Il fallimento di al Fatah

Amira Hass

Fra i Palestinesi il movimento di al Fatah è noto per essere un "supermercato" - un miscuglio di ideologie con una varietà di orientamenti sociali e comportamentali.
Gente di destra e di sinistra, religiosi e laici, gente che sostiene il diritto al ritorno e gente che vi ha rinunciato, gente incredibilmente ricca e altra disperatamente povera, adulatori e critici, alti funzionari che a proposito di Israele, parlano ancora di "entità sionista" e credono nella soluzione di uno stato unico (in cui gli Ebrei costituirebbero una minoranza tollerata) ed altri che sono amici dei sionisti e sognano due stati che vivano fianco a fianco intrattenendo rapporti cordiali.
Finché l'obiettivo comune è raggiungere l'indipendenza, dicono i membri di al Fatah, questo stato confuso di cose può sussistere.
Ma quando si tratta della libertà che alcuni membri del movimento si prendono con l'uso delle armi, si va oltre l'attraente folklore di un caos ideologico.
L'uccisione di cinque civili israeliani nel kibbutz Metzer da parte di un membro dell'ala militare di al Fatah ha dimostrato una volta ancora come i gradi superiori ed intermedi di al Fatah non abbiano un controllo effettivo su coloro che portano un fucile in nome di al Fatah.

Contrariamente al sistema decisionale centralizzato dell'Hamas e della Jihad islamica, nel movimento al Fatah di Yasser Arafat tre ragazzetti qualsiasi si possono mettere insieme, decidere di essere una cellula militare e portare avanti questa o quest'altra "operazione", qualche volta "rispondendo" all'appello dei loro capi di non oltrepassare la Linea Verde, altre volte andando oltre la linea.
E' possibile che ottengano il permesso da questo o quest'altro ufficiale di al Fatah del loro quartiere, ma si permettono di intraprendere azioni in palese contraddizione con la logica e il buonsenso della campagna diplomatica dell'Autorità palestinese, il cui obiettivo è di ottenere il sostegno attivo dell'occidente per una soluzione che conduca al ritiro di Israele dai territori occupati nel 1967.

Da una parte si permettono di minacciare quelli che criticano Arafat, dall'altra di strappare dei presunti collaboratori dalle mani della polizia palestinese per ucciderli.
Molti e ben noti attivisti di al Fatah sono disgustati dal comportamento criminale mascherato da lotta nazionale delle Brigate Martiri Al Aqsa.
Negli ultimi due giorni, coloro che hanno provato a pronunciarsi apertamente contro l'attentato hanno ricevuto la solita logora risposta di giustificazione: i nostri bambini non sono assassinati nei loro letti? Che importanza ha se sono uccisi da un proiettile o da una bomba, e non da un fucile?

Le bombe israeliane non lasciano vedove e orfani fra noi? Non sono stati proprio gli israeliani a cominciare a sparare, il 29 settembre 2000, prima che al Fatah cominciasse a reagire contro i loro civili? Qualcuno forse si accorge della nostra sofferenza ai check-points? E la nostra umiliazione per colpa dei soldati?

Evidentemente le caratteristiche criminali ed infantili del comportamento dei giovani armati di al Fatah, nei Tanzim, sono controbilanciate agli occhi dell'opinione pubblica palestinese dal fatto che sono percepiti come persone che rispondono con le armi ad una sofferenza collettiva.
Ma il braccio armato di Hamas e della Jihad lo fanno meglio, perché la loro leadership ha deciso una politica chiara, e incoraggiano apertamente gli attentati di massa contro i civili israeliani. Così i giovani di al Fatah e i loro capi si ritrovano in concorrenza interna con le altre organizzazioni palestinesi. Questa concorrenza determina le loro "decisioni" nell'utilizzare le armi più della politica dichiarata dal loro capo, Arafat.

Nessun palestinese dissente con il noto argomento degli altri movimenti di liberazione nazionale del Terzo Mondo che il vero terrorismo è quello dell'aereo da guerra che lancia le bombe. Ma ci sono abbastanza attivisti di al Fatah - che hanno mantenuto il loro lavoro negli apparati civili e militari dell'Autorità palestinese - che si sono convinti che la lotta di liberazione nazionale non si può unicamente fondare sulla sete di vendetta ma che deve essere abbastanza ragionevole da prendere in considerazione i fattori esterni, e non soltanto quelli interni. Ma sembra chiaro che il fallimento degli argomenti basati sulle ragioni pratiche abbia come esito che anche le questioni morali non siano ascoltate.

I ricercatori universitari forniranno sicuramente molte risposte sul perché questi militanti abbiano lasciato che i gruppi armati agissero in nome loro imponendo una politica così disastrosa.
Dopo tutto, non si può incolpare unicamente la personalità di Arafat e la scarsa qualità della sua evanescente leadership. Una risposta è stata data recentemente da un membro importante di al Fatah a Gaza, che ha personalmente tratto profitto dai beni di conforto elargiti a lui e a tutti quelli della sua classe per il loro sostegno agli accordi di Oslo: "Grazie ai Martiti di Al Aqsa, non ci uccidono" ha ammesso con franca onestà.
"Grazie alla loro esistenza noi restiamo in vita".
Era un'allusione indiretta al fallimento dell'impegno di Oslo.
In altri termini, la leadership di al Fatah ha fallito nel proporre un piano chiaro e logico di campagna politica per l'indipendenza, quando è diventato palese oltre ogni possibile ombra di dubbio che l'occupazione israeliana non sarebbe terminata facilmente, perché l'Autorità palestinese ha trovato difficile rinunciare ai benefici legati al fatto di essere un'organizzazione dominante sotto gli auspici di Oslo. La leadership di al Fatah non ha osato esigere l'obbedienza dei suoi membri del movimento di liberazione nazionale e proibire metodi che sono "popolari" a scopo di vendetta, ma che danneggiano nel lungo termine, perché il fallimento di al Fatah come regime di governo ha deluso la maggioranza del popolo palestinese.

Ha'aretz 24 Novembre 2002