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  1. #51
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    Telecom, Alitalia, Finanziaria e Napoli, fuori controllo


  2. #52
    nazionalismo
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    La "Questione Napoletana" riguardava il dibattito già dall'età della Destra Risorgimentale. L'inchiesta sul Mezzogiorno di Sonnino e di Franchetti, direttori della rivista "Rassegna Settimanale" di Firenze, (Franchetti 1874, sulle provincie di terraferma, e Franchetti-Sonnino, 1876, sulla Sicilia) allarmava sin da allora sulla questione "sociale" di Napoli e del Mezzogiorno.
    Le loro soluzioni: -applicare integralmente e senza particolarismo le leggi nazionali, al di là da interferenze locali (con sostituzione di molti pubblici funzionari); -la diffusione dell'istruzione prechè prendessero coscienza dei nuovi diritti che erano garantiti dalla legge, e della legalità, in modo da opporsi più fermamente a baroni e briganti; -una seria politica di opere pubbliche senza interferenza dei gruppi di pressione locali sull'assegnazione e la conduzione degli appalti, come era già avvenuto in occasione dei primi provvedimenti "speciali>" per la Sicilia.
    Il tutto accompagnato da riforma sostanziale dei patti agrari e del sistema fiscale, in modo da consentire la formazione una classe di produttori, radicati sul fondo ma economicamente e politicamente indipendenti: avrebbero dovuto essere la spina della nuova società della Sicilia e e dell'intero Mezzogiorno.
    Prevalsero evidentemente invece la tesi di chi negava l'esistenza di una questione sociale nel Mezzogiorno, o di chi si richiamava all'assistenzialismo, o addirittura all'antropologia.

  3. #53
    nazionalismo
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    Purtroppo a Napoli, e non solo, il familismo amorale imperversa e degenera violentemente.
    I cittadini napoletani per bene (che sono la maggioranza) che si ribellano all'illegalità sono lasciati soli.
    Non è chiaramente solo un problema di ordine pubblico, ma l'Esercito è bene mandarlo e subito per difendere la Legalità Repubblicana: si darebbe sostegno materiale e morale alle persone per bene.
    Ma per bonificare, l'Esercito dovrebbe operare casa per casa in alcune zone.
    Noi purtroppo quest'ultima operazione non possiamo farla. Siamo uno Stato di Diritto..
    Speriamo che il Diritto tuteli almeno quel povero tabaccaio del napoletano che ha agito per legittima difesa uccidendo un malvivente e ferendone un altro, ora che è indagato per Omicidio volontario e lesioni aggravate (sperando che l'accusa possa essere modificata in eccesso colposo o rientrare nei casi previsti dalla recente normativa sulla legittima difesa). In attesa che il Governo si decida a mandare l'Esercito, il suddetto tabaccaio è anche minacciato da parenti e amici del malvivente ucciso.

  4. #54
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    Contro la Finanziaria cresce uno scontento generalizzato perché non sono credibili i provvedimenti adottati/Le misure si basano su dati artefatti della realtà italiana. I progetti di Padoa-Schioppa e Visco finiranno per avere effetti depressivi sull'economia
    Come aumentare la burocrazia e trascurare le Regioni del Mezzogiorno

    di Gianfranco Polillo

    Criticare la "finanziaria", ormai, è come sparare sulla Croce rossa. Nessuno, salvo Eugenio Scalari e la CGIL, la difende. Nessuno ne sostiene le ragioni. Al contrario un coro di critiche ed un diluvio di rimproveri. Intere categorie in lotta. Professionisti bistrattati. Managers e dirigenti in profonda crisi di identità. Lo stesso popolo di sinistra guarda esterrefatto e inonda i propri santuari ideologici – "La Repubblica" in testa – di lettere, fax ed e-mail per esprimere il proprio disappunto. Mal comune mezzo gaudio: come cercano di giustificarsi Tommaso Padoa Schioppa e Vincenzo Visco? Non scherziamo. Un'opposizione così diffusa e generalizzata non si era mai vista. Essa abbraccia intellettuali e tecnici. Ceti popolari e semplici massaie. Giovani professionalizzati e disoccupati. Scalpita il Centro-nord, mentre il Mezzogiorno – la vittima principale del mancato sviluppo italiano – è costretto a fare i conti con le promesse, diffuse a piene mani nel programma elettorale dell'Ulivo, e già disattese nei primi atti del nuovo Governo.

    Uno scontento così generalizzato richiede una qualche spiegazione. Eccesso di egoismo? Incapacità di vedere un barlume di primavera dopo il necessario inverno? Rifiuto di contribuire al risanamento del Paese? Indubbiamente questi sentimenti sono presenti, ma non è questa la chiave per comprendere le ragioni di fondo di una protesta così diffusa e radicale. Essa trae origine soprattutto nella non credibilità di una manovra costruita su dati artefatti della realtà italiana. Il teorema che doveva sorreggerla è la crisi del Paese. Un'economia allo stremo. Una crisi finanziaria senza prospettive. Un baratro in cui rischiava di perdersi gran parte della società italiana. Non era stato questo il leit motif che aveva accompagnato la campagna elettorale dell'Ulivo? E di questo schema ideologico il Governo è rimasto prigioniero. Come spiegare altrimenti il richiamo alla crisi del 1992, più volte evocata dal ministro per l'economia? O lo spettro del default argentino, di cui ancora qualche giorno fa ha parlato il Vice ministro Visco?

    La ripresa economica

    Quelle immagini erano e sono semplicemente il frutto di una costruzione retorica, incapace di cogliere gli elementi di novità di un Paese che, nonostante tutto, non si è seduto. Non ha tirato i remi in barca. Al contrario, nonostante una crisi strutturale profonda e dagli incerti approdi, si sta dando da fare per arginare il peggio e sperare in un domani migliore. Che non potrà arrivare se il processo non sarà guidato con intelligenza e determinazione. Se l'azione di Governo, invece di andare contro tendenza, non riuscirà a convogliare quella spinta verso obiettivi di riforma e di crescita economica. Eccesso di ottimismo? Sono i dati che ci danno ragione. A marzo pensavamo che il PIL, quest'anno, fosse cresciuto solo dell'1,3 per cento. A luglio abbiamo rivisto le previsioni all'1,5 per cento. Ora siamo già all'1,7. Domani non sappiamo. Anche se dovremo tener conto dell'azione poco felice del Governo e del suo impatto negativo sulle aspettative di crescita del Paese.

    La crisi finanziaria

    Altro dato drammatizzato oltre misura. A marzo avevamo previsto un deficit pubblico pari al 3,8 per cento. A luglio, a seguito di un'improvvida due diligence, le previsioni erano divenute più cupe, nell'indicare una soglia che avrebbe superato il 4,1 per cento. Poi il DPEF ha mitigato il pessimismo, riportando l'asticella al 4 per cento. Per poi farla scendere ancora, nella successiva nota di aggiornamento, al 3,6 per cento. Ultimo dato confortato dalle analisi della Relazione revisionale e programmatica. Nel frattempo, tuttavia, l'ISTAT certificava, andando quindi oltre il terreno scivoloso delle previsioni, per il primo semestre di quest'anno, un deficit pari al 2,8 per cento del PIL. Dato che dimostra la robustezza di un risanamento avviato, anche se non concluso. Merito soprattutto della capacità degli italiani di reagire positivamente ai morsi della crisi.

    La manovra straordinaria

    Di questo scenario in movimento, la manovra del Governo non ha tenuto alcun conto. Ci si è invece comportati come se fossimo al 1992, con un intervento che, anche nelle cifre, richiama quel lontano periodo. Ed ora come allora è stato un diluvio di tasse e di balzelli che avranno come unica conseguenza quella di far abortire una ripresa, anziché consolidarla. Un'azione ingiusta e poco rispettosa. Ingiusta perché i risultati, in termini di maggiore equità, sono risibili. Secondo i calcoli della Banca d'Italia, il beneficio per i redditi più bassi (9.000 – 15.000 euro) non supererà i 150 euro all'anno: poco più di 10 euro al mese. Al lordo tuttavia del maggior carico contributivo e del fiscal drag, che ogni anno riduce i redditi netti ed impingua le casse dello Stato. Poco rispettosa perché non tiene conto dello sforzo fiscale, sostenuto spontaneamente dalla stragrande maggioranza dei contribuenti. E' di circa 30 miliardi di euro il bonus che l'Erario si appresta ad incassare nel prossimo anno. Solo in minima parte (poco più di 6 miliardi) conseguenza del decreto legge Visco - Bersani, le maggiori entrate fiscali sono il frutto della ripresa economica e di una strategia volta a tratteggiare un fisco più amichevole e non animato da spirito di rivalsa. Un fisco che, negli anni passati, aveva dato molto, sotto forma di condoni. Ma preteso altrettanto. Spingendo il contribuente all'auto denuncia, l'aveva, al tempo stesso, portato ad emergere. E quindi a comportarsi di conseguenza nel successivo esercizio finanziario. Tutto questo rischia oggi di svanire come un miraggio nel deserto. Il fisco di domani somiglierà sempre più al grande fratello di Orwell. Regole minuziose e penetranti. Adempimenti amministrativi cervellotici. Costi di gestione sempre più elevati per districarsi nelle centinaia di norme varate dalla fertile fantasia dei nuovi burocrati di Stato.

    Una contabilità schizofrenica

    Sono 217 gli articoli del disegno di legge della Finanziaria. Ad essi si aggiungono i 48 del decreto legge. Quindi la delega fiscale, da cui scaturiranno pagine e pagine di norme nei successivi decreti legislativi. Un diluvio di disposizioni da far impallidire lo stesso Noè. Il Parlamento, a cominciare dai suggerimenti impropri dei singoli ministeri, ci metterà del suo moltiplicando i volumi legislativi come in un gioco di specchi. Il risultato faticoso di questo inutile – lo vedremo tra un attimo – processo saranno tomi di norme con relativi adempimenti amministrativi da richiedere eserciti di consulenti, fiscalisti, commercialisti. Ossia l'ausilio di quegli stessi soggetti contro i quali il Governo ha scatenato la Vandea dei propri supporters. Una giungla sempre più intricata ed inestricabile su cui far sventolare il finto bandierone della semplificazione amministrativa. Che una specifica commissione, sempre prevista in Finanziaria, dovrebbe disboscare. Il ridicolo, o meglio il tragico, della situazione è così evidente da non richiedere ulteriori commenti.

    Ma qual è l'utilità di questa barocchismo? Le norme che contano, ai fini del risanamento finanziario, si contano sulle punta delle dita. Sono appena 6 gli articoli ai quali è affidato l'effettivo contenimento del deficit, che vale per Maastricht. Da essi derivano maggiori entrate per circa 10 miliardi di euro, che da soli fanno l'80 per cento circa dell'intera manovra. Sono le norme sulla previdenza quelle da considerare. Esse prevedono un forte aumento dei contributi sociali ed il trasferimento del TFR dalle imprese all'INPS. Da queste maggiori entrate, acquisibili con immediatezza, deriva il contenimento dello squilibrio previdenziale e con esso una corrispondente riduzione del disavanzo pubblico. Volendo, quindi, si poteva fare una finanziaria snella, com'era nell'auspicio del legislatore, quando modificò la legge 468 del 1978, che sorregge proceduralmente l'iter parlamentare della legge finanziaria. Si è seguita, invece, la strada opposta. E la scelta non è casuale.

    Non è casuale, perché lo spirito effettivo della proposta governativa non è la riduzione della spesa, ma il suo aumento. Lo dimostra l'analisi attenta dei documenti di bilancio. Il Governo aveva ereditato dalla precedente legislatura un deficit dello Stato pari ad appena 3.886 milioni di euro. Un'inezia. Tant'è che il decreto Visco Bersani aveva potuto facilmente farvi fronte, trasformandolo in un surplus di 3.930 milioni. Il merito era stato soprattutto dei governi precedenti. Dal 1996 ad oggi, infatti, la spesa dello Stato centrale era diminuita di circa 2 punti di PIL, mentre era più che aumentata (+ 2,7 punti) quella degli Enti locali: regioni, province e comuni. Oggi questo andamento virtuoso si inverte. La finanziaria aumenta, infatti, la spesa dello Stato centrale di 26.371 milioni di euro, ricreando un deficit – il saldo netto da finanziare – di 22.400 milioni. E senza diminuire significativamente quella locale.

    Insomma, la finanziaria, con una mano dà e con l'altra toglie. Riduce il deficit da contabilizzare ai fini di Maastricht, aumenta quello sommerso a carico del bilancio dello Stato. Va da sé che, nei prossimi anni, questa cambiale andrà comunque onorata. Ma saranno, forse, altri a gestirne le relative pene. Fosse almeno un deficit che dà forza alla ripresa. L'analisi dettagliata delle mille disposizioni di legge è, invece, un grande minestrone. Si va da una distribuzione erratica degli sgravi fiscali, all'incentivazione di alcuni consumi (la rottamazione dei frigoriferi e le palestre), al sostegno – questo giusto – degli investimenti. Il tutto, però, senza un'intima coerenza, ma con una distribuzione a pioggia sagomata sui presunti interessi del frastagliato blocco sociale che sostiene la maggioranza parlamentare. Ne risulta un gioco a somma zero. Anzi negativo, come dimostrano le proteste messe in atto dagli stessi presunti beneficiari delle striminzite provvidenze.

    Alla base di tutto emerge con forza il limite, non solo politico ma culturale, di questa maggioranza. Un impianto normativo così esteso non vuole soltanto travolgere quanto realizzato nella passata legislatura. Ma rendere visibile una profonda discontinuità: parola magica usata per portare a termine uno spoil system radicale della precedente dirigenza pubblica. Una sorta di rivoluzione, che si risolve nel suo contrario ed assume le caratteristiche del Concilio di Trento e della sua controriforma. Errore tipico di ogni giacobinismo che vorrebbe cambiare il normale corso della vicenda storica con l'intuizione illuministica di un "meglio che è sempre nemico del bene". Sostituire la norma al mercato, imporre dall'alto modelli di vita e di consumo. Valga per tutti l'esempio dei SUV, che pure non amiamo. Far piangere i ricchi, senza aiutare i poveri. Questo è l'impianto culturale che giustifica ampiamente quel reticolo di norme che connota la legge finanziaria. Dove c'è tutto, ma manca l'essenziale.

    Il grande assente

    Luigi Spaventa, in un bell'articolo su "La "Repubblica", paragonava questa finanziaria ad un'autostrada a tre corsie: risanamento, equità, sviluppo. Salvo poi dover ammettere che l'ultima corsia era interrotta. E che di sviluppo si parlerà, forse, in una diversa occasione. Non è una critica da poco. Non lo è se consideriamo il quadro macro-economico da cui siamo partiti. Esiste una ripresa spontanea dell'economia italiana. Fragile ed incerta. Andava quindi sostenuta e rafforzata. La finanziaria tutto fa, di tutto si occupa, meno che di questo. Venendo meno, quindi, alla sua ispirazione originaria. Che, ancora oggi, dovrebbe giustificare i privilegi accordati dai regolamenti parlamentari a questa corsia preferenziale. Naturalmente, se non c‘è sviluppo; non c'è nemmeno benessere. Si può ridistribuire quello che si produce in più, non certo ritagliare sempre e solo la stessa torta. Perché alla fine le fettine più piccole andranno sempre a coloro che, nel Paese e nella società, hanno meno potere.

    Questo è il caso, soprattutto, del Mezzogiorno. Dove le condizioni di vita sono quelle che sono. Dove la criminalità ha la forza che ha, fino a svolgere, quasi, un ruolo di supplenza. Dove le donne e le giovani generazioni sono costrette, pur di occuparsi, a lavorare in nero. Dove tutto rischia di regredire. Ebbene la chiave di emancipazione del Mezzogiorno è lo sviluppo, non l'elemosina del Centro. La finanziaria contiene norme specifiche, che ripropongono la fiscalità di vantaggio a favore di queste Terre. Sono sottoposte, tuttavia, ad una clausola sospensiva. Vale a dire il beneplacito della Commissione europea. Il responso sarà positivo? Ci auguriamo di sì, anche se non sottovalutiamo le difficoltà. Un conto sarebbe stato inserire questa proposta in una linea complessiva rivolta allo sviluppo. Un altro farne un fiore all'occhiello per dire che qualcosa si vuole fare per il Mezzogiorno. Con il retro - pensiero che saranno altri a negare anche questa piccola provvidenza.

    tratto da http://www.pri.it

  5. #55
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    Sessanta anni di Svimez: un osservatorio sul Meridione

    Martedì 12 dicembre, ore 11,00, a Roma, presso la Sala delle Conferenze della Biblioteca nazionale, alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, si svolge una manifestazione per ricordare i 60 anni della costituzione della Svimez. Vi partecipa il segretario nazionale del Pri Francesco Nucara. Ricordiamo che la Svimez, Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, costituita a Roma il 2 dicembre 1946, ha per statuto "lo scopo di promuovere, nello spirito di una efficiente solidarietà nazionale e con una visione unitaria, lo studio delle condizioni economiche del Mezzogiorno d'Italia, al fine di proporre concreti programmi di azione intesi a creare e a sviluppare le attività industriali più rispondenti alle esigenze accertate". L'attività della Svimez si pone su due linee. La prima è costituita dall'analisi sistematica e articolata della struttura e dell'evoluzione dell'economia del Mezzogiorno e dello stato di attuazione delle politiche di sviluppo. La seconda linea di attività si basa sulla realizzazione di iniziative di ricerca sui vari aspetti del problema meridionale, finalizzate sia ad esigenze conoscitive ed analitiche sia alla definizione di elementi e criteri utili ai fini dell'orientamento degli interventi di politica economica regionale e nazionale. Insomma, una sorta di "think - tank", per dirla con termine anglosassone (che ha visto, fra gli altri, i nomi di Morandi, Giordani, Paratore, Cenzato, Saraceno) dove si producevano - e si producono - approfonditi documenti intesi come base di riflessione e anche di intervento per quanto riguarda eventuali provvedimenti governativi. Ad esempio, non è da sottovalutare, nella storia della Svimez, l'influenza che questo istituto di ricerca ebbe nella "Nota aggiuntiva" che Ugo La Malfa presentò nel 1962, nella quale la "genesi meridionalistica" della politica di piano è ben presente.

    tratto da http://www.pri.it

  6. #56
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    Le "liberalizzazioni" di Bersani


  7. #57
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    Sud questione nazionale
    Una politica per realizzare gli impegni presi

    La giusta soddisfazione per i risultati ottenuti dal Popolo della libertà non deve impedire una riflessione più approfondita sui dati elettorali. Essi non sono stati uniformi su tutto il territorio nazionale. Silvio Berlusconi ha vinto grazie al suo carisma personale ed alla forza di un programma che non prometteva la luna.



    Ha convinto perché ha parlato non dei sogni, ma dei problemi effettivi del Paese e della pesante situazione che Romano Prodi lascia in eredità. Era quindi inevitabile che, dove più forte è il disagio sociale, la risposta sarebbe stata più determinata.

    Il Popolo della libertà ha vinto, perché il Mezzogiorno gli ha dato fiducia. Se non ci fosse stato un voto quasi plebiscitario, oggi, a salire sullo scranno di Palazzo Chigi sarebbe Walter Veltroni. Sono i dati elettorali a dimostrarlo. Nel Sud il Popolo delle libertà ha conquistato il 47,7 per cento degli elettori. Con una differenza, rispetto alle altre macro regioni del Paese, che va da un minimo di 10 punti (le regioni centrali) ad un massimo di 15, nel caso del Nord est. Anche in valori assoluti la differenza è rilevante. Nel Sud, per il Senato (ma lo stesso vale per la Camera, seppure in misura diversa), i voti conquistati in più, rispetto al Nord, sono più di 31 mila. E circa 800 mila, nei confronti del Centro.

    Di queste differenze si dovrà tenere debito conto. Il Sud ha votato compatto, garantendo a Silvio Berlusconi una leadership indiscussa, dopo aver voltato le spalle al centro sinistra. Le ragioni di questa scelta sono evidenti. Delusione per l'abbandono, incapacità dei dirigenti locali – tutti di sinistra – di garantire un minimo di governabilità. Napoli, con i suoi cumuli di spazzatura, insegna. Peggioramento delle condizioni di vita, nel momento in cui le prospettive della società italiana destano allarme ed una crescente insicurezza sociale. Insomma il tema del Mezzogiorno, del suo sviluppo, della sua crescita democratica, si impone nuovamente come uno dei punti fondamentali della prossima agenda governativa.

    Si impone – ed è questo la novità – al di fuori della retorica meridionalistica: cavallo di battaglia inconcludente di gran parte della cultura di sinistra. Non delegando ad altri il proprio destino, il popolo del Sud è sceso in campo in prima persona. Sebbene consapevole delle difficoltà del Paese, non intende rinunciare alla prospettiva di un proprio riscatto. Per questo non chiede indulgenze, ma una politica seria che traduca nei fatti impegni sempre enunciati e mai realizzati. Se il Sud è una grande risorsa nazionale, come tutti affermano, è ora di dimostrarlo, con politiche adeguate. Che sono poi quelle enunciate nel programma elettorale del Popolo della libertà: aspettative che andranno onorate.

    Il Sud, quindi, non chiede poltrone; ma un equilibrio politico in cui possa riconoscersi tutta la società italiana. Che non sia, quindi, il vento del Nord a prevaricare. L'Italia, se vuole competere a livello internazionale, come mostra l'esperienza tedesca, non può trasformarsi in una piccola patria. Deve rimanere un grande Paese. Ed il Sud, se coinvolto, è pronto a fare la sua parte.

    di Francesco Nucara
    Roma, 21 aprile 2008

    tratto da http://www.nuvolarossa.org/modules/n...p?storyid=4924

  8. #58
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    Quale federalismo per il Sud/Necessari per lo sviluppo investimenti produttivi
    I guai prodotti dallo statalismo nel Mezzogiorno
    Indispensabile una classe dirigente di alto livello per le regioni svantaggiate

    di Gianni Ravaglia

    Roberto Saviano, nel suo libro Gomorra, racconta la storia di Pasquale, un sarto di Arzano. Uno dei tanti paesi del napoletano dove decine di fabbriche, gestite da imprenditori più meno contigui alla camorra, producono vestiti, a costi cinesi, per le grandi griffe internazionali. Il tutto rigorosamente in nero. Pasquale, scrive Saviano, ha smesso di fare il sarto la sera in cui, guardando in Tv la notte degli Oscar, si rese conto che il vestito indossato da Angelina Jolie, un completo fatto su misura, di raso bianco, bellissimo, lo aveva cucito lui. Era andato a prendere la stoffa, proveniente dalla Cina a spese del committente, al porto di Napoli e lo aveva cucito, come solo lui sapeva fare, sulle misure che gli avevano consegnato. "Questo va in America", gli avevano detto. Quando si rese conto che per seicento euro al mese sfornava vestiti da Oscar, crollò. Piantò il lavoro da sarto e si mise a fare il camionista. Non siamo di fronte ad attività criminali, tipiche della camorra. Siamo di fronte ad una realtà produttiva, gran parte di quel venti per cento di economia sommersa che nemmeno Visco vuol fare emergere. Lo dimostra il fatto che, se son vere le crude pagine di Saviano, non può passare inosservato all'occhiuta Guardia di Finanza che interi paesi, con migliaia di persone, vivono di lavoro nero. Lo stesso sindacato, abbarbicato al contratto unico nazionale e alla difesa di chi non lavora più, finge di non vedere questa Italia che entra nell'illegalità perchè quel contratto non se lo può permettere. Come le tre scimmiette, Stato, Sindacato e Confindustria non vedono, non sentono, non parlano. Sanno che, se aprissero gli occhi, centinaia di migliaia di lavoratori in nero perderebbero anche il misero stipendio che la rete di fabbriche clandestine, magari finanziate dalla camorra, passa loro. E così, mentre Visco si compiace di diffondere i dati di chi le tasse le paga, Saviano scarica le responsabilità sul capitalismo. Che ovviamente non c'entra nulla con un tessuto economico sommerso che si fa regole proprie, perché non riesce a vivere con quelle dettate dallo Stato. La domanda che, invece, ci si deve porre è: per garantire legalità e sviluppo, fermo il principio che lo stato di diritto deve valere per tutti, sono le regole dello Stato che vanno cambiate o sono le aziende in nero che vanno chiuse? La risposta non può prescindere dal constatare che il declino economico del sistema produttivo italiano è assimilabile a quello di aziende che hanno spese generali e amministrative fuori controllo, prodotti per lo più obsoleti, pur con punte di eccellenza, scarsa innovazione e preparazione del personale, ferrea difesa corporativa del posto, quand'anche improduttivo. Aziende ove, soprattutto, manca quello che gli esperti manageriali chiamano la "mission". Cioè quel senso comune degli obiettivi da perseguire che solo una classe dirigente di livello può fornire. Sta di fatto che i membri del sistema Italia si arrabattano come possono. I più lavorano sodo, nella legalità, ma sbraitano perché le spese improduttive dello Stato sono sempre troppe e, loro, pagano per tutti. Altri, stufi di pagare, investono fuori dall'Italia: delocalizzano all'estero. Altri sopravvivono, arroccati nelle riserve corporative. Altri, ancora, delocalizzano in casa. Per campare, vivono nell'illegalità. Quando nelle grandi aziende industriali ci si trova in situazioni di analoga disgregazione, per recuperare comuni obiettivi, prima si smembrano i centri produttivi e di costo e, poi, si rifocalizzano responsabilità, obiettivi e controlli. La cultura collettivista oppone a tali ragionamenti che lo Stato non è una impresa, ritagliandosi così il diritto di tassare e spendere a proprio comodo, anche a rischio di mandare fuori mercato le imprese. La cultura liberale, invece, vuole misurare il rapporto tra costi della sovrastruttura statale e capacità produttiva del sistema economico che la tiene in piedi. Stante il costo della nostra sovrastruttura, è evidente che sono le regole dello Stato che vanno cambiate. Cambiamento che, a questo punto, solo il federalismo può garantire. Federalismo che non serve solo al nord. Il nuovo presidente della regione Sicilia, Lombardo, ha dichiarato che vuole fare della Sicilia la nuova Irlanda, che con la tassa piatta del 20% e i bassi costi statali ha richiamato investimenti da tutto il mondo. Questa è la strada! Dopo i fallimenti dello statalismo meridionalista, un federalismo che riassegni responsabilità, rifocalizzi obiettivi, differenzi salari e costi, può davvero rappresentare la molla per far crescere anche il Mezzogiorno, per far rientrare nella legalità e valorizzare i tanti "Pasquale".

    tratto da http://www.pri.it/new/6%20Maggio%202...ralismoSud.htm

  9. #59
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    Malasanità e mali italiani
    Se viene meno il senso della responsabilità individuale e nazionale

    Da garantisti, attendiamo che l'iter giudiziario si concluda. E aggiungiamo anche, a scanso di equivoci, che non ci è piaciuta la sortita dei pubblici ministeri, i quali si sono affrettati a dichiarare "fondamentali", nell'inchiesta, le intercettazioni telefoniche. Una sortita troppo "tempestiva" per essere neutra, a conferma del fatto che i magistrati, se parlassero di meno, renderebbero un servizio prezioso al funzionamento della giustizia.

    Detto questo, se gli addebiti a carico di proprietari, dirigenti e medici della clinica Santa Rita di Milano dovessero rivelarsi veri – e dai primi riscontri temiamo che abbiano un reale fondamento – lo spaccato complessivo dell'Italia si arricchisce di un nuovo e agghiacciante capitolo. Qui non è più in discussione il cattivo funzionamento di aspetti marginali o specifici del sistema Italia; è in discussione il sistema stesso.

    L'immagine di un Mezzogiorno devastato dalla delinquenza organizzata e dalla spazzatura esposta al ludibrio internazionale che si contrappone ad un Nord operoso e funzionante viene contraddetta prima dalla solerzia con cui le imprese settentrionali hanno dirottato, con la complicità della camorra partenopea, i rifiuti tossici verso il Sud; e ora dal cinismo con cui medici e dirigenti di una clinica milanese distribuivano morte e crudeltà per ottenere finanziamenti dalla regione "guida" del Paese.

    Ma i capitoli che si potrebbero aprire sono, purtroppo, infiniti. Dalle università dove la ricerca e l'insegnamento sono distribuiti con criteri in genere "baronali" (di "baroni universitari" parlava già la "Voce" di Prezzolini all'inizio del secolo scorso), ma sempre più spesso addirittura "familistici"; ad una magistratura attenta molto di più alla tutela del suo potere in quanto corporazione che all'amministrazione della giustizia in quanto servizio. Dalle imprese che cercano di restare competitive ricorrendo al lavoro nero, all'evasione fiscale o alla violazione delle norme sulla sicurezza invece di affrontare il mercato con gli strumenti offerti dalla tecnologia e dall'organizzazione aziendale o di battersi per modificare "lacci e lacciuoli" troppo pervasivi; alla difesa miope di privilegi di ordini e categorie, a cominciare da quelli dell'informazione, che gabellano per libertà di stampa la tutela dei loro posti e dei loro stipendi. Dalle piccole consorterie localistiche, che bloccano la costruzione di opere pubbliche indispensabili e moltiplicano magari il numero di province e comunità montane costose ed inutili; all'ambientalismo camuffato, che serve a tutelare, più che l'ambiente, le carriere degli ambientalisti e dei loro parenti.

    Per non parlare, infine, degli intellettuali. Che si sono posti al servizio più o meno organico delle peggiori ideologie del secolo con l'intransigenza di analisi delle quali la storia ha fatto strame e che continuano ad impartire lezioni di cui si farebbe volentieri a meno.

    L'impressione, insomma, è quella di vivere in un paese squinternato. Dove si scambia l'arbitrio per liberalismo e l'assistenzialismo per solidarietà. Dove le regole si moltiplicano ma sono sempre più confuse e, soprattutto, sempre più disattese. Un paese nel quale, dopo tanto parlare di liberalismo, sono venuti meno il senso e il principio della responsabilità individuale su cui il liberalismo si fonda.

    Si sono dispersi, insieme, lo spirito unitario e la coscienza repubblicana. Questa, temiamo, è l'Italia del ventunesimo secolo.

    Roma, 10 giugno 2008

    tratto da http://www.nuvolarossa.org/modules/n...p?storyid=5053

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    Nucara è intervenuto sulle risorse tagliate al Mezzogiorno. La questione del Ponte
    Il governo si ricordi del Sud

    Intervento dell'On. Francesco Nucara presso la Commissione Ambiente e Lavori Pubblici della Camera dei deputati, 8/10/2008.

    Calabria e Sicilia hanno dato un contributo determinante alla riduzione di spesa del Ministero delle infrastrutture. E poco importa se, attraverso una necessaria triangolazione, quelle risorse sono andate a coprire l'abolizione dell'ICI.

    Sta di fatto che le risorse sottratte al Mezzogiorno ammontano a 2.414,5 milioni di euro per il 2009. Mentre i tagli complessivi – escludendo quelli relativi alla tabella del Ministero dell'economia - a 2.098,1 milioni di euro.

    Ne consegue che il Mezzogiorno non solo ha finanziato il budget del Ministero, ma ha contribuito alla manovra complessiva per l'ammontare residuo.

    Si tratta ora di accelerare le procedure per l'avvio sul Ponte sullo Stretto, che non può rimanere tuttavia una cattedrale nel deserto. E' necessario che la sua realizzazione comporti una riqualificazione urbanistica e sociale delle zone che saranno interessate ai lavori. Per ottenere questi risultati occorre un coordinamento puntuale delle diverse iniziative.

    Sarebbe pertanto opportuno giungere alla costituzione di una specifica Agenzia che realizzi le necessarie sinergie tra tutti i soggetti interessati e diventi l'interlocutore unico della Società per lo Stretto.

    Non ho idee preconcette nei confronti del Ponte, né positive né negative. Tuttavia voglio ricordare che, di fonte a tale opera, a Messina 3336 famiglie vivono ancora nelle baracche costruite nel 1908 dopo il terremoto. Oltre al problema sociale, esiste anche un problema ambientale. Infatti, oltre a fogne a cielo aperto, crisi idrica, rifiuti lasciati per strada c'è da sottolineare che molte baracche hanno i tetti di amianto. E il Comune di Messina pretende addirittura il pagamento dell'ICI.

    Il Governo deve dimostrare verso il Mezzogiorno la stessa buona volontà che dimostra per gli altri territori. Non posso non sottolineare come a Venezia siano state garantire risorse per 132,3 milioni; a Milano, per l'Expo, 30; e a Roma ben 167,7. A cui fanno da controcanto le limitate risorse per il Belice: pari solo a 38,6 milioni.

    Uno sforzo maggiore dovrà essere jfatto per dare esecuzione al PIN (Programma delle infrastrutture strategiche). Il fabbisogno complessivo ammonta infatti a 81 miliardi di euro, di cui 69,4 dovranno essere reperiti nel triennio 2009 – 2011.

    Ultima annotazione, infine: è l'ANAS che paga un prezzo enorme per il risanamento, con tagli che arrivano a 1.205,1 milioni di euro.

    tratto da http://www.pri.it/new/10%20Ottobre%2...CommPubAmb.htm

 

 
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