Luzi rammenta la tragica coerenza che quella specie di cavaliere del Graal mostrò il giorno dell'arresto, il 3 maggio 1945, davanti a un funzionario dell’Fbi: «Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee non valgono niente o non vale niente lui». Tuttavia preferisce lo sfogo che il poeta fece ad Allen Ginsberg nel '67, rompendo il «tempus tacendi» nel quale si proteggeva: «Ho perduto la testa in un uragano».
«È una metafora che compendia l'intero Pound», dice Luzi. «L'uragano al quale alludeva fu certo la guerra, ma forse anche il grandioso e babelico disegno dei Cantos . Lui tentò il poema del Novecento, secolo terribile, frastagliato, diviso. Volle riportare la poesia nella storia, con la radicalità di un'utopia: un lavoro immenso, quasi sacrificale. Non è stato tra gli autori che mi sono venuti incontro "spontaneamente", quanto una presenza acquisita di riflesso, perché di lui mi parlavano tanti amici, da Bilenchi a Montale. Dei suoi versi mi colpisce sempre la capacità di raccogliere pietre rare dalla letteratura di ogni tempo, ed è straordinario come riuscisse a includerle e dare a tutte bellezza. Anche per questo dico che il fascismo non c'entra con lui. C'entrano altre cose, più serie e contraddittorie insieme. Il caso va chiuso. Gli dobbiamo gratitudine per aver contribuito a far rifiorire Dante come un maestro attivo, dopo troppo petrarchismo. Lo vidi un'unica volta, a Spoleto nel '66: mi parve una visione di infelicità. Un’ombra chiusa nel suo segreto».