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  1. #1
    Roderigo
    Ospite

    Predefinito Miti Usa - L'America in polpette

    BENEDETTO VECCHI

    L'industria del fast-food ha appena compiuto sessant'anni ed è
    diventata un'icona degli Stati uniti. Per Eric Schlosser è però qualcosa di più che un'icona. Ed è per questo che il titolo del suo libro da poco tradotto da Marco Tropea si intitola La nazione fast-food (pp. 385, 16,60 euro), quasi a legittimare l'idea che McDonald's o Burger King coincidano con l'America. Giovane giornalista free-lance, Schlosser ha passato un nutrito numero di anni raccogliendo documenti e interviste sull'industria del fast-food, arrivando infine a scrivere un libro che al di là dell'Oceano è diventato un best-seller. Va subito detto che è un volume che prende l'avvio dagli anni Quaranta, quando i due fratelli McDonald's aprirono un piccolo ristorante nell'assolata California con l'obiettivo di pasti veloci alla portata di milioni di americani. Ma Eric Schlosser è convinto che parlare di fast-food vuo dire parlare di un'«economia di agglomerazione» che parte dall'allevamento degli animali, passa per le coltivazione di patate, si trasforma nella macellazione e nei laboratori scientifici che producono quelle essenze che rendono così gustosi i panini e i cartocci di patatite fritte venduti ad ogni angolo di mondo. La nazione fast-food è un libro indispensabile per capire come sono cambiati gli Stati uniti, i rapporti di «complicità» tra grandi corporation e governo federale, la crescita dell'esercito dei working poor, cioè di lavoratori e lavoratrici che hanno salari al di sotto di quanto prevede la legge americana, la marginalità del sindacato. E il sindacato è stata infatti una delle prime, illustri, vittime della nascente «nazione fast-food». Serrate, uso scientifico dei crumiri o di forza-lavoro minorile o migrante, ingenti donazioni ai candidati al congresso in cambio di leggi a favore dell'industria del fast-food: tutto è stato usato per ridurre all'obbedienza la forza-lavoro. E quando a Eric Schlosser viene detto che l'associazione milanese di lavoratori precari Chainworkers considera il suo libro come un manuale per denunciare i comportamenti antisindacali delle grandi catene di distribuzione o del fast-food il suo viso si allarga in un sorriso divertito. Sorriso che sfocia in una risata quando apprende che ci sono stati degli scioperi in alcuni McDonald's italiani. «Dovrebbero andare negli Stati uniti e aiutare i lavoratori americani a organizzare scioperi. Sarebbe una grande cosa». Intervistarlo è quindi come aprire una finestra su un mondo di cui si hanno solo immaggini frammentarie, abbacinanti o sfocate. Alla fine il panorama è funestato da nuvole nere, ma almeno si ha una visione chiara, con le sue luci e le sue moltissime zone d'ombra.

    Il suo libro più che un'analisi critica sull'industria del fast-food, è un fosco affresco sulla storia degli Stati uniti in questi ultimi venti anni. Quel che ne esce fuori è un panorama costellato da fast-food, highways e povertà. Inoltre, nel paese del libero mercato impazzano grandi oligopoli, mentre le grandi corporation dipendono dai fondi erogati in loro favore dallo stato federale e dalla deregolamentazione del mercato del lavoro. Ma ciò che lei sottolinea è il ruolo di traino del complesso militare industriale.....

    L'intervento dello stato nell'economia risale alla grande depressione e alle politiche di New Deal intraprese allora dal presidente democratico Franklin Delano Roosevelt. Da allora il governo statunitense ha sempre aiutato le grandi corporation attraverso investimenti volti alla costruzione di grandi infrastrutture o con politiche finanziarie in loro favore, indipendentemente da chi sedeva alla Casa Bianca. Per quanto riguarda il cosiddetto complesso militare-industriale, il punto di svolta c'è stato dopo la fine della seconda guerra mondiale e con l'elezione di «Ike» Eisenhower, il quale ha favorito le industrie legata alla difesa nazionale. Allo stesso tempo, durante i suoi due mandati è stata portata a compimento la costruzione di un sistema capillare di superstrade. Ironicamente, definisco quegli anni come gli anni del «socialismo interstatale».

    Ma l'aiuto del governo americano ha riguardato anche l'industria del fast-food. Possiamo dire che dal «socialismo interstatale» gli Usa sono passati al «socialismo del cheeseburger»?

    Siamo ancora in una fase di transizione. Siamo cioè con un piede nel «socialismo interstatale» e l'altro nel «socialismo del cheesburger».

    Nell'industria del fast-food i salari di gran parte dei lavoratori e delle lavoratrici sono al di sotto della soglia della povertà. E' un fenomeno che si è fermato o l'esercito dei «working poor» continua ad aumentare?

    Con l'attuale amministrazione di George W. Bush continuerà ad aumentare. Una delle storie a cui tengo di più è quella che si riferisce ai lavoratori della macellazione. Va ricordato che negli anni Cinquanta e Sessanta, nell'industria della macellazione erano infatti pagati alti salari, la forza-lavoro aveva la pensione e l'assistenza sanitaria assicurata. Da venti, trenta anni a questa parte la situazione si è pressoché ribaltata: oggi i lavoratori di questo settore sono tra i peggio pagati, le condizioni di lavoro possiamo definirle bestiali e gran parte della forza-lavoro non ha nessun sistema di protezione sociale. Ho inoltre documentato che gli orari di lavoro vanno ben oltre quello che stabilisce la legge, che il pagamento degli straordinari è una merce rara, che i ritmi di lavoro sono così massacranti che esiste ormai una relazione diretta tra la produttività e gli infortuni sul lavoro. Spesso, nei macelli, che funzionano come una catena di montaggio a ciclo continuo - la macellazione si ferma solo quelle tre, quattro ore necessarie alla pulizia degli stabilimenti -, più si squartano animali più la forza-lavoro si ritrova con schiene rotte, dita tagliate, tagli profondi sul corpo. Inoltre, per disinfettare gli stabilimenti vengono usate sostanze chimiche che bruciano i polmoni dei «pulitori».

    Nel libro racconto la vicenda di un dipendente, bianco, che comincia a lavorare in una impresa di macellazione. Lavora sodo, non si tira mai indietro perché ritiene che i manager sono sempre nel giusto. Fa il crumiro durante uno sciopero, ha un incidente sul lavoro, ma dopo le prime cure al pronto soccorso ritorna alla catena. E' indicato dalla corporation come un «eroe del lavoro». Soffre di terribili mal di schiena, ha un altro incidente, questa volta quando gli viene chiesto di pulire gli stabilimenti. Ha quasi i polmoni bruciati. A questo punto la corporation lo licenza senza troppi complimenti: alla fine scopre che all'età di quarantanni è un «rottame» senza nessuna speranza di trovare lavoro. L'industria della macellazione è quindi paradigmatica di ciò che è accaduto nel business americano.

    Nella «nazione del fast-food» vivono anche i «profumatori», cioè i ricercatori che si affannano per produrre essenze che diano agli hamburger quel sapore pieno sbandierato dalla pubblicità. Accanto a questo sforzo della ricerca scientifica per rendere appetitoso un hamburger, c'è una altrettanto sofisticata attenzione per indurre all'obbedienza la forza-lavoro. Possibile che non ci sia una qualche forma di resistenza a tutto ciò?

    E' vero ciò che dice sulla ricerca scientifica e sulla ricerca dell'obbedienza. Negli Usa le grandi corporation hanno una strategia antisindacale che non lascia respiro. Ad esempio alla minima possibilità di sindacalizzazione, può chiudere il fast food se è di sua proprietà. Altre volte, quando il fast-food è in franchising può minacciare l'affittuario disponibile ad accettare il sindacato di rompere il contratto e sloggiarlo dai locali che rimangono sempre di proprietà della corporation. Ricordiamo, ma questo è un fatto oramai noto, che il logo più famoso del fast-food ha un manuale di centinaia di pagine in cui sono dettagliati tutti i comportamenti che un front-line deve avere con il cliente. Ogni deroga viene sanzionata nelle interminabili riunioni delle crew (gruppo di lavoro, ma anche banda, ndr) in cui il manuale è il vangelo sbandierato dai manager per decidere se sei in linea oppure no. Inoltre, l'organizzazione degli orari espone all'arbitrio: puoi lavorare quattro ore un giorno, nove il sucessivo, con i turni che cambiano continuamente e che sono comunicati giorno per giorno. Sono fattori che rendono un inferno la tua vita e difficile la sindacalizzazione.

    La nazione del fast-food diventa tale con l'arrivo a Washington di Ronald Reagan. Ma dopo l'inverno reaganiano c'è stato o no il disgelo clintoniano?

    Durante la sua presidenza, sono sempre stato piuttosto critico nei confronti dell'operato di Bill Clinton. Devo però riconoscere che ha ottenuto alcuni risultati: è riuscito ad aumentare un poco il salario minimo, ha fatto approvare dal Congresso leggi tese a un maggiore controllo sanitario nella preparazione del cibo nei fast-food. Il terzo fattore su cui c'è stato uno sforzo dell'amministrazione clintoniana riguarda le condizioni di lavoro. Certo, poco rispetto a quanto sarebbe necessario, ma dopo Reagan e Bush padre un miglioramento c'è stato.

    Lei dedica pagine molto belle alla storia di un allevatore di bestiame ecologicamente compatibile. Sembra di leggere l'epopea americana di spiriti liberi, orgogliosamente legati alla terra e ostili allo strapotere delle grandi compagnie. Un individualismo a tutto tondo, ma solidale con chi è nelle stessa condizione. Eppure quel personaggio, Hank, si uccide. Il suo suicidio vuol dire la morte dello spirito americano?

    Lo spirito americano non è morto, ma è agonizzante. Questo non vuol dire che non ci siano più allevatori come Hank. Ma il loro numero diminuisce sempre di più e quelli che rimangono sono in forte difficoltà. Cresce il loro indebitamento con le banche, aumenta la competitività verso le grandi fattorie industrializzate che fanno ingrassare i loro animali in capannoni nutrendoli con mangimi prodotti industrialmente e che riciclano carcasse di polli, pecore, mucche. Le figure come Hank possono apparire come il passato che non potrà mai più tornare. Ma forse il futuro del fast-food sono proprio loro. La maggiore sensibilità ambientalista e sulla qualità alimentare ha fatto crescere negli ultimi anni catene di fast-food che utilizzano solo alimenti coltivati o allevati biologicamente. Inoltre, la crescita dei movimenti sociali contro gli sweetshops che utilizzano il lavoro nero hanno incoraggiato le azioni di boicottaggio di alcune associazioni di consumatori nei confronti di catene che usano lavoro nero o minorile.

    Tutta l'industria del fast-food sembra ruotare attorno alla cittadina di Colorado Spring, luogo topico della frontiera e della nazione americana. Cowboy, mucche, intraprendenza individuale, etica del lavoro. Ora, al posto dei cowboy c'è una base militare; le mucche sono state sostituite da decine e decine di fast-food, mentre la retorica della comunità e del buon vicinato trova il suo simulacro nelle sette evangeliche. Un'America irriconoscible. Ma è irriconoscibile anche per gli americani?

    Tutto quello che lei dice è vero. L'ideologia feroce del libero mercato ha stabilito che il «risultato funzionale» delle corporation è prioritario su tutto e su tutti. Ma le ideologie nascono, si affermano e poi declinano. E' quello che sta accadendo negli Usa. La retorica del libero mercato ha infatto perso molto del suo glamour. Il problema è quanto tempo occorrerrà per cambiare la rotta. A Colorado Sping sono cresciuti movimenti che puntano a migliorare l'assetto urbanistico della città; c'è chi punta a ridimensionare il peso della base militare nell'economia della città. Le sette evangeliche che annunciano la fine del mondo e la salvezza per un tot di dollari hanno perso terreno. Rispetto a qualche anno fa la situazione è migliorata. Lo stesso mutamento di clima c'è stato in tutti gli Usa. Per questo, credo che Bush jr. non sarà rieletto, anche se la sua popolarità è cresciuta dopo l'attentato dell'11 settembre.

    Il clima patriottico è un potente collante di questa amministrazione, ma sono convinto che i problemi reali ritorneranno al centro della scena politica. Prendiamo ad esempio lo scandalo che ha coinvolto la compagnia Enron. La denuncia dell'operato di questa grande corporation che doveva fornire l'energia ha incontrato il consenso popolare. L'11 settembre è stato un atto che ha gettato gli Stati uniti in una profondo stato di inquietudine. Ma questo non significa che ha cancellato le critiche nei confronti dell'amministrazione Bush, considerata da molti il padrino politico della Enron. Anche se non ci sono grandi manifestazioni di protesta, lo smottamento dell'opinione pubblica non si è fermato, neanche con la guerra in Afghanistan. Siamo quindi nel pieno di una transizione, anche se non sappiamo quanto durerà.

    Ha annunciato che sta scrivendo un libro sulle prigioni. Stiamo passando dalla «nazione fast-food» alla «nazione carceraria»?

    Gli Stati uniti hanno una popolazione carceraria che ammonta a più di due milioni di persone. Negli ultimi due decenni, le diverse amministrazioni che si sono succedute alla Casa Bianca hanno destinato investimenti alla costruzione di nuove prigioni che hanno eguagliato e in alcuni periodi superato l'ammontare dei dollari destinati al Pentagono per la difesa nazionale. Ma anche in questo caso il peggio è passato.

    il manifesto 23 aprile 2002
    http://www.ilmanifesto.it

  2. #2
    Roderigo
    Ospite

    Predefinito La modernità secondo Karl Marx

    In libreria la ristampa del "Discorso sul libero scambio" con una ricca appendice di interventi

    La modernità secondo Karl Marx


    Tonino Bucci

    «Ma in generale il protezionismo è, ai nostri giorni, conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Distrugge le antiche nazionalità e spinge all'estremo l'antagonismo tra la borghesia e il proletariato. In una parola, il sistema della libertà commerciale promuove la rivoluzione sociale. E' solo in questo senso rivoluzionario, Signori, che io voto a favore del libero scambio». Con queste parole - che non mancheranno di suscitare un effetto di sorpresa nel lettore odierno - Karl Marx concludeva il Discorso sul libero scambio il 9 gennaio 1848 nella sede della «Association démocratique» di Bruxelles, un'organizzazione che riuniva socialisti, comunisti e liberali di sinistra e della quale lo stesso Marx era vicepresidente.
    Da tempo esaurita l'ultima ristampa che ne avevano curato gli Editori Riuniti, il testo viene ora ripubblicato da DeriveApprodi (Karl Marx, Discorso sul libero scambio, pp139, euro 10,00). A motivo di tanto interesse per questo testo, spiegano i curatori Alberto Burgio e Luigi Cavallaro, c'é il fatto «che esso presenta forti spunti d'attualità, non solo e non tanto per il suo contenuto, quanto soprattutto per lo "spirito" che lo informa e che ne fa, a nostro avviso, un testo cruciale (al pari del coevo Manifesto del partito comunista) per intendere l'atteggiamento di Marx nei confronti della modernità».

    Il Discorso è pronunciato nel clima che segue all'abolizione in Inghilterra delle Corn laws - le leggi protezionistiche che imponevano tasse doganali sui cereali d'importazione. La questione accende i contrasti tra due partiti: quello degli industriali favorevoli all'abolizione per ridurre il prezzo del pane e, quindi dei salari, e l'altro dei proprietari terrieri, interessati alla conservazione degli alti livelli di rendita, resi possibili dalla legislazione protezionistica. Dopo aver riassunto le ragioni dei due schieramenti, Marx prende posizione a favore dei liberoscambisti. Non ignora, certo, gli effetti oppressivi per i lavoratori che derivano dal concedere libertà al capitale, e tuttavia è consapevole che solo attuandosi la vocazione del capitalismo ad espandersi e distruggere i residui del feudalesimo (gli interessi dei grandi proprietari terrieri), si possa generalizzare la contraddizione tra capitale e lavoro. Non l'utopia del ritorno al passato - più o meno idealizzato - ma uno sguardo al futuro e alle potenzialità di sviluppo ch'esso incorpora.


    Conflitto capitale-lavoro
    Al fondo c'è l'idea di una struttura dialettica e contraddittoria che tende al proprio superamento solo se sviluppa in pieno tutte le sue implicazioni, positive e negative. Il capitale dispiega i propri effetti nelle relazioni complesse di un unico processo sistemico. E' nel punto nevralgico della modernizzazione che questa «struttura contraddittoria» emerge in maniera visibile: nel rapporto tra lavoro salariato e capitale, tra operai e padroni (dei mezzi di produzione). A questa interpretazione della modernità Marx si avvicina fin dai giovanili Manoscritti economico-filosofici del 1844, per effetto anche delle sue acquisizioni negli studi sulla filosofia hegeliana. Il capitale, essenza della società moderna, non è «un'opposizione indifferente», ma va inteso «come sviluppato rapporto di contraddizione e però rapporto energico, motivo di risoluzione». Operaio e capitalista sono le figure di un unico processo che nell'atto stesso in cui li contrappone, pure li presuppone reciprocamente. La «contraddizione» è il terreno sul quale avviene lo sfruttamento e l'immiserimento dell'operaio, ma per un altro verso è anche «rapporto energico», «motivo di risoluzione» e di spinta al superamento del capitalismo. «A questo primo livello - scriveva Mario Dal Pra in un commento sui Manoscritti (La dialettica in Marx, Laterza, Roma 1977) - l'indagine critica di Marx si può dire dialettica particolarmente per l'individuazione d'un ricco contenuto di fatti in cui si prospetta operante quel principio della negazione, per cui lo sviluppo del lavoro dell'uomo corrisponde pienamente allo sviluppo della miseria del lavoratore». La struttura dialettica della modernità è presentata con parole più aderenti all'esperienza dei fatti in un altro scritto marxiano degli stessi anni, Lavoro salariato e capitale del 1849: «Il capitale presuppone dunque il lavoro salariato, il lavoro salariato presuppone il capitale; essi si generano a vicenda... Il capitale può accrescersi soltanto se si scambia con forza-lavoro, soltanto se produce lavoro salariato... Aumento del capitale è quindi aumento del proletariato, cioè della classe operaia».

    La contraddizione come chiave di lettura della modernità è utilizzata da Marx sia come arma teorica critica sia come strumento politico. «Così come nel Manifesto, il presupposto da cui muove il Discorso marxiano è costituito dall'idea che al superamento del capitalismo si possa giungere solo attraverso il pieno dispiegarsi dei suoi effetti, a un tempo positivi e negativi... In quest'ottica, obiettivi polemici del Discorso sono sia quegli apologeti del capitalismo che, ignorandone i costi e la stessa limitatezza storica, ne vedono solo gli aspetti progressivi, sia quegli apocalittici che, altrettanto unilateralmente, ne percepiscono soltanto gli effetti distruttivi sulle precedenti forme della vita sociale e non colgono il progresso che, rispetto a queste ultime, la stessa "libertà del capitale" indubbiamente rappresenta». Nel fuoco della polemica contro le posizioni apocalittiche - come nella Miseria della filosofia (1847) contro l'anarchismo di Proudhon - Marx sviluppa la propria concezione «per la prima volta in modo scientifico», per dirla con le parole di Engels. Se, dunque, «semplicismo e volontarismo - scrivono Burgio e Cavallaro -, estremismo verbale e predicazione utopica del "salto immediato" dalla società capitalistica al mutualismo e all'autogoverno di "zone franche sociali" sono gli ingredienti fondamentali del "radicalismo moderato" di Proudhon», la posizione di Marx evita i pericoli di visioni apocalittiche della modernità - radicali nelle parole, ma moderate perché lasciano sussistere il rapporto tra capitale e lavoro salariato.


    L'attualità
    La scommessa che sostiene la riedizione del Discorso, sta nel trarre dall'impianto del ragionamento marxiano categorie valide per interpretare l'attualità «in questi tempi di mondializzazione del commercio di merci e denaro e di movimenti di contestazione no global». Da qui la scelta di pubblicare, in appendice al volume, una silloge di interventi sul dibattito politico presente di diversi autori, tra cui Emiliano Brancaccio, Andrea Fumagalli e Giovanni Mazzetti. Obiettivo non è mettere in discussione le domande di giustizia, uguaglianza e libertà del movimento non global, quanto interrogarsi criticamente sulle categorie utilizzate. «Ciò di cui non siamo sicuri - continuano Burgio e Cavallaro - è che certi strumenti di cui si serve, a cominciare dalle analisi che, fino a prova contraria, sono indispensabili a capire chi sia l'avversario e come si possa contrastarlo, siano adeguati allo scopo. E' chiaro a tutti, per esempio, che l'attuale mobilitazione contro il "neoliberismo" non presuppone la critica del capitalismo?». Come pure altri interrogativi riguardano la logica della "rete": «Sarà permesso rilevare che, mentre parla di solidarietà e di coesione sociale, il "movimento dei movimenti" pratica in realtà forme di radicale individualismo anarchico, nel senso preciso che questo termine ha nella critica marxiana dell'anarchia del mercato capitalistico?». Se è vero, allora, che non c'è una politica nella pratica senza una teoria in grado di interpretare il mondo, c'è da augurarsi che intorno a questo movimento «non si crei una malsana atmosfera di dogmatica intolleranza». Tanto più se si presta attenzione ai tanti fermenti del popolo di Seattle, per nulla schiacciato sulla nuova "narrazione" dell'Impero di Toni Negri e Michael Hardt. Contro «l'idea che il mondo sia già unificato sotto il tallone del capitale transnazionale, che quest'ultimo non abbia più patria e abiti il pianeta come proprio dominio», relegando le contraddizioni politiche tra gli Stati a fenomeni ormai irrilevanti, «non pochi dei suoi appartenenti la pensano diversamente. Ad esempio, opinano che la credenza nella sopravvenuta inefficacia di qualsiasi politica economica nazionale sia uno dei miti regressivi prodotti dalla cosiddetta globalizzazione».

    Liberazione 22 giugno 2002
    http://www.liberazione.it

  3. #3
    SENATORE di POL
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    Predefinito

    Che Marx considerasse il capitalismo "rivoluzionario" e avesse una concezione dinamica (dialettica) del processo storico che si contrapponeva necessariamente ad ogni anti-capitalismo piccolo-borghese (del "piccolo borghese inferocito per le miserie del capitalismo") è cosa arci-nota. Che i "no global"" attuali, compresi quelli "marxisti" o "neo-marxisti" (Toni Negri) appartengano in grandissima parte a questa ultima categoria...è altrettanto fuor di dubbio.


    Shalom!

  4. #4
    Roderigo
    Ospite

    Predefinito Gore Vidal - Le menzogne dell'impero e altre tristi verità

    Guerra permanente, 11 settembre, crisi economica:
    Gore Vidal, scrittore e saggista, discute le tesi del suo ultimo volume
    Le menzogne dell'impero e altre tristi verità


    http://www.liberazione.it/giornale/0...-23-ART-1+.pdf

    Una raccolta di saggi in cui Vidal indaga gli episodi "sporchi" della storia americana del Novecento: dalla decisione di sganciare l'atomica su Hiroshima, all'affermarsi della dottrina Truman; dal poco noto ma sanguinario intervento in Guatemala all'espandersi delle basi militari USA in tutta l'Eurasia, all'eccessiva, scandalosa autonomia delle agenzie di intelligence, fino agli attentati dell'11 settembre. Di forte impatto è il saggio "L'amministrazione Bush e l'11 settembre", in esso Vidal si spinge a sostenere che l'amministrazione USA conoscesse in anticipo ciò che stava per succedere l'11 settembre e abbia deciso di "lasciarlo succedere", in quanto la successiva guerra al terrorirsmo avrebbe consolidato le sue posizioni di dominio politico ed economico sul mondo intero.

    http://www.lafeltrinelli.it/Feltrine...869976,00.html

    Ne "La fine della libertà", la sua ultima raccolta di saggi, Gore Vidal si chiedeva se Bush - come Roosevelt prima di Pearl Harbor - sapesse dell'imminente, catastrofico attacco. La risposta che Vidal forniva un anno fa era un no, ma con un'avvertenza: "Almeno per quanto ne sappiamo 'ora'". Nonostante tutti i tentativi dell'amministrazione e dei media americani 'ora' ne sappiamo molto più di prima. La tesi centrale del saggio che dà il titolo a questo libro, e che viene qui presentato in prima mondiale, è inquietante: Bush e i suoi conoscevano ciò che stava per succedere l'11 settembre e avrebbero intenzionalmente deciso di 'lasciarlo succedere', per poter scatenare una serie di guerre già da tempo programmate e consolidare così le proprie posizioni di dominio politico ed economico all'interno del paese e del mondo intero. Quanto basta perché Vidal richieda, senza mezzi termini, l'impeachment del presidente americano. E alle bugie degli 'ultimi imperatori' sono dedicati anche gli altri dieci brevi saggi. In essi, con il consueto stile sferzante e di impareggiabile eleganza, Vidal tocca altrettanti capitoli 'sporchi' della storia americana del Novecento: da Pearl Harbor a Hiroshima, dal mancato rispetto di Jalta alla Dottrina Truman, dagli interventi in America Latina all'espandersi delle basi militari USA in tutta l'Eurasia, dall'eccessiva, scandalosa autonomia delle agenzie di Intelligence al dubbio ruolo della Corte Suprema nelle presidenziali del 2000. Non è tutto 'destruens', tuttavia, il Vidal di questo nuovo, straordinario libro, e avanza varie proposte concrete, in ordine ai rapporti fra economia e politica (in altre parole, al conflitto d'interessi), alla politica fiscale e persino alla struttura statuale: perché non fare degli obsoleti Stati Uniti una comunità federale, sull'esempio dell'Unione Europea? .

    http://www.it.bol.com/bol/main.jsp;j...olms&id=000534

    Se non lo sapevate: l'ex-presidente Bush senior, rappresenta il Carlyle Group: petrolio. L'attuale presidente, George W. Bush, rappresenta la Harken Oil, che ha legami con l'Arabia Saudita: petrolio. La bellissima Condoleeza Rice è stata per dieci anni una dirigente della Chevron: petrolio. Il ministro della difesa Rumsfeld, Occidental Oil: petrolio. Questi sono i rappresentanti del governo americano. Una coincidenza, dice Vidal, mettiamola così.
    È passato poco più di un anno dal settembre che rivoluzionò gli assetti geopolitici del mondo e una guerra all'Iraq è ormai scontata e si avvicina a pericolosa velocità. Come l'americano medio, non dedichiamo che dieci minuti al giorno alla nostra politica estera, e in quei dieci minuti ci vengono raccontate balle colossali: Gore Vidal, una delle voci più autorevoli e censurate della cultura americana, ci parla e ci sveglia con una micidiale raccolta di saggi e articoli. Attenzione: Gore Vidal parla da libero cittadino, che a 17 anni si arruolò volontario per partecipare alla guerra contro i fascismi asiatici ed europei.
    La sua non è soltanto un'accusa alla politica estera americana, che mai ha cessato di essere imperialistica: Vidal ci ricorda drammaticamente che con il processo di assunzione delle guerre come condizione essenziale della vita e della potenza degli Usa, cominciato con l'invenzione della "guerra fredda" e proseguito con la militarizzazione del pianeta, procede parallelamente una progressiva liquidazione della democrazia americana, la marcia verso "il governo dei pochi", che ha condotto ad una situazione, quella odierna, in cui la guerra all'Iraq non rientra più nelle coordinate imperialistiche del controllo del petrolio, ma è diventata un affare privato della junta petrol-metanifera di Bush e Cheney, "imboscati" ai tempi della guerra del Vietnam. Il processo degenerativo è dunque in marcia; guerre e riduzione della democrazia vanno di pari passo, ci dice Vidal con una bella citazione di James Madison: "Di tutti i nemici della libertà pubblica, la guerra, forse, è quella che più deve essere temuta perché include e incoraggia il germe di ogni altro". Come andarono veramente le cose con Pearl Harbour, Hiroshima, l'attacco alle Torri gemelle? Quale peso ebbe su queste vicende l'incompetenza manovrata? E la "guerra fredda" era davvero inevitabile? Perché nel 1947 fu decisa la costituzione della Cia?
    Vidal è nato nel 1925 a Washington D.C., nel cuore della vita politica statunitense, e da bambino ha vissuto a lungo col nonno Thomas Pryor Gore, senatore, che in seguito sarebbe stato un oppositore di Franklin Delano Roosvelt. Dopo aver militato nel Pacifico settentrionale come volontario durante la Seconda Guerra Mondiale, debuttò con Williwaw (1946) che raccontava le sue esperienze belliche. Straordinario saggista e polemista, Vidal ha sempre svolto un ruolo di testimone scomodo della vita americana, come ricostruisce lui stesso nell'autobiografia Palinsesto e come ben dimostrano anche i saggi raccolti ne Le menzogne dell'impero tratti per lo più dalla silloge The Last Empire.





  5. #5
    Roderigo
    Ospite

    Predefinito Per una pace infinita

    Un brano dell'introduzione all'ultimo libro di Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni
    Per una pace infinita


    Il testo che segue riproduce una lunga conversazione condotta con Fausto Bertinotti nell'estate del 2002, ovvero a cavallo tra una guerra iniziata e mai finita - quella in Afghanistan - e una decisa, proclamata, praticamente già iniziata, ma non ancora effettuata: quella contro l'Iraq. Intanto il conflitto israelo-palestinese ha conosciuto asprezze inconsuete, proseguendo sia il massacro del popolo palestinese e la negazione dei suoi più elementari diritti, che la moltiplicazione degli attentati in territorio israeliano.

    Siamo in una situazione di guerra infinita, indefinita, permanente. Uno scontro bellico si succede all'altro senza soluzione di continuità. Anzi, l'uno prepara l'altro e la potenza distruttiva impiegata è sempre maggiore. E sempre più grave è la distruzione di ogni forma di diritto e di autorevolezza degli organi di governo internazionali.

    La brutalità dei rapporti di forza prevale ovunque e anche il velo ipocrita dell'incidente internazionale, della risposta a un'aggressione, delle violazioni dei diritti umani, della replica al terrorismo omicida, viene dismesso in quanto non più necessario.

    Avanza la dottrina imperiale della «guerra preventiva», che per definizione non deve essere motivata né provocata. Essa distrugge ogni precedente tattica di deterrenza, di contenimento, di sicurezza collettiva. Per quanto esse già si basassero su premesse del tutto false e artatamente create, sono oggi gettate come frusti abiti inutili.

    Avanza la logica della forza e della violenza nella sua dimensione più diretta e più cruda, perché serve da monito a chiunque si voglia ribellare o soltanto voglia mettere in dubbio l'attuale ordine mondiale.

    Questo è ciò che, in sostanza, sta scritto nel piano per una nuova strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti che sarà trasmesso al Congresso dall'Amministrazione Bush. Esso si propone, come hanno dichiarato con accenti convergenti diversi dirigenti statunitensi, di proteggere la «beatudine di prosperità scesa sul popolo americano». Gli Stati Uniti diventano così, più e peggio, che i gendarmi del mondo. Essi sono la cupola di un sistema liberista mondiale, della attuale globalizzazione capitalistica. Sono essi a difenderla e propugnarla in prima persona, grazie al fatto che il loro modello economico e sociale meglio di altri la interpreta; grazie alla autorevolezza politica che gli deriva da quel mezzo secolo di assoluto protagonismo mondiale seguito al secondo grande conflitto planetario del secolo scorso; e soprattutto grazie alla strapotenza militare e nucleare di cui sono titolari.

    Contro la cancellazione di ogni regola nel diritto internazionale e di ogni ragione politica si elevano dubbi, proteste e opposizioni anche da parte di Stati e governi, o tradizionalmente o recentemente amici, o quantomeno non nemici, dell'America. E' il caso di Francia e Germania in Europa, e, a Est, di Russia e Cina.

    Non sappiamo se questo servirà a impedire o fermare l'aggressione all'Iraq. Ma tutto spinge a dubitarne, perché gli Usa praticano una costruzione delle alleanze che segue, e non precede, la decisione sulla guerra; perché in questo modo ogni ostacolo viene depotenziato, ogni resistenza incorporata e triturata nel meccanismo stesso di decisione unilaterale.

    Questa è la nuova strategia della guerra preventiva, questa la nuova tattica delle alleanze a geometria variabile. Ogni organismo internazionale politico e militare viene così svuotato - dal di dentro e dalle fondamenta - di funzioni, credibilità e autorevolezza.

    Eppure la scelta di procedere sulla strada della guerra non è solo prova di strapotenza, ma è anche indice di una crisi materiale e ideologica del processo della globalizzazione capitalistica. E' in corso una crisi economica che ha ormai assunto i tratti di una recessione mondiale. Si è rotto il «pensiero unico» che garantiva il dominio ideologico del nuovo capitalismo sotto il primato dell'impresa, del profitto, del mercato, del successo individuale.

    Alle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione capitalistica, da cui tutti i popoli, pur con differenze tra loro, avrebbero potuto trarre vantaggio, credono ormai in pochi. Sono sempre di più coloro, anche fra quelli che hanno avuto diretta responsabilità nella gestione del processo, che sono convinti che la globalizzazione capitalistica ha aumentato ingiustizie e disuguaglianze, per cui i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.

    Da questa crisi di consenso, dalla profondità della crisi economica, nasce la nuova spinta alla guerra. Non si tratta solo di una guerra costituente di un nuovo ordine internazionale, come è stato lungo l'ultimo decennio del Novecento, ma di uno stato di guerra permanente nella nuova fase di crisi della globalizzazione.

    Questa guerra, o almeno la sua dimensione effettivamente guerreggiata - ossia la materiale aggressione all'Iraq - può essere impedita, fermata o è inevitabile? Questo interrogativo si è presentato in modo diverso in altre epoche storiche. Questo libro cerca, a suo modo, di fornire una risposta.

    L'analisi delle cause strutturali che muovono alla guerra non inibisce la speranza e il progetto di poterla evitare o fermare. Questa possibilità non risiede però in una sorta di etica della ragione (anche se è utile, ed è quello che qui abbiamo cercato di fare, riandare al suo percorso storico), né può essere affidata alle contrapposizioni fra i diversi interessi dei potenti e degli Stati.

    La possibilità della pace risiede nello sviluppo a livello mondiale delle forze irriducibili a una logica di guerra. Risiede nel nuovo Movimento dei movimenti che da Seattle in poi, ma con radici più lontane e profonde, ha animato la scena del mondo. Risiede nel nuovo movimento operaio che unisce le figure tradizionali del modo di produzione capitalistico con quelle nuove, seppure disperse e frantumate, che costituiscono l'esito delle trasformazioni involutive prodotte nel tessuto sociale dal nuovo capitalismo. Risiede, per dirla con Claudio Napoleoni, in quel «residuo» -cioè in quei settori sociali che, per quanto attirati a forza entro il processo diretto di valorizzazione del capitale, e quindi in tutto ciò che ne consegue - vi oppongono resistenza: come le donne, o i giovani. Risiede in quei movimenti che si sono sviluppati nelle periferie del mondo, ma che hanno saputo parlare da subito un linguaggio, moderno e universale, di liberazione per tutte e per tutti.

    Liberazione 16 novembre 2002
    http://www.liberazione.it

  6. #6
    MILANESE DI UNA VOLTA
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    Predefinito Nuovo libro di Bertinotti

    Mi sapreste indicare il nuovo libro di Bertinotti?
    Grazie.

  7. #7
    Roderigo
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    Predefinito Contro la Filosofiat

    "Non Fiat, come evitare di svendere l'Italia" di Loris Campetti
    Contro la Filosofiat


    Paolo Ferrero

    In questa fase la Fiat ha attirato nuovamente l'attenzione su di se e giunge a proposito il libro di Loris Campetti "Non Fiat, come evitare di svendere l'Italia", Cooper Castelvecchi. Si tratta di un libro in grado di introdurre anche il neofita in quel mondo particolare che è il conflitto di classe visto dal punto di vista degli operai. Non il conflitto di classe in generale ma nell'ambito della più grande azienda italiana - la Fiat -, della più grande fabbrica d'Europa - Mirafiori - e della città che ospita la sede dell'azienda e della fabbrica: Torino.

    La memoria nelle lotte

    Un libro "politicamente scorretto", di parte. Un libro su Torino scritto da un torinese nato a Macerata e residente a Roma. Campetti è infatti la dimostrazione evidente che torinesi lo si può essere per appartenenza anagrafica o per appartenenza sociale. Chi assolutizza il primo tipo di appartenenza in genere è sabaudo e Cavouriano, appartiene alla "long duree" del trasformismo, del moderatismo e del culto delle gerarchie modificabili nelle persone ma non nei ruoli. Se ne vede qualche esempio anche ai vertici della sinistra moderata italiana. Chi mette l'accento sull'appartenenza sociale si immerge in quella comunità di torinesi la cui genesi individuale si perde in tutte le regioni d'Italia ma la cui storia è indissolubilmente intrecciata con la lotta contro lo sfruttamento e contro le gerarchie. Operaista perché nasce nella lotta allo sfruttamento, umanista perché mette al centro la dignità della persona, comunista libertaria, perché sa che il padrone è persona e ruolo ma anche e soprattutto l'organizzazione pianificata della produzione che incorpora dispotismo e sfruttamento. Il libro di Campetti è quindi in primo luogo una narrazione sulla vicenda attuale della Fiat vista da questo particolare punto di vista.

    La fabbrica mostro

    Man mano che ci si inoltra nella lettura salta però agli occhi come quello di Campetti non sia un libro, bensì un articolo lungo un'ottantina di pagine più gli allegati. E' come se di fronte ad una fabbrica gigantesca - 37 porte di accesso incastonate in un perimetro di 10 chilometri - punto di incontro e di scontro di una pressoché secolare storia duale, anche i confini dei quotidiani articoli di Loris sul Manifesto non fossero più sufficienti a contenere l'oggetto della narrazione. In questo mega articolo Campetti ci racconta, ci inizia alla Fiat e in particolare a quella realtà chiamata Mirafiori in cui non esistono zone grigie perché ogni comportamento umano, ogni strumento e ogni procedura ha due volti, quello del potere di subordinare e quello della liberazione dalla subordinazione. Lo fa con la leggerezza di chi questa opera di narrazione la fa con passione da quasi tre decenni e - non di rado - nel corso della lettura mi sono chiesto cosa sapessi già e cosa fosse per me nuovo. Non è la prima volta che mi capita. Quando oltre vent'anni fa fui assunto alla Fiat, gli articoli di Campetti erano una delle mie principali fonti di informazione sul resto dell'universo Fiat e in quegli articoli scoprii anche che ero un "nuovo assunto", una nuova figura sociale che metteva in discussione non solo le procedure del comando dell'azienda ma anche quelle di aggregazione della comunità operaia.

    Un libro quindi che si legge tutto di un fiato, e che affronta di petto le due questioni che sono sul tappeto oggi.

    In primo luogo si pone la domanda se val la pena salvare la Fiat? Campetti risponde di si in modo netto avendo ben chiaro la necessità di mantenere nel paese un apparato industriale degno di questo nome. Un apparato industriale cioè in grado di operare sul terreno dell'innovazione e della ricerca e di non competere solo sul terreno della compressione del costo del lavoro e dei diritti. Campetti afferma con chiarezza che questa possibilità non può essere affidata alla Fiat ma deve passare per l'intervento pubblico dello stato. A sostegno di questa tesi, oltre a quelle più conosciute e ben note ai lettori di questo giornale, ci segnala e descrive nei particolari la crisi organica della Fiat e del suo apparato di comando.

    Oltre la sconfitta dell'80

    Il libro descrive la crisi ideologica e morale di quel "terziario di fabbrica", di quel gruppo dirigente allargato che costituì l'esercito di Romiti nella battaglia decisiva dell'80 contro il movimento operaio. Dalla lettura del libro veniamo confermati nell'idea che la proposta dell'intervento pubblico possa essere una prospettiva non solo per salvare i posti di lavoro e l'apparato industriale, ma indichi la possibilità - dentro la crisi dell'ideologia della centralità dell'impresa - di costruire una nuova egemonia a sinistra.

    In questa prospettiva Campetti non si chiude in un orizzonte subalterno all'industrialismo padronale, indifferente al prodotto. Affronta di petto il nodo del prodotto auto, ponendo la questione della mobilità come punto centrale verso cui riorientare la produzione, sia migliorando sul piano ambientale il prodotto auto, sia proponendone un superamento del suo carattere di merce "privata", sia ponendo il tema dell'integrazione tra trasporto collettivo e trasporto individuale. La salvaguardia del settore industriale attraverso l'intervento pubblico è quindi ben intrecciata con la necessità di una riconversione dell'industria medesima per mettere al centro la soddisfazione del bisogno di mobilità in termini ambientalmente compatibili.

    Un libro da leggere ora, utile per sostenere discussioni, intervenire nelle assemblee e costruire consenso attorno alle lotte dei lavoratori Fiat. Un libro, come si evince da quanto sopra esposto, in forte sintonia con le proposte avanzate da Rifondazione Comunista che però - ahimè - non viene nemmeno citata. Una lacuna, prima che politica informativa, che poteva essere evitata. Sarà per la prossima volta?

    Liberazione 7 dicembre 2002
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  8. #8
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    In libreria il nuovo libro di Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni. Un ambizioso tentativo di rifondare le categorie di nonviolenza e pacifismo nell'era della guerra globale
    La lunga marcia verso la Pace


    «La disobbedienza civile… rappresenta un orizzonte in cui inserire tutte le pratiche di lotta, quelle classiche come quelle inedite, sapendo che nella lotta concreta si deposita anche la progettazione del futuro. E noi vogliamo che questo sia un futuro di pace». Così, con questo accento tutto politico, tutto immerso nel tempo presente, si chiude Per una pace infinita, il più recente frutto della premiata ditta Bertinotti & Gianni (già pubblicati, Le due sinistre, Le idee che non muoiono, Pensare il ‘68).
    Un libro del tutto tempestivo, che capita - purtroppo e per fortuna - nel momento "giusto", alla vigilia del nuova attacco degli Usa all'Iraq, e che perciò, prima di ogni altra cosa, è uno strumento utile, sia alla costruzione del movimento pacifista, sia alla diffusione di una cultura di pace.

    Non per questo, tuttavia, si tratta di un'operazione contingente, o puramente legata alle tristi scadenze dell'attualità. La formula adottata, quella consueta di tipo dialogico e conversatorio, consente al segretario di Rifondazione comunista di proiettarsi in molte direzioni, nella storia del ‘900 e nella riflessione filosofico-politica, tracciando bilanci, riscoprendo esperienze, valorizzando tappe del pensiero spesso non adeguatamente valutate. Alfonso Gianni, del resto, è un interlocutore-intervistatore "vero", che interviene attivamente nella discussione e, insomma, non si limita a incalzare Bertinotti con domande e interrogativi più o meno classici, ma dirige la ricerca con input intelligenti e articolati. Il risultato è che il libro, a tratti, è una storia del ‘900 politico, rivisitato nell'ottica del tema della pace e della guerra, a tratti, un ambizioso tentativo di fondare - rifondare - le categorie di nonviolenza e pacifismo (che non sono perfettamente equivalenti) nell'era della guerra globale. Qui il libro moltiplica la sua utilità: è un testo dal quale si imparano molte cose e si è spinti a successive letture. Cito un primo esempio, non perché sia il più importante e significativo, ma perché mi è apparso singolarmente stimolante: la valorizzazione di una figura come quella di Aldous Huxley, il geniale autore di Brave New World (Un mondo nuovo, la più intensa "utopia negativa" del ‘900, che anticipa la "rivoluzione genetica" e la fantascienza biologica), ma anche e sopratutto il saggista che riflette sul nesso tra scienza e potere e guerra, e suggerisce, con largo anticipo, la questione-chiave del controllo sociale sul progresso scientifico. Huxley, ovviamente, non è l'unica delle riscoperte possibili: la sua attualità, come quella di altri pensatori, come Aldo Capitini o Claudio Napoleoni, è funzionale alla ricostruzione di un "filo rosso" che attraversa molte culture politiche (movimento operaio, cattolicesimo, pensiero laico e democratico) e molti movimenti. Si tratta, appunto, di uno dei recuperi funzionali alla (ri) fondazione di una autentica cultura della pace, dove si procede attraverso la piena storicizzazione di specifiche esperienze del passato, e dove si cerca di definire nel tempo presente una scelta che va oltre il rifiuto della guerra e oltre lo schieramento politico, pur essenziale, che ne consegue. Un compito davvero arduo. Un impegno che è tra la maggiori ricchezze di questo lavoro, dove il metodo è costantemente quello di dar vita a una sorta di Terza Via, : oltre (ma non contro) l'etica, oltre (e contro) il realismo politico, ma sempre a favore dell'efficacia della politica.


    Un duplice asse di ricerca
    Dunque, con audacia politica e rigore intellettuale, Bertinotti & Gianni ci provano, e propongono un doppio asse di ricerca. Il primo, dicevamo, è di tipo storico: come la guerra e la violenza hanno percorso il secolo che ci sta appena alle spalle, che si può suddividere («senza pretese di scientificità», avverte Bertinotti) in quattro cicli (il primo fino alla I guerra mondiale, il secondo negli anni del fascismo, il terzo nella così detta «età dell'oro»), là dove il ciclo numero 4 - la globalizzazione capitalistica, che comincia, grosso modo, nell'ultimo ventennio del ‘900 e dentro il quale siamo oggi immersi - si presenta in netta soluzione di continuità con i tre che lo precedono. Tanto da far dire al segretario di Rifondazione comunista: «Questa globalizzazione è contro la modernità anche perché riporta la violenza, nella sua forma più distruttiva e barbara, ad essere un elemento costitutivo e dialettico della contesa, elemento così grande da soverchiare ogni altro conflitto, come quello di classe, di genere, di generazione» La guerra "infinita, indefinita e permanente" dell'era della globalizzazione, insomma, ha mutato radicalmente natura, ed ha assunto il volto della catastrofe: non produce, non ha ancora prodotto, un numero di vittime e un'entità di devastazioni lontanamente paragonabili a quelle della prima e della seconda guerra mondiale, ma, al contrario di queste tragiche vicende, non ha confini, né spaziali né temporali determinati. Informa di sé l'intera società, intere organizzazioni sociali, modifica in senso repressivo il diritto, riduce drasticamente le libertà civili. Alimenta e riproduce il terrorismo (e il fondamentalismo) come propria "altra faccia". Per questo, non può che mutare radicalmente la lotta per la pace: questa guerra non si lascia contrastare con nessuno dei tradizionali strumenti politico-militari. O si soccombe, o se ne è strumentalizzati, inghiottiti, sussunti. Qui è il fondamento, per la prima volta nella storia umana, di una lotta contro la guerra davvero non violenta. Qui diventa chiaro il legame stringente tra il rifiuto della guerra infinita, senza se e senza ma, e il dispiegarsi della soggettività del movimento dei movimenti.


    La scelta della nonviolenza
    Il secondo asse è di natura teorica: come la ricerca della pace ha informato di sé esperienze, lotte e riflessioni. Da Kant a Marx, dai marxismi al movimento operaio, dalla resistenza antifascista e antinazista alle rivoluzioni anticoloniali, da Fanon a Sartre, fino al pacifismo di questi anni, quel che viene tracciato è un vasto campo di indagine da scandagliare e vagliare criticamente, non da ereditare per dovere ideologico, ma neppure da rifiutare per partito preso, o per propensione "nuovista". Questa riflessione mi pare la più importante e intrigante del libro: ci costringe a una resa dei conti con le nostre radici fuori da ogni contestualizzazione soltanto relativistica o consolatoria. E ci ripropone la domanda-chiave: si conciliano, e come, la pace e la rivoluzione, la "grande riforma" del mondo? Esiste davvero, non solo come istanza morale o desiderio, ma come concreta possibilità politica, la rivoluzione nonviolenta? E un tale paradigma non rischia di risultare liquidatorio, rispetto a momenti, anche relativamente recenti, della nostra storia - come la lotta vittoriosa al nazifascismo - così a tutt'oggi fondativi dell'identità di tante generazioni? A questi interrogativi, Bertinotti risponde, intanto, precisando che il pacifismo e la nonviolenza di cui oggi siamo portatori non sono assoluti, nel senso letterale del termine: non sono cioè "sciolti" dai legami con la storia e dalle vicende delle persone. Nei diversi cicli storici del ‘900, scelte quali la guerra rivoluzionaria, la guerra di liberazione, la guerriglia sono risultate necessarie e praticabili: anche in quanto finalizzate alla liberazione da un dominio politico oppressivo (un regime autoritario, o di tipo colonialistico), alla conquista di diritti fondamentali di natura politica e civile, all'indipendenza nazionale, non in sé e per sé alla trasformazione, o al raggiungimento della cosiddetta "giustizia sociale". Oggi, siamo di fronte a dati nuovi e sconvolgenti, come il terrorismo degli Stati e l'imbarbarimento crescente della società. Ma possiamo riflettere sulle sconfitte e i fallimenti del '900: come in Algeria, dove non scatta più, racconta Bertinotti, l'identificazione emotiva con l'azione terrorista della inviata del Fln. E come nella riflessione di Frantz Fanon, che ci appare oggi una esaltazione insostenibile del valore salvifico e "purificatore" della violenza degli oppressi. Oggi, forse, siamo in grado di proporci lotte che non ci rendano simili all'avversario di cui ci vogliamo liberare: siamo cioè alle soglie della possibilità storica di superare fino in fondo la militarizzazione della politica. Ciò che non significa proiettare questa consapevolezza sul passato, né tanto meno condannare o rimettere in discussione le esperienze di lotta che hanno fatto ricorso alle armi e alla violenza. Dice Bertinotti, con un'affermazione di tipo quasi rawlsian: «Bisogna sempre chiederci, quando ci riferiamo ad una situazione di combattimento: io che cosa avrei fatto se mi fossi trovato lì?». Viceversa, può anche accadere che alcune grandi astrazioni di qualche secolo fa - l'illuminismo politico kantiano e la sua idea di una pace perpetua che si fonda su una federazione mondiale dei popoli - suonino, adesso, come meno astratte e meno velleitarie.


    Pace e rivoluzione
    Ma, nel rapporto tra pace e rivoluzione, la questione fondamentale concerne l'essenza del processo rivoluzionario: che è il superamento del capitalismo, la costruzione di una società fondata sulla volontà organizzata delle donne e degli uomini, non sulla logica della produzione di merci. La rivoluzione, detto in sintesi, non coincide con la conquista del potere politico, o con l'abbattimento violento dell'ordine esistente: non è la presa del Palazzo d'inverno, o la conquista per via parlamentare del Governo. Il messaggio strategico di Bertinotti & Gianni, su questo punto cruciale, è chiarissimo. Questo, del resto, è il solco tracciato da Marx che, precisamente per questa ragione, non può esser identificato come il teorico della violenza "levatrice" della storia: lo attesta anche una lettura più attenta della nozione di "dittatura del proletariato", che ne circoscrive il senso più all'accumulazione delle forze necessarie alla costruzione di una soggettività antagonista, che a un'ipotesi di "impossessamento" permanente dello Stato e dei suoi apparati. Il fine dichiarato di Marx, insomma, è la costruzione di una società senza classi, così come il fine del comunismo (il Lenin di Stato e Rivoluzione) è la fine del lavoro salariato, e il superamento dello Stato. E', insomma, - come quello, successivo, della sua più brillante "allieva", Rosa Luxemburg - la teoria di una rivoluzione così matura e così radicale, che non è possibile, in nessun caso, concepirla come putschismo. Ci sia consentita qui una notazione critica su questo importante passaggio del dialogo Bertinotti\Gianni: essi si riferiscono a saggi marxiani molto importanti, ma anche legati ad esperienze storiche connotate, come La guerra civile in Francia, la sopravvalutata Critica del programma di Gotha e lo stesso Manifesto, tutto nell'orizzonte dei moti del '48. Perché non attingere di più al Capitale e ai Grundrisse? Proprio nel rapporto di fondo che i Lineamenti descrivono tra capitalismo maturo, quello che assume la scienza (il General Intellect) come principale forza produttiva, e comunismo, è implicita una rivoluzione che ha il suo asse cruciale nella liberazione, nella autodeterminazione dell'individuo sociale, nella riappropriazione umana di una ricchezza tanto grande, che il rapporto capitalistico (mondializzato) di produzione costituisce ormai una «ben misera base» di sviluppo. Una rivoluzione di questa natura è ben altro da una lotta "puramente politica": esige un rivoluzionamento di tutti i rapporti sociali e di tutte le relazioni interpersonali, impone la costruzione, nella pratica del conflitto, di concrete "prefigurazioni" sociali e politiche che insieme modificano i rapporti di forza e alludono a un ordine diverso, e chiede un adeguamento dei mezzi, che non possono più separarsi, più di tanto, dai fini ultimi. Una rivoluzione di questa entità non può che essere nonviolenta. Come diceva Rosa Luxemburg, con una citazione che mi sarebbe piaciuto trovare in questo libro: «L'attività rivoluzionaria più impietosa e l'umanità più generosa, questo solo è il respiro del socialismo. Bisogna abbattere un mondo, ma ogni lacrima versata, anche se è stata asciugata, è un atto d'accusa; ed una persona che perseguendo uno scopo troppo importante calpesta un verme per brutale mancanza di attenzione commette un delitto (1918)».



    Stralcio:

    "La guerra è diventata permanente, infinita e indefinita. Nessuna sa quando effettivamente finirà quella dell'Afghanistan, mentre l'inizio di quella nuova contro l'Iraq è continuamente all'ordine del giorno. Allo stesso modo con cui il WTO decide gli scambi, così i signori delle guerre decidono delle medesime. Tutto tende ad avvenire per scelte tecniche — ove prevale l’assoluta irresponsabiità decisionale — e non più per via politica, la quale richiederebbe di dover comunque rispondere a qualcuno.
    La domanda di Alice nel paese delle meraviglie: «chi comanda qui?» non ha risposta, perché il comando è semplicemente una funzione della globalizzazione e la guerra non supplisce alla politica — cosa che presupporrebbe solo un’assenza temporanea della medesima e un suo imminente ritorno —, ma è un elemento costituente del nuovo ordine mondiale. Infatti per gli Usa il sistema di alleanze diventa «a geometria variabile», ossia può comporsi e scomporsi in varie direzioni, purché il centro di attrazione e di comando sia rappresentato sempre da loro e a loro resti in mano il monopolio della violenza."
    "Vogliamo distruggere tutti quei ridicoli monumenti del tipo "a coloro che hanno dato la vita per la patria" che incombono in ogni paese e, al loro posto, costruiremo dei monumenti ai disertori. I monumenti ai disertori rappresentano anche i caduti in guerra perchè ognuno di loro è morto malidicendo la guerra e invidiando la fortuna del disertore. La resistenza nasce dalla diserzione"

    Partigiano antifascista, Venezia, 1943





  9. #9
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    Post L'etica di Lukács di fronte al tuono

    L'etica di Lukács di fronte al tuono

    Dal più importante studioso del filosofo ungherese un contributo critico al libro di Stefano Catucci, «Per una filosofia povera» (Bollati). Contrariamente alla maggioranza degli intellettuali, che videro nella Grande Guerra un riscatto dalla miseria quotidiana, l'antibellicista Lukács identificò uno spazio di possibile autenticità per il presente nella rinuncia della filosofia alle pretese totalizzanti del suo sguardo estetico e metafisico

    NICOLAS TERTULIAN

    Il silenzio che ormai da lungo tempo, e soprattutto nei grandi media, circonda l'opera di György Lukács (in particolare gli scritti della maturità, di orientamento rigorosamente marxista), comincia a incrinarsi. La sua statura filosofica, largamente sottostimata per evidenti ragioni di congiuntura ideologica (ci si è affrettati a seppellirlo sotto le macerie del muro di Berlino), torna poco a poco all'attenzione, a volte per vie indirette e tortuose. L'anno scorso, per esempio, di Giuseppe Prestipino è uscita, con il titolo Realismo e utopia (Editori Riuniti, 2002) un'interessante raccolta di testi dedicati essenzialmente a un'analisi comparata del pensiero di Ernst Bloch e di Lukács. Il libro che ora Stefano Catucci ha pubblicato per Bollati Boringhieri fa parte di questo stesso movimento. Dedicato sostanzialmente al pensiero del giovane Lukács, questo lavoro si distingue fortunatamente dalla letteratura degli ultimi decenni per il suo rifiuto di scindere l'opera e la personalità del filosofo in due blocchi eterogenei. Lungi dall'attestarsi sugli scritti del periodo giovanile allo scopo di svalutare l'opera della maturità (metodo molto diffuso), Stefano Catucci procede a una spettacolare ricostruzione del primo Lukács per mostrare come molti dei suoi elementi si ritrovino sviluppati, trasformati o consolidati nelle grandi opere del secondo periodo. L'autore, che ha una profonda conoscenza delle opere giovanili di Lukács, compresi gli scritti minori, le note su Dostoevskij, il Diario del 1910-11 e naturalmente la corrispondenza, mostra una perfetta comprensione e una grande sensibilità nei confronti del movimento interno di un pensiero costantemente alla ricerca di se stesso, lungo tutto il periodo che va dal 1906 al 1918 (i soli scritti rimasti fuori dalla sua considerazione sono le Heidelberger Notizen del 1910-13, pubblicate a Budapest nel 1997).

    La scommessa di riconoscere nel giovane Lukács i semi della sua evoluzione ulteriore e di mostrare come la sua adesione al comunismo, nel 1918, anziché provenire ex nihilo, sia stata preceduta da tentativi ed esperimenti intellettuali che tradiscono un'evidente volontà di rottura con il mondo borghese (il «mondo della convenzione»), può apparire azzardata, avendo lo stesso Lukács più volte ripetuto che al momento della sua adesione al marxismo si era prodotta, in lui, una vera cesura. Ma si può dire che, nell'insieme, Catucci ha vinto la scommessa.

    L'autore del libro Per una filosofia povera fa notare a giusto titolo come l'intellettuale che ha aderito al movimento comunista avesse già una formazione filosofica solida, saturata dalle letture di Meister Eckhart, Kierkegaard e Dostoevskij (fra gli altri), e come, inoltre, egli coltivasse già da tempo il progetto di costruire una filosofia nuova, in rottura con i sistemi del passato. Analizzando minuziosamente la ricchezza del patrimonio intellettuale del giovane Lukács e la singolarità della sua fisionomia spirituale, Stefano Catucci insiste con ragione sulla intrinseca incompatibilità tra la forma mentis del futuro marxista, erede di un'esperienza di pensiero complessa e raffinata, e il semplicismo del marxismo codificato all'epoca dello stalinismo. Così, rivitalizzando il pensiero giovanile e dimostrando la continuità fra i due diversi periodi dell'attività di Lukács, Catucci va contro una tendenza oggi molto diffusa, quella che tende a gettare il discredito sull'insieme del Lebenswerk lukacsiano.

    Sotto la penna sottile di Stefano Catucci, e grazie a un serio lavoro di ricostruzione, testi come Cultura estetica, il dialogo Sulla povertà di spirito, l'intervento intitolato Le vie si sono divise e altri più conosciuti, come i saggi riuniti nell'Anima e le forme o la Teoria del romanzo, ai quali bisogna aggiungere il Manoscritto Dostoevskij, acquistano nuova freschezza, illuminati da una prospettiva inedita.

    L'autore di Per una filosofia povera costruisce per la prima volta un ampio lavoro di contestualizzazione storica del pensiero di Lukács situando al centro, giustamente, l'esperienza della prima guerra mondiale. La posizione lungimirante del giovane filosofo, che aveva dichiarato la sua ferma opposizione alla guerra fin dai primi giorni dell'agosto 1914, ritrova tutto il suo senso quando viene messa in relazione, come fa l'autore del libro, con il paesaggio intellettuale dell'epoca, portandoci a ricordare l'entusiasmo guerriero di Simmel, di Scheler, di Max Weber, per tacere di Meinecke, Troeltsch e di tanti altri intellettuali tedeschi. Anche se non condivido la tesi di Catucci, secondo il quale la critica di Lukács poggia sulla stessa «base gnoseologica» dei suoi contemporanei neokantiani (mi sembra, infatti, che egli avesse superato questa base avviandosi verso un pensiero della sovversione il cui cardine è la «seconda etica»), è incontestabile che il Kriegserlebnis, l'esperienza della guerra, abbia segnato una svolta decisiva nel cammino del filosofo verso una radicalità rivoluzionaria.

    Resta da guardare più da vicino l'idea centrale del libro di Catucci: l'elogio di una «filosofia povera», Leitmotiv annunciato dal titolo e che, con numerose variazioni, attraversa l'intera opera. Ispirato da un testo di Walter Benjamin, Esperienza e povertà, del 1933, e soprattutto dal celebre dialogo di Lukács Sulla povertà di spirito, del 1912, il concetto conserva una sua forza euristica se lo si riconduce al suo senso originario, così come lo ha definito Meister Eckhart in uno dei suoi sermoni più noti. Nel pensiero del mistico tedesco, assumeva la valenza di un processo di spoliazione dello spirito dalla falsa ricchezza del mondo, del congedo da un mondo di simulacri in favore di un'essenzializzazione e di una stilizzazione estrema, formalizzata appunto nell'espressione «povertà di spirito». La risalita verso il «fondamento dell'anima» (Grund der Seele), nucleo della vera humanitas dell'homo humanus, costituisce in effetti un motivo centrale nel pensiero del giovane Lukács, presente tanto nel dialogo Sulla povetà di spirito che nelle note manoscritte su Dostoevskij. Stefano Catucci ha dunque ragione nel mettere in rilievo questo aspetto, arrivando a farne addirittura una chiave ermeneutica per la comprensione dell'intera opera di Lukács. Questi, d'altra parte, ha conservato fino alla fine della sua vita una grande ammirazione per la personalità e l'opera di Meister Eckhart. In tale direzione Catucci avrebbe potuto prolungare le sue analisi estendendole alle grandi opere della maturità, per mostrare l'isomorfismo tra il riferimento del primo Lukács al «miracolo della bontà» e l'idea di «grazia» nel capitolo cruciale dell'Estetica degli anni Sessanta; fra il «fondamento dell'anima» (Grund der Seele) e l'idea dell'uomo come «nocciolo» (Kern) e non come «guscio» (Schale), sviluppata in un altro capitolo della stessa Estetica; fra il concetto della «seconda etica» (dominata dagli «imperativi dell'anima») e il concetto di «genere umano per sé» nell'Ontologia dell'essere sociale: purtroppo, l'opera dell'ultimo Lukács occupa ancora un posto troppo ristretto nelle sue analisi, focalizzate soprattutto, anche se non esclusivamente, sugli scritti di gioventù. E tuttavia il concetto di «filosofia povera» solleva qualche interrogativo, tanto numerose e fluide sono le accezioni che gli consegna l'autore. La «povertà» indica a volte la situazione di indigenza del mondo moderno, la perdita della «immanenza del senso» di cui parlava Lukács nella Teoria del romanzo, e altre volte, al contrario, «una povertà nuovamente ricca e beata», ripresa del concetto positivo della «beata povertà» dei francescani e di Meister Eckhart. In altri passaggi il concetto si avvicina alla «mancanza di interesse» di Kant (ripresa da Lukács nella sua Estetica di Heidelberg), intesa come «il contrassegno della povertà dello spirito» (un accostamento forse non improprio). Altre volte, infine, la «povertà» diventa il fermento costitutivo di una «ontologia critica» e prende un'estensione inattesa laddove la stessa Estetica giovanile di Lukács viene definita come una «ontologia povera».

    Se una tale estensione del concetto di «filosofia povera» provoca una certa reticenza, è perché penso alle opere che coronano il cammino intellettuale di Lukács, l'Estetica e l'Ontologia dell'essere sociale. La ricchezza categoriale che le caratterizza sembra contraddire l'idea di una «filosofia povera» (quale che sia il senso figurativo dell'espressione). A differenza di Catucci, non credo che la vocazione ultima di Lukács sia rimasta fino alla fine quella di un «saggista» piuttosto che di un «pensatore sistematico». Era l'idea che ne aveva Emil Lask, vivamente contestato da Max Weber che, nel 1916, incoraggiava Lukács a perfezionare il suo «sistema» estetico. L'elaborazione, alla fine della sua vita, di una grande Estetica sistematica, di una Ontologia dell'essere sociale e di un'Etica (incompiuta), fanno di Lukács uno degli ultimi grandi pensatori sistematici del nostro tempo, ugualmente distante dal pensiero dell'Essere a-categoriale di Heidegger, dai «giochi linguistici» di Wittgenstein, da un mondo «senza sostanze e senza essenze» di Rorty e dal «messianismo senza messia» di Derrida.

    Stefano Catucci ha probabilmente ragione nell'accostare Heidegger e Lukács, identificando in loro due «pensatori di un'epoca dello sconforto», come diceva Karl Löwith. Ma è convincente soprattutto laddove sottolinea l'opposizione fra l'approccio heideggeriano all'opera di Hölderlin e di Rilke, depurata di ogni connotazione storica e sociale, e quello di Lukács, che si appoggia precisamente su una contestualizzazione socio-storica dell'opera di Hölderlin (come si legge nel paragrafo intitolato Perché i filosofi nel tempo della povertà?). D'altra parte nel 1976, in una lettera a Imma von Bodmershof, Heidegger stesso rifiutava una lettura della poesia di Hölderlin nella prospettiva del suo «giacobinismo», alludendo probabilmente ai lavori di Lukács e di Bertaux.

    Più di venticinque anni fa, nella prefazione alla traduzione italiana del volume Cultura estetica di Lukács (Newton Compton, 1977), Emilio Garroni, il maestro di Stefano Catucci, sottolineava la necessità di superare l'opposizione ingiustificata fra il giovane Lukács e il Lukács della maturità, valorizzando piuttosto le «costanti» della sua opera. Negli ultimi anni, due allievi di Garroni hanno pubblicato dei lavori notevoli nei quali gli scritti giovanili di Lukács, in particolare la Teoria del romanzo, sono oggetto di interpretazioni molto originali: Pietro Montani con il suo libro Estetica ed ermeneutica e Giuseppe Di Giacomo nel suo Estetica e letteratura. Il libro appena uscito di Stefano Catucci, che segue quelli dedicati a Husserl e a Foucault, si situa su questa stessa linea di pensiero. Ma il suo saggio raffinato si mostra più vicino all'auspicio di Garroni, poiché a differenza delle opere appena citate, che si soffermano esclusivamente sull'opera giovanile di Lukács (Montani, soprattutto, sembra non apprezzare il «secondo» Lukács), insiste sulla persistenza di alcuni motivi centrali del periodo giovanile nell'opera della maturità, e così facendo mette in luce, al di là delle discontinuità e delle rotture, l'unità di un'opera che ha attraversato un secolo.

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    "Vogliamo distruggere tutti quei ridicoli monumenti del tipo "a coloro che hanno dato la vita per la patria" che incombono in ogni paese e, al loro posto, costruiremo dei monumenti ai disertori. I monumenti ai disertori rappresentano anche i caduti in guerra perchè ognuno di loro è morto malidicendo la guerra e invidiando la fortuna del disertore. La resistenza nasce dalla diserzione"

    Partigiano antifascista, Venezia, 1943





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    Post Manifesto contro il lavoro

    La difesa in doppiopetto del culto del lavoro
    Una merce sempre più rara, ma ancora base del legame sociale. «Manifesto contro il lavoro», un volume del gruppo tedesco «Krisis»

    BENEDETTO VECCHI

    Nell'anno che ha visto il più grande sindacato confederale dare vita alle più numerose manifestazioni in difesa dell'articolo 18 dello Statuto dei lavorativi, la pubblicazione del volume che raccoglie i testi del gruppo tedesco Krisis è decisamente in controtendenza. Già il titolo - Manifesto contro il lavoro (DeriveApprodi, pp. 140, € 11) - può provocare lo stesso fastidio di un gessetto passato rudemente su una lavagna. E se poi si legge l'attacco («Un cadavere domina la società: il cadavere del lavoro»), il senso di smarrimento non può che aumentare. E tuttavia i testi raccolti nel volume - due lunghi saggi, uno scritto dal filosofo tedesco Robert Kurtz, l'altro redatto dallo stesso Kurtz e da Norbert Trenkle - meritano di essere letti e magari discussi proprio da chi considera lo scioglimento del nodo dei rapporti sociali di produzione come elemento discriminante di qualsiasi agire politico «radicale». Il gruppo Krisis, come scrive nella postfazione Anselm Jappe, è composto da alcuni attivisti e studiosi variamente impegnati nei movimenti sociali tedeschi che hanno dato vita all'omonima rivista e che si ritrovano per discutere di temi - il lavoro, il consumo critico, la crisi dell'industrialismo e del patriarcato - senza avere nessuna urgenza di linea politica. Una piccola comunità intellettuale che è quindi caratterizzata dal tentativo di elaborare una critica della società moderna, facendo leva su alcune categorie dell'analisi marxiana del capitalismo (il lavoro e il feticismo del merci, ad esempio). E che ha trovato echi anche nel nostro paese in conseguenza della pubblicazione di due volumi di Robert Kurtz - L'onore perduto del lavoro, La fine della politica e l'apoteosi del denaro, entrambi pubblicati da manifestolibri - e del saggio di Ernst Lohoff nella rivista «Invarianti» (n. 29 e 30, La fine del proletariato come inizio della rivoluzione).

    Per Krisis, la tendenziale automazione di tutto il processo lavorativo ha reso il lavoro una merce rara. E questo non significa però una diminuzione della produttività: semmai assistiamo a una sua crescita esponenziale. Ci sarebbero quindi tutte le condizioni di una radicale riduzione dell'orario di lavoro e ad una sua ridistribuzione per tutti gli uomini e donne del pianeta. L'automazione del processo lavorativo non riguarda solo i paesi capitalistici avanzati, ma anche quelli in via di sviluppo, dopo una prima fase che li ha visti come luoghi destinati ad ospitare le «lavorazioni sporche» e ad «alta intensità di lavoro». Nel volume viene infatti affermato senza mezzi termini che lo sviluppo capitalistico non segue strade predeterminate e già sperimentate: insomma, dagli sweetshop si approda all'impresa a rete, senza passare per la catena di montaggio.

    E tuttavia, proprio quando si afferma che è «la stessa società capitalista ad abolire il lavoro», si mette in evidenza che il lavoro rimane ancora la misura del legame sociale. Anche se la disoccupazione di massa è oramai una realtà, i governi statunitensi, europei, i sindacati e i partiti di sinistra continuano ad affermare che è solo il lavoro la condizione sine qua non per accedere ai diritti sociali di cittadinanza e ai servizi sociali del welfare state. Per i «senza-lavoro» a medio e lungo termine ci può essere la carità del sussidio di disoccupazione, mentre per le nuove leve dell'esercito industriale di riserva ci sono a disposizione i contratti di formazione lavoro, il lavoro interinale, il part-time e tutte quelle forme di rapporto lavorativo che sono pudicamente chiamate atipiche.

    L'analisi del gruppo Krisis riserva stilettate anche per i partiti socialdemocratici europei o per gli attivisti sindacali: per la loro complicità nei confronti del capitale, per il loro appoggio alle leggi che liberalizzano il mercato del lavoro. I nemici della trasformazione della società sono tutte quelle realtà sociali e politiche che favoriscono quei progetti e «leggi per il lavoro», da considerare come feroci dispositivi di «dominio del capitale sulla società». Non vengono risparmiati neanche i gruppi di base che rivendicano un reddito di cittadinanza («subalterni alla logica del capitale»).

    Il Manifesto contro il lavoro non risparmia quindi nessuno. Va detto che è scritto spesso con un linguaggio verboso, in alcune parti criptico. Ma va comunque accolto come un'utile provocazione, come antidoto ai veleni di una esasperante etica del lavoro. Né vanno sottaciute alcune esemplificazioni e forzature deterministiche delle tendenze in atto nel capitalismo flessibile. E tuttavia la critica al regime di illibertà del lavoro salariato va accolta.

    Può sembrare un doppio salto mortale, ma chi scrive ne condivide la finalità politica, anche se pensa che, ad esempio, il referendum previsto sull'articolo 18 sia un appuntamento politico importante che solo i sacerdoti del lavoro lo considerano un appuntamento da disertare. In fondo, per fuoriuscire dalla società del lavoro (salariato) serve anche organizzare la resistenza.

    E la vittoria in quel quesito referendario serve anche a questo.

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    "Vogliamo distruggere tutti quei ridicoli monumenti del tipo "a coloro che hanno dato la vita per la patria" che incombono in ogni paese e, al loro posto, costruiremo dei monumenti ai disertori. I monumenti ai disertori rappresentano anche i caduti in guerra perchè ognuno di loro è morto malidicendo la guerra e invidiando la fortuna del disertore. La resistenza nasce dalla diserzione"

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