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    Giacobino 1799
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    Predefinito Dopo un anno e mezzo di governo Berlusconi, l'Italia galleggia ed è scarica

    Rapporto dell'istituto di ricerca, il presidente De Rita ai politici
    "Diamoci una calmata, rischiamo davvero il declino"
    Il Censis: "Ecco l'Italia di oggi
    un Paese con le pile scariche"
    Il ritratto di una nazione che adora cellulari, tv e consumi
    ma che si chiude nei piccoli centri e non ha mobilità sociale


    ROMA - L'Italia galleggia e non sa reagire di fronte a un futuro smorto. E' questo il ritratto del nostro Paese stilato dal rapporto annuale del Censis. Il ritratto di un sistema che vive una prolungata bassa congiuntura e che non sa che cosa fare. Un Paese "con le pile scariche", come dice il presidente Giuseppe De Rita che, tralasciando la prudenza istituzionale, lancia un ammonimento a tutte le forze politiche: "Diamoci una calmata, manteniamo la testa fredda perché il rischio più grosso per il nostro Paese è il declino e la deriva della sua struttura industriale e produttiva". De Rita parla di "galleggiante stazionarietà", "generale mancanza di aspettative", mancanza di "mobilitazione di interessi e impegni individuali". Un'Italia delusa, disillusa, intorpidita che ha di fronte "un orizzonte smorto".

    Non bastano quindi gli ottimismi di facciata per determinare una inversione di rotta. "La nostra società - dice ancora De Rita - presenta oggi una stazionarietà prolungata senza contraccolpi di reattività", "siamo dentro una prolungata bassa congiuntura". E ci trasciniamo "un deficit forte degli interventi (di politiche settoriali come di azioni puntuali) che dovrebbero garantire accumulazione continuata" di quelle pile che sono scariche.

    Queste pile scariche sono soprattutto quattro. Primo: "La penalizzazione indotta dalla mancanza di un coerente insieme di trafori alpini, la debolezza della nostra rete ferroviaria, i "veri e propri blocchi quotidiani di mobilità" su strade e autostrade, le carenze idriche. Secondo: "Il deficit di innovazione logistica che penalizza fortemente il nostro livello di sviluppo e le nostre sfide di competitività. Terzo: "Su tutto il fronte dell'innovazione il sistema presenta scarsa accumulazione": dalla scuola all'università "in progressivo smottamento verso una sorta di sua liceizzazione", all'attività di ricerca scientifica. "L'accumulazione di capitale umano e di innovazione - scrive il Censis - è oggi in Italia a troppo basso livello per le ambizioni, anche di puro consolidamento, dello sviluppo fin qui costruito". Quarto: "il sistema non ha una sua capacita di fare politica di sostegno alla internazionalizzazione del paese".

    Queste quattro carenze strutturali, scrive il Censis, "fa pensare a molti che il declino sia inevitabile, visto che l'autonoma vitalità dei tanti soggetti economici e sociali non ha capacità reali di fare ad esse da contrappeso".

    La collaborazione 'pubblico-privato' che molto potrebbe fare non sembra in grado, allo stato dei fatti, di imprimere la spinta necessaria. Le "istituzioni settoriali coinvolte" sono in una fase di riforma che darà i frutti nel medio periodo ma che oggi "le rende fragili". E "il rapporto-pubblico privato, essenziale per fare accumulazione di sistema è di difficile rimessa in moto" visto che sono state smantellate "le presenze pubbliche precedenti (anche con qualche buona motivazione) senza stabilire un nuovo necessario regime di vitale rapporto tra pubblico e privata".

    Sul fronte sociale il rapporto sottolinea "una generale mancanza di aspettative": "non sembra funzionare - si legge nel rapporto - quella mobilitazione di interessi ed impegni individuali" e "le tensioni collettive sono più politiche e infrapolitiche che sociali". "Si va quindi affermando - sottolinea il Censis - una inerzia piccolo-medio-borghese che di fatto nasconde un fenomeno inquietante: l'assenza di reattività".

    "Siamo stati delusi dalle promesse inarrestabili della new economy, dalle magnifiche sorti della finanziarizzazione, da quei processi di privatizzazione e liberalizzazione che avrebbero dovuto liberare nuove opportunità e nuove energie e che invece si sono rivelati affari di pochi per pochi".

    Lo stesso 'galleggiamento' si riscontra a livello istituzionale: secondo la fondazione "non abbiamo saputo portare a termine una reale riforma istituzionale, le vecchie istituzioni sono diventate rinsecchite e senza ruolo, l'assetto dei poteri si è adattato più alle prepotenze di alcuni di essi che a un organico loro ridisegno".

    (6 dicembre 2002)


    da www.repubblica.it

  2. #2
    Giacobino 1799
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    L'Italia di Berlusconi vede nero
    di Siegmund Ginzberg

    Quali sono i paesi tormentati dal più nero pessimismo sul futuro e la sorte delle generazioni a venire? In quali nazioni la gente vede solo guai all'orizzonte, si è convinta che i proprio figli staranno peggio dei genitori? Tenetevi forte: al secondo posto nella classifica dei più disperati al mondo tra i paesi industrializzati c'è l'Italia. Al primo posto c'è il Giappone, in agonia economica da oltre dieci anni. Al terzo posto, quasi ex aequo, vengono Guatemala, Honduras e il Libano, stretto nella morsa tra Siria, Israele e un governo considerato tra i più corrotti al mondo, dopo vent'anni di massacri tra cristiani, maroniti, drusi, arabi e palestinesi. È quanto viene fuori da uno dei più ambiziosi sondaggi di opinione su scala mondiale, il Pew Global Attitudes Project, commissionato da uno dei più prestigiosi centri di ricerca di Washington, condotto intervistando 38.000 persone in 44 paesi.
    Presidente del comitato che l'ha concepito è l'ex segretario di Stato di Bill Clinton, Madeleine Albright. Ne sono stati anticipati alcuni dei risultati più salienti sulla International Herald Tribune di ieri. Si può accedere all'intero studio, e ad un'approfondita discussione delle metodologie usate, in rete (http://people-press.org).
    Tra le domande poste: ritenete che coloro che nel vostro paese oggi sono bambini staranno, una volta cresciuti, meglio o peggio degli adulti di adesso? Solo il 20 per cento degli italiani risponde: «meglio», il 56 per cento risponde: «peggio». L'Italia di Silvio Berlusconi è di gran lunga il paese più pessimista in Europa, quello che crede meno nel proprio futuro. Distanzia non solo la Gran Bretagna, (40 per cento di ottimisti), ma anche la madre tradizionale di tutte le paturnie e del cattivo umore, la Francia depressa dal «bleu» delle sue banlieues. Più pessimisti e depressi degli italiani al mondo sono solo i giapponesi (18 per cento di ottimisti, 67 per cento di pessimisti). Un'altra domanda, ritenete: che da qui a 5 anni starete meglio o peggio di adesso, dà risultati meno sorprendenti. Ad esempio, solo il 17 per cento dei rispondenti italiani pensa che vivrà peggio, il 43 per cento pensa che vivrà meglio.
    In testa a quelli che hanno più fiducia nel proprio futuro c'è la Cina (80 per cento di ottimisti, 9 di pessimisti), la superpotenza economica planetaria del futuro, il gigante che di questo passo entro il 2020 potrebbe superare America ed Europa in prodotto globale. Battuta solo dal Vietnam (98 per cento di ottimisti, solo 2 di pessimisti) e da una serie di altri paesi il cui umore fiducioso dipende forse anche dal fatto che gli è difficile immaginare di poter stare peggio di quanto siano stati sinora.
    Gli Stati Uniti, che pure nel frattempo hanno avuto l'11 settembre, i crolli a Wall Street, gli scandali tipo Enron, dove la gente si risveglia di tanto in tanto nel pieno della notte con l'incubo che la case in cui vivono e su cui hanno quasi tutti ipoteche si dimezzino da un giorno all'altro in valore, e si apprestano a fare una guerra, si collocano a metà strada, con 41 per cento di ottimisti e 50 per cento di pessimisti (nei primi anni Novanta, quelli seguiti alla fine della guerra fredda, della creazione di 15 milioni di posti di lavoro e del boom della new economy, apparentemente dalle possibilità illimitate, erano stati in testa nella graduatoria dell'«ottimismo delle nazioni»).
    Ma tra i risultati che hanno più colpito gli autori del sondaggio è la misura in cui i guai presenti e futuri vengono attribuiti, dagli altri, soprattutto all'America. «Dei mali del mondo incolpano Washington», suona uno dei titoli dell'Herald tribune. «Monta l'onda anti-americana», riassume quello di apertura in prima pagina, del giornale americano pubblicato a Parigi in collaborazione con New York Times, Washington Post e Los Angeles Times. Ma non si tratta di anti-americanismo nel senso che odiano o disprezzano gli Stati Uniti, o li considerano «nemici».
    L'America continua ad essere amata e ad essere una sorta di «modello» in gran parte del mondo, anche se si nota - fenomeno recentissimo, coincidente con l'inizio della presidenza Bush, appena interrotto dalla solidarietà suscitata dagli attentati dell'anno scorso - un «declino dell'immagine».
    In Italia il 70 per cento degli interrogati continua ad avere un'opinione favorevole degli Stati Uniti (meno appena 6% nel 2002 rispetto al 2000), in Germania il 61 (-17%), in Gran Bretagna il 75 (-8%). In Russia la percentuale di chi pensa bene dell'America è aumentata (dal 37 al 61%, +24), e ancor di più è aumentata in Uzbekistan (+29%) o in Nigeria (+31%). Ma quel che sembra crescere in modo uniforme è la propensione ad attribuire alle scelte politiche di Washington una dose crescente di responsabilità negativa sulle questioni che rappresentano le ansie principali per il futuro del pianeta. Nell'ordine: Aids e malattie infettive, odii religiosi ed etnici, armi nucleari, divario tra ricchi e poveri, inquinamento e problemi dell'ambiente.
    Non è tanto che il mondo ce l'abbia con l'America (c'è anche questo aspetto, specialmente nei paesi islamici: «un vero e proprio dispiacere, se non addirittura odio, nei confronti dell'America, si concentra nelle nazioni islamiche del Medio Oriente e dell'Asia centrale», nota il rapporto). Sembra avercela ancora di più perché percepisce di essere stato abbandonato da questa amministrazione americana di fronte ai problemi che considera le maggiori minacce per il proprio futuro.
    Particolare attenzione suscita la portata e il crescere del «dispiacere» sul tema delle prospettive di pace e di guerra, e specialmente sulla questione della guerra all'Iraq. E colpisce il fatto che il «dispiacere» si estenda in modo particolare tra gli «amici» più ancora che tra i tradizionali avversari. «Il sondaggio rileva che la guerra all'Iraq alienerebbe anche gli amici e gli alleati», riassume nella titolazione l'Herald. Pochi ritengono che Saddam Hussein non rappresenti una minaccia. Non molti che non sarebbe meglio disarmarlo.
    Ma la maggioranza à convinta che l'instabilità in Medio Oriente sia più pericolosa dell'Iraq, anche se l'attenzione delle autorità americane si concentra assai di più sul secondo che sul primo tema. Ancora più scetticismo emerge su quali siano i reali moventi della guerra; il 76 per cento dei russi, il 75 dei francesi, il 54 dei tedeschi ritiene che il vero obiettivo di Bush non sia il terrorismo ma il controllo del petrolio.
    Andrew Kohut, il direttore del Pew center che ha coordinato la ricerca, per spiegare il fenomeno ipotizza: «Quando siete il più ricco dei paraggi e la più potente nazione sulla faccia della terra, senza rivali, vi vengono a mancare le coalizioni naturali che vi uniscono ai vostri alleati contro il nemico, non c'è il comune nemico che vi lega agli altri». Ma le cose potrebbero essere più complesse. Il demografo francese Emmanuel Todd (uno che spesso ha avuto intuizioni geniali, come l'aver previsto già negli anni Settanta, studiando i dati sulla mortalità infantile, l'imminente crollo dell'Urss), sostiene ad esempio, nel suo ultimo libro appena pubblicato a Parigi (Après l'empire) che il vero problema potrebbe essere il declino, non la forza dell'America, e il fatto che proprio per questo se la stanno prendendo con i più deboli e marginali, anziché con i veri possibili rivali del futuro: Cina ed Europa.

    www.unita.it

    http://people-press.org

 

 

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