La Destra comanda
ma non governa
di EZIO MAURO


È CONTROCORRENTE, ma proverò a dimostrare che c'è del metodo nella follia che pervade le ultime ore della Casa delle libertà. Apparentemente, c'è solo disgregazione, sfascio, anarchia. Uno stato di non-governo che deve impensierire non poco il Palazzo della destra, se ieri il vicepresidente Fini ha dovuto uscire allo scoperto per invitare la maggioranza "al dovere di una maggiore coesione", chiedendo a tutti di riflettere a fondo "su ciò che è accaduto negli ultimi giorni", sulle "incomprensioni" e sulle "divaricazioni". Si sta dunque passando il segno. Vediamo perché.

Il catalogo degli incidenti politici degli ultimi giorni è sotto gli occhi di tutti. Il presidente del Consiglio insulta i cento anni di storia della più grande industria italiana in un momento di crisi verticale di mercato per l'azienda ........

Palesemente, dopo un anno e mezzo dall'ingresso di Berlusconi a Palazzo Chigi, con un grande successo elettorale e una forte maggioranza in Parlamento, nessuno tiene in mano le redini di questa destra italiana: che comanda, ma non governa. Queste spinte centrifughe, viste tutte insieme e sommate alle difficoltà della politica economica del governo, all'impatto sociale negativo delle scelte per la scuola e la sanità, all'anomalia irrisolta del conflitto di interessi e all'ossessione di manomettere la legislazione sulla giustizia, per il salvacondotto privato di un piccolo gruppo di imputati legato al presidente del Consiglio, dà l'idea di un orizzonte limitato, di un progetto asfittico e di una prospettiva incerta per il governo Berlusconi.

Ma qui, interessa di più cercare di capire le ragioni di questa asfissia politica e di questa autonomia ridotta. E se devo indicare una causa sola di questa crisi, la individuo nel fallimento culturale del berlusconismo, che è già evidente ben prima del fallimento politico. Mi spiego: ciò che è già fallito, perché è mancato fin dalla partenza, è il tentativo di fondare in Italia una moderna cultura di destra per il nuovo secolo, fondendo insieme in una concezione europea, accettata, consapevole e risolta le spinte e le pulsioni (alcune delle quali anche moderne, e vitali) che agitano oggi le diverse destre riunite da Berlusconi dentro la Casa delle Libertà, ma non ricondotte ad unità. Si tratta di un'operazione ambiziosa, e tuttavia necessaria, parallela a quella che a sinistra è eternamente in corso (e irrisolta) dopo la fine del comunismo, il suicidio socialista, la scelta di campo dei cattolici democratici senza più il partito cattolico alle spalle.



In Francia, la stanno tentando Chirac, Juppè e Raffarin, cercando di trasformare la larga maggioranza presidenziale in un partito, ma soprattutto cercando di vincere la battaglia delle idee: creando una nuova carta dei valori che attualizzi l'idea di destra, coniughi il ristabilimento dell'ordine repubblicano con l'integrazione degli stranieri e la riduzione delle ingiustizie, superi sia il neoconservatorismo americano che il liberalismo anglosassone, coniughi i Beatles con de Gaulle, faccia i conti con lo spirito del maggio Sessantotto, fuoriesca dalle identità del vecchio secolo perché, come dice il ministro Sarkozy "dirsi gollisti oggi non basta più".

In Italia tutto questo manca. E' come se a Berlusconi bastasse l'assemblamento della coalizione, poi la conduzione vittoriosa della campagna elettorale, infine la guida del governo. La destra italiana, si potrebbe dire con uno slogan, è ciò che fa. Oppure, più esattamente: la destra è Berlusconi al governo, indipendentemente da ciò che fa. Come una riparazione, una riconquista, una rivoluzione. Un dato psicopolitico, ma senza l'ambizione di fondere le diverse destre in una cultura capace di sfidare la sinistra per la nuova egemonia.

In questo quadro ecco il problema a cui stiamo assistendo si muovono nel Polo almeno quattro spezzoni culturali, quattro blocchi di pensiero e prassi, in conflitto tra di loro. Il primo, il più estraneo, è la Lega. È in caduta verticale di consensi, come dicono i sondaggi, perché l'autonomia è l'anima del leghismo e al contrario l'allineamento con Forza Italia spinge gli elettori a preferire il partito più forte e più visibile. La devolution da riforma è diventata ideologia fondante, ragione politica decisiva per l'impegno di Bossi al governo.

L'attacco a Ciampi è un attacco al simbolo dell'unità nazionale, ma anche un segnale lanciato da Bossi agli alleati e al Cavaliere: la Lega non può fare né sconti né compromessi, è pronta a diventare pietra d'inciampo negli ingranaggi istituzionali, a trasformare rapidamente il governo in "nemico" delle istituzioni di garanzia. Dietro Bossi si muove Tremonti, ormai nuovo ideologo della Lega, un uomo che unisce al potere del ministero dell'Economia l'ambizione di cucire il retroterra culturale del leghismo di governo, come un novello Miglio.

E' un Tremonti eclettico e spericolato, che nasce liberista ma oggi cita il new deal e porta Jean Baptiste Colbert nel pantheon pagano di Bossi. Ma soprattutto indirizza le pulsioni e le inquietudini leghiste verso un populismo moderno mutuato addirittura da Pim Fortuyn, contro "il modello assoluto" dell'Europa che standardizza e livella tutto, crea l'"uomo a taglia unica" unificato da un solo codice di consumo, asservito alle élite e alla burocrazia, schiavo del politically correct.

Il secondo blocco culturale, antagonista al primo, è quello dei centristi post-democristiani. Avevano un ruolo puramente gregario, di esplicito ornamento culturale per la nobiltà della tradizione. Ma due fattori combinati tra loro li hanno esposti in un protagonismo politico e più ancora culturale da cui non possono tornare indietro, perché anche in politica nulla si distrugge, soprattutto ciò che rende in termini di consenso: si tratta del ruolo di Casini al vertice della Camera, che lo ha portato ad assumere toni e stili istituzionali anche nell'agire politico, e della parallela estremizzazione della politica berlusconiana, sotto la spinta delle necessità di salvaguardia personale da un lato, delle richieste leghiste dall'altro.

Il ruolo, per Casini, è diventato una politica, lo stile addirittura l'embrione di una cultura. È il moderatismo, naturalmente contrapposto non solo all'estremismo parolaio leghista, ma anche al radicalismo di governo del Cavaliere.

Il terzo blocco di pensiero e azione, è ovviamente quello di Alleanza Nazionale. È un partito culturalmente guardingo, sospettoso di sé e degli altri, rattrappito dalla necessità di manifestare il suo pensiero soltanto qui ed ora, portandolo a coincidere con la prassi di governo. Dunque il partito è Fini. E Fini tende a coincidere col buonsensismo di governo, con una destra amministrativa, deprivata da pulsioni, equilibrista più che equilibrata, ambiziosa ma in forma nascosta, attenta ad investire più che a fare.

Una destra che nell'impazzimento di questi giorni si accredita come responsabile, ma resta nell'ambito della mediazione, rinunciando a indicare una via culturalmente risolutiva delle tensioni interne alla maggioranza, attenta al comunitarismo ma incapace di proporlo come alternativa al leghismo. Perché la sua cultura tradizionale è inservibile, quella nuova coincide con il programma di governo, e mentre si fa si disfa.

Siamo all'ultimo spezzone culturale: il berlusconismo fatto politica, ideologia e governo. Il Cavaliere in realtà oscilla da sempre tra la tentazione democristiana (che lo vorrebbe al centro di interessi ordinati e composti, in un sistema dove come dice da anni Confalonieri "ce n'è per tutti") e la vocazione "rivoluzionaria", che rompe il linguaggio e le convenienze tradizionali della politica, lo porta a dire ciò che in politica non si può nemmeno pensare, lo spinge oltre la linea di decenza, trasformando la sua biografia in ideologia testimoniale, assicurazione e promessa, progetto per la destra e programma per gli italiani.

E' un approccio culturale populista e plebiscitario, dove il consenso si misura una volta soltanto e non deve essere conquistato ogni giorno, l'incapacità di governare un'alleanza diventa congiura esterna e ribaltone, gli avversari politici sono nemici eterni del Bene, la politica è comando più ancora che potere. Un mondo fantasmatico dove agiscono personaggi irreali e di comodo, gli eterni Comunisti, lo stesso Cavaliere invincibile e superiore a tutti.

Un paesaggio da campagna elettorale permanente, per un Paese in guerra con se stesso, per la prima volta governato da una cultura radicale di destra. Come vogliono le leggi della politica, se manca un leader o un progetto capace di disciplinare, selezionare e risolvere queste spinte culturali tra loro diverse, la combinazione rischia di avvenire in basso, al livello degli istinti e delle pulsioni. Si unisce il peggio, affiora un metodo negativo che culturalizza gli errori politici e li rende paradigma, canone, sistema.

Berlusconi che attacca la Fiat rivela la pulsione dell'eterno outsider che vorrebbe ereditare il blasone decaduto della grande aristocrazia industriale, incorporandola e soppiantandola insieme (dopo che a Melfi nel '94 aveva rivelato di tenere la foto dell'avvocato Agnelli sul comodino) per dire al Paese che lui non ha la soluzione della crisi Fiat: "è" la soluzione stessa, nel momento in cui anche la Fiat si decide a scivolare dentro la sua agiografia personale.

Ma tutto questo ecco il punto si salda con la cornice culturale del colbertismo tremontiano, con la sfida leghista alle Grandi Famiglie, con l'insopprimibile grido corporativo e statalista del "Secolo d'Italia" ieri sulla crisi Fiat ("Aiuto pubblico, si può"), magari sognando un'"Italauto" col simbolo liberty di un'autarchia ridicola e impossibile.

Ecco il metodo che unifica nel peggio le sottoculture irrisolte della destra. Nello stesso modo, il Cavaliere non ha sconfessato Bossi per il suo attacco plateale a Ciampi perché al suo essere rivoluzionario è estranea una cultura di salvaguardia delle istituzioni di garanzia. Non gli interessa tenerle al riparo: meglio sulla corda.

Nei prossimi mesi la Costituzione cambierà a spintoni e bocconi, senza una cornice culturale di riferimento, senza un modello misurato in Parlamento, con la devolution che serve all'ideologia di Bossi, il presidenzialismo che è necessario alla biografia del Cavaliere. Anche i pesi e le garanzie si sposteranno. Dunque, piuttosto di costruire a destra una cultura istituzionale faticosa perché rispettosa, e consapevole, si può cominciare a destrutturare il vecchio ordine.

Non è Alain De Benoist, l'unico riferimento culturale comune della nuova destra, ad avvertirci che il prossimo scontro non sarà più tra destra e sinistra, e ancor meno tra fascismo e democrazia, ma "sarà verticale, tra basso contro alto"? E allora, si spari pure sul quartier generale. Vorrei sbagliarmi, ma Bossi contro Ciampi è solo l'inizio.