Giovani e azioni estreme
COSA C’E’ DIETRO I SALUTI ROMANI
di ERALDO AFFINATI
Alzano il braccio nel saluto romano. Urlano «Boia chi molla al grido di battaglia». Mostrano svastiche e croci celtiche. Vogliono ripulire, così dicono, la nostra città dagli extracomunitari. Per oggi pomeriggio hanno annunciato un sit-in davanti al Campidoglio contro il sindaco di Roma, che non sarebbe stato imparziale nei loro confronti.
Li abbiamo visti, nelle ultime settimane, inneggiare al Duce sotto gli occhi dei poliziotti alla manifestazione di «Forza Nuova» in piazza Santi Apostoli e alla fiaccolata dell'Esquilino promossa da «Base Autonoma», sfidando la denuncia per il reato di apologia del fascismo.
Li abbiamo sentiti ripetere a squarciagola alcuni vecchi slogan hitleriani: il primo istinto sarebbe stato quello di andare a scusarci con il senegalese di passaggio, coperto di insulti; oppure chiedere al capogruppo che accompagnava gli ultràs tenendo in alto una candela, quasi fosse impegnato a compiere un rito sacro, cosa gli stesse passando per la testa in quel momento e se si rendesse conto di ciò che stava facendo.
Ma una reazione così, ne siamo convinti, avrebbe alimentato il fuoco, senza aiutarci a comprenderne l'origine. Che quasi sempre affonda le sue radici nella cecità adolescenziale, nell'ignoranza storica, nell'insofferenza per il conformismo di massa, nella mancanza di una vera dialettica, nel vuoto e nella solitudine delle giornate trascorse davanti al muretto, privi di modelli adulti credibili nei quali identificarsi.
Allora, abbiamo voluto affrontare uno di questi giovani direttamente. Non è stato difficile trovarlo: basta osservare certe scritte sugli zainetti e trarre le logiche conclusioni. Abbiamo chiesto: perché porti in giro l'effige di Mussolini? Avrà avuto sedici, diciassette anni. Occhio sveglio, tutt’altro che stupido. Solo un po’ vivace, adrenalinico diremmo, al punto da poter essere definito «un caratteriale» da qualche psicologo frettoloso. Sapete la risposta? «Voglio essere libero». Con calma gli abbiamo spiegato cos’era il fascismo; ha preso atto, ma mentre parlavamo abbiamo avuto l’impressione che, nella sua testa, registrare l’errore non comportasse una vera autocritica. Al contrario, apprendere che, chiunque avesse predicato la libertà, nelle dittature novecentesche sarebbe stato subito messo a tacere (in Italia il confino, in Germania il lager, in Unione Sovietica il gulag) tornava a fare il suo gioco: gli piaceva essere percepito come irregolare, fuori norma, atipico.
Abbiamo provato a ragionare nello schema che lui proponeva. Essere nel giusto, secondo questo ragazzo, equivale a intrupparsi nella grigia maggioranza. Sbagliare significa invece distinguersi, richiamare su di sé l'attenzione. Se fosse così, dopo aver fatto rispettare la legge, dovremmo avere il coraggio di considerare certi comportamenti estremi anche come misteriose richieste d’aiuto che qualcuno di noi dovrebbe prendersi il compito di decifrare.
Dal Corriere della Sera-Cronaca di Roma 09/11/2002