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Discussione: LA COMUNITÀ in piazza

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    Predefinito LA COMUNITÀ in piazza

    LA COMUNITÀ in piazza

    di Benedetto Vecchi

    Quest'anno il festival della filosofia è dedicato alla riscoperta di un termine che si credeva sepolto dalla modernità. E che vuole ridisegnare i confini dell'inclusione e dell'esclusione dalla cittadinanza. Dalle fredde intimità alimentate dai media alla politica dell'amicizia, tre giorni di incontri per un articolato lessico teso a narrare la crisi delle forme del vivere associato che hanno segnato il Novecento
    Parola maledetta, quella scelta quest'anno dal Festival della filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo come chiave di accesso alla comprensione della vita nelle società contemporanee. Maledetta e tuttavia ampiamente usata (e abusata) negli ultimi trent'anni non solo in ambito filosofico, ma anche in quello più pragmatico della sociologia. La «comunità» è stata considerata come un antico retaggio del passato che la modernità avrebbe dissolto come neve al sole, relegando così gli studiosi che l'usavano ai margini della discussione pubblica. La retorica o l'invocazione di una comunità erano prerogativa dei conservatori di campagna o, più drammaticamente, di chi invitava a marciare il popolo al passo dell'oca. Solo negli anni Sessanta la comunità poteva essere recuperata, ma solo all'interno di un superamento del capitalismo e di un egualitarismo radicale.
    È stato infatti il filosofo francese Maurice Blanchot a riabilitarla con un linguaggio tanto barocco quanto spregiudicato. Ma la sua riscoperta di una comunità di eguali rimane comunque relegata in gruppi di intellettuali decisamente «di nicchia». È con la crisi della modernità che la comunità riacquista il centro della scena, sebbene la sua concettualizzazione abbia molto a che fare con l'eclissi di una costituzione materiale (e formale) che ha caratterizzato il capitalismo nella sua parabola novecentesca.
    Quella che viene invocata non è la comunità di popolo, né dei produttori, ma a una forma di vita delimitata geograficamente. E come al tempo della costituzione degli stati nazionali anche queste «moderne» comunità sono inventate, cioè sono il prodotto di una intenzionalità politica ben precisa. E se Blachot aveva in mente il gruppo fusionale sartiano e il Sessantotto francese, la retorica attorno alle comunità prefigurano un futuro che riproduce i rapporti sociali e di potere dominanti. La comunità è dunque la parola d'ordine di chi vuol preservare il «territorio» - altra parola chiave che torna spesso tanto nei media che nella riflessione filosofica - dalla possibilità di trasformare i rapporti sociali dominanti.
    Non va comunque sottovalutato un altro elemento che accompagna l'uso di questo termine. La cancellazione, cioè, delle differenze interne, dei conflitti che caratterizzano le società contemporanee. E la produzione di rigidi confini che organizzano l'inclusione e l'esclusione sociale. In tempi neanche tanto lontani, Etienne Balibar ha scritto molto su come lo stato-nazione abbia sempre definito i confini della democrazia, stabilendo così l'accesso alla cittadinanza.
    Lucidamente, infatti, il filosofo francese ha descritto il limite delle moderne democrazie. In questo inizio di millennio e di conclamata crisi della democrazia rappresentativa, la comunità immaginate su base territoriale funzionano su rigidi gerarchie all'interno, dove l'inclusione diviene sempre più selettiva. Si entra in comunità solo se si aderisce alla forma di vita e alle gerarchie con le quali è organizzata la vita associata. La comunità viene quindi immaginata come risposta alle trasformazioni sociali, culturali e produttive della modernità capitalista. La traduzione politica di questo discorso è il populismo amorale e secolarizzato, attento alle tecniche comunicative di costruzione di un ordine del discorso che la legittimi come approdo della crisi dello stato nazione.
    Il festival della filosofia che prende il via a Modena, Carpi e Sassuolo propone un frame nel quale collocare le diverse «narrazioni» sulla comunità partendo dal loro carattere problematico, contradditorio. E non è un caso che il fitto calendario di incontri e di lectio magistralis è articolato attorno alle diverse maschere che la «comunità» indossa nella sua rappresentazione mediatica, appunto secolarizzata. È infatti un segnale inequivocabile che il lessico della comunità faccia leva su quelle «intimità fredde» alimentate dalla comunicazione mediatica. Il format comunicativo della comunità è il reality show, dove dietro l'apparente innocenza del gioco di società o della messa in scena di ordinaria quotiditianetà si cela il feroce darwinismo sociale che orienta il discorso politico comunitario. Nel campo avvelenato della comunità stazionano il suolo e il sangue del tradizionale pensiero politico organicistico, ma ci sono anche alcuni termini del lessico politico che discendono dalla critica dei rapporti sociali dominanti nella società capitalista. L'autodeterminazione, il territorio, il mestiere, la critica dell'economia politica, la produzione artistica, il ruolo marginale e consolatorio della religione nelle società secolarizzate, la divisione del lavoro all'interno della famiglia patriarcale sono solo alcune tappe di quel fiume in piena che hanno favorito la crisi della democrazia rappresentativa, ma che la comunità riconduce negli argini dell'individualismo proprietario, figura idealtipica nelle teorie contemporanee sulla comunità, così come il populismo è la sua manifestazione politica.
    Non è compito di un festival della filosofia elaborare un antidoto al virus «comunitario». Ma è significativo che tre comuni di una regione molto gelosa della propria diversità sociale e politica rispetto alle vicende nazionali si pongano il problema di guardare in faccia il «male oscuro» della democrazia italiana. Lasciando però interdetti. Il lessico su cui si articola la tre giorni emiliana sembra più una torre di babele - gli incontri specifici sulla comunità si contano sulle dita di una mano: gli altri sono dedicati appunto alle possibili «maschere» che la comunità può indossare - che non un ordinato vademecum che aiuti a comprendere la posta in gioco. Ma è proprio in tempi di crisi che un brainstorming può aiutare di più a comprendere il presente che non un decalogo di buoni e «ordinati» pensieri.

    IL MANIFESTO

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    Predefinito Rif: LA COMUNITÀ in piazza

    Una platea cittadina per pensieri e parole
    Tra mostre, film e lezioni, una guida al festival della filosofia


    Oltre quaranta «lezioni magistrali» organizzate per parole chiave. Dal 18 al 20 settembre, nel triangolo emiliano Modena, Carpi e Sassuolo si parlerà, tra l'altro, di «Prossimo tuo» (Massimo Cacciari, Modena venerdì alle 15); «Pianeta» (Vandana Shiva, venerdì a Modena alle 18); «Autismo» (Mario Perniola, venerdì a Carpi alle 15,30); «Comunità di mestiere» (Richard Sennett, sabato a Modena alle 11,30); «Civitas» (Giacomo Marramao sabato a Carpi alle 10); «Individuo» (Carlo Galli sabato a Modena alle 15,30); «Communitas» (Roberto Esposito sabato a Modena alle 17); «Fobia da legame» (Eva Illouz a Sassuolo sabato alle 17); «Avec» (Jean-Luc Nancy domenica a Sassuolo ore 10); «Nostalgia» (Avishai Margalit, domenica a Modena ore 10); «Autodeterminazione» (Stefano Rodotà domenica ore 17,30). Tra le novità ci sono «le lezioni dei classici»: Maurizio Ferraris venerdì alle 18,30 a Sassuolo parlerà di «Politiche dell'amicizia» di Derrida, mentre Paolo Virno si occuperà de «Il Capitale» di Marx sabato alle 19 a Modena. Remo Bodei parlerà de «La città di Dio» di Agostino sabato alle 19 a Carpi, mentre Elena Pulcini di «Vita activa» alle 18,30 di sabato a Sassuolo; Maurizio Viroli terrà una lezione sui «Discorsi» di Machiavelli alle 14,30 di domenica sempre a Sassuolo. A Carpi, venerdì 18 settembre alle 22.00, è previsto un reading musicale di Vinicio Capossela. Si segnalano anche una retrospettiva del regista australiano Peter Weir, grande sintomatologo delle comunità chiuse, insieme a quella su George Romero, che ha raccontato il lato mostruoso della comunità (La notte dei morti viventi). David Riondino recita il «Poema di Garibaldi» accompagnato dalla banda cittadina (a Modena, in Piazza Sant'Agostino, la sera di venerdì 18 settembre). In Piazza Grande a Modena, la sera di sabato 19, Ascanio Celestini riprende le pagine di «Scemo di guerra» in «Piccola città». a Modena, la sera di sabato 19, lo scrittore Gianni Celati renderà omaggio a Antonio Delfini, mentre Ermanno Cavazioni terrà un reading sempre a Modena domenica 20. A Sassuolo la sera di sabato 19 settembre, lo spettacolo di Moni Ovadia «Rabinovic & Popov». Tra le numerose mostre inaugurate nel corso del festival c'è People. Il catalogo degli umani fra '800 e '900 a Modena, Museo della Figurina e Museo Civico Etnologico che ricostruisce la storia delle trasformazioni di una cultura scientifica tra 800 e 900 che includeva la razza nella cornice dell'evoluzionismo assumendo connotati spesso razzisti.

    Viva la Comune
    Ultima modifica di Comunardo; 18-09-09 alle 00:38

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    Predefinito Rif: LA COMUNITÀ in piazza

    Comunità di carta, il pubblico che non c'è

    18/09/2009Liberazione

    Tonino Bucci

    Proviamo a fare un elenco degli argomenti più in auge nel dibattito pubblico degli ultimi tempi. Gli scandali sessual-politici di Berlusconi; le controversie sul Risorgimento e l'incapacità dell'Italia a pensarsi come spazio nazionale; e, last but not least , la precarietà dell'informazione, i rischi per la libertà di stampa, il difficilissimo rapporto tra media e sistema politico. Ma a ben vedere, tutti questi temi hanno qualcosa in comune: lo scollamento tra politica e società. C'è il sentore, insomma, che la partita decisiva sia ricostruire in un paese disgregato un'etica pubblica, un bene collettivo condiviso. La crisi, materiale e anche ideologica, ha ridotto ai minimi termini quanto restava di soggetti collettivi e loro rappresentanza politica, lasciando sul campo gli stili individualisti del consumismo. Da qui un vuoto di rappresentazione pubblica che si esprime in modi diversi: nella politica che non è più in grado di esprimere un'etica collettiva, in un paese che si pensa come una somma di piccole patrie, in un sistema di media che prima ancora di un pluralismo della proprietà non riesce a garantire un pluralismo di visioni del mondo concorrenti e alternative. Eppure, proprio perchè le spinte alla frantumazione della società sono forti e c'è un vuoto di spazio pubblico, esiste d'altra parte una proliferazione di simulacri del pubblico, di comunità virtuali, di patrie inventate.
    Alla «comunità» è appunto dedicato il Festival filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, da oggi fino a domenica. Per un momento sembrava che quest'anno la megarassegna che raccoglie i grandi nomi della filosofia, italiana e straniera, non dovesse ripetersi, dato che la fuoriuscita della direttrice scientifica del festival e della Fondazione San Carlo, Michelina Borsari, aveva scatenato a catena le dimissioni di tutto il comitato scientifico. «L'hanno descritta come una bega di potere - spiega Remo Bodei, ideatore del festival - ma non è così. Ci siamo dimessi perché consideravamo sbagliata una scelta del comitato scientifico della fondazione San Carlo. Ora il Festival filosofia dipende da un consorzio in cui ci sono i tre comuni di Modena Carpi e Sassuolo, più provincia di Modena, e non più dal San Carlo. Proveremo un rilancio. Ci saranno più eventi, lezioni magistrali e letture di classici che hanno sempre qualcosa da dirci, forse più dei nostri contemporanei, dalla Repubblica di Platone alla Città di Dio di Agostino».

    I comunitaristi criticano la modernità perché ci vedono un eccesso di individualismo, di mancanza di etica, di relativismo delle scelte a discapito dei legami solidaristici e comunitari. Ma non c'è anche un aspetto inquietante in questa voglia di comunità? Non sarà una nostalgia per società compatte dove ognuno doveva stare al proprio posto e rispettare le tradizioni?


    Siamo contro questa ottusa rivendicazione delle radici quasi come fossimo assimilabili alle piante. E siamo contrari alla comunità come recinto, particolarismo, isolazionismo e xenofobia. Esiste un comunitarismo di destra fondato su elementi esoterici e che fa riferimento alla "comunità ideale", al legame tra i vivi e i morti, al culto dei caduti in guerra. Quando abbiamo pensato a questo tema ci siamo resi conto che i legami sociali e familiari si siano allentati un po' in tutte le società occidentali. Certo, l'individualismo, il narcisismo - la Chiesa lo chiama "relativismo" - hanno minato l'idea di appartenenza e di interesse generale. Però non condividiamo l'impostazione secondo la quale si dovrebbe tornare a un'idea monolitica e compatta di comunità e ogni individuo dovrebbe seguire, senza altra possibilità di scelta, gli ideali e i modi di pensare di una comunità. Luigi Einaudi diceva che la democrazia è l'anarchia degli spiriti sotto la sovranità della legge. E' una bella formula che rivendica la libertà di non essere allineati ma anche la sovranità della legge che non è qualcosa di imposto, bensì di prodotto.

    Nella storia della filosofia il termine di comunità ha tante stratificazioni di senso, no?


    Bisogna partire dal concetto di comunità e questo ce lo spiegheranno i massimi esperti, come Roberto Esposito e Carlo Galli. Poi ci sono gli aspetti giuridici del rapporto tra libertà individuale e comunità - su questo interverranno Stefano Rodotà e Fernando Savater. E' un rapporto che può essere anche tragico, come ci insegna Sergio Givone. Io stesso mi occuperò dell'esilio, della figura del migrante e del distacco dalla comunità. Poi avremo Severino che parlerà della solitudine. Ma le comunità sono fatte anche da legami sociali che passano per i riti, ne parleranno Christoph Wulf e lo storico delle religioni Giovanni Filoramo. E poi c'è un altro aspetto molto importante.

    Quale?


    La distinzione tra luoghi reali e luoghi virtuali della comunità. E' quello che Marc Augé cerca di descrivere attraverso il concetto di "frontiera" e Francisco Jarauta attraverso quello di "metropoli". Oppure il lavoro che Richard Sennett analizzerà sotto l'aspetto del lavoro artigianale e della comunità di mestiere. Questi sono i luoghi reali. Mentre quelli virtuali sono le nuove forme di comunicazione come facebook. Infine, cercheremo di distinguere tra valori coesivi e valori oppressivi della comunità. Cacciari parlerà del "prossimo", il teologo Coda della comunione, Vitiello di teologia politica, Carlo Sini di carità. L'aspetto oppressivo della comunità è, ad esempio, la paura, ce lo racconteranno Bauman che ha coniato la metafora della liquidità e Balibar, da tempo attento al tema del razzismo. E d qui si arriva a un discorso più politico che riprenderà anche Marramao.

    Nella voglia di comunità si esprime anche il bisogno di un'etica pubblica, di una religione civile condivisa. C'è un comunitarismo "progressista"?

    In America ci sono pensatori liberal, come Charles Taylor - non equiparabili ai nostri liberali - che innestano elementi di soggettivismo nel pensiero comunitarista. Da noi c'è anche chi si rifà al repubblicanesimo, ripreso dalla tradizione italiana rinascimentale, da Machiavelli in poi. E' l'idea di comunità come impegno civile. Negli affreschi di Ambrogio Lorenzetti al Palazzo Pubblico di Siena esiste un'immagine della concordia della città che rappresenta tanti individui ognuno dei quali tira a sé la stessa corda. Come a dire che gli interessi comuni derivano dalla tensione degli interessi particolari che però si ricompongono. Non è tanto sbagliato pensare che la concordia sia non un fatto statico, ma dinamico. E' quello che Machiavelli pensava quando diceva che il «tumulto» fa bene alla città. Oggi l'idea di lotta di classe e di conflitto è scomparsa a favore di una visione piatta. Dovremo tornare a pensare le ragioni del conflitto. Tutto è diventato politica virtuale - senza voler parlare dell'innominabile, del nostro Presidente del consiglio. Un "vogliamoci bene" posticcio nel quale sono nascoste le tensioni reali. Bisogna evitare di finire in una comunità "recinto" che stringe le fila e fa quadrato. Ma dall'altro non si può trascurare il rischio di una società "mucillagine", sfilacciata. I vincoli sociali non ancora distrutti. Sono allentati.

    Forse è questo il motivo del successo di partiti che interpretano questo bisogno e inventano comunità fittizie. Come la Lega, no?

    Che ormai fa breccia anche in Emilia, in zone col quaranta per cento di operai. La Lega fa molta attenzione al territorio, è tutt'altro che un partito leggero. E' un partito pesante con un'idea "difensiva" di comunità che fa perno sulle paure della gente e mitizza un passato inventato. Che però la Lega funzioni implica che c'è un bisogno di comunità e non va trascurato.

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    Predefinito Rif: LA COMUNITÀ in piazza

    La riflessione sui concetti di "comunità" e "identità" apre il Festival filosofia di Modena

    Quant'è difficile «amare il prossimo tuo»

    19/09/2009Liberazione

    Tonino Bucci

    Il termine «comunità» è entrato in politica. Ci è entrato nel peggiore dei modi mostrando il lato più inquietante di un comunitarismo difensivo, xenofobo, chiuso in recinti identitari. Non la versione progressista di una comunità aperta, fondata su una cittadinanza inclusiva, alla ricerca di legami solidali da contrapporre alla disgregazione della nostra società - come pure qualche teorico comunitarista ha tentato di proporre. Ma del resto ogni volta che la filosofia si è occupata del concetto di comunità ha sempre evocato un fondo tragico. Da Hobbes a Rousseau tutti i contrattualisti hanno toccato con mano la difficoltà di mettere d'accordo la libertà degli individui con il prezzo da pagare per dover convivere nella società politica.
    Ne ha parlato ieri Sergio Givone in apertura del Festival filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo. «In Hobbes l'accento cade sulla necessità. Non si può fare altro che cedere una quota della propria libertà al sovrano, al Leviatano. A questi spetta il potere di decidere cosa sia lecito e cosa no. Rousseau, invece, dà una versione utopica dello stato di natura, di una condizione cioè oltre il contratto sociale».
    Ma la comunità che è entrata nel linguaggio della politica di questi anni è altra. Samuel Huntington, il teorico dello scontro di civiltà - il più efficace interprete dell'epoca del bushismo, si potrebbe dire - ha costruito le sue fortune sull'idea di comunità come un recinto chiuso, come un fortino assediato da nemici esterni sullo sfondo di una guerra permanente fra culture monolitiche e identità date una volta per tutte, in lotta tra loro per difendere ciascuna la propria integrità. Certo, si dirà, il cristianesimo, la civiltà occidentale, l'islam, così concepiti, come blocchi di idee e stili di vita omogenei al loro interno, sono invenzioni, simulacri, mondi immaginari. Teoria superficiale quella dello scontro di civiltà, eppure terribilmente efficace nella sua semplicità.
    E' un luogo comune quello di pensare che l'identità non sia un lavoro da compiere e che le culture siano delle comunità di vita rigide che non ammettono incontri con lo straniero, con l'altro, con l'immigrato. Massimo Cacciari - altro ospite del Festival filosofia - ha letto e commentato uno dei passi più conosciuti del testo dei Vangeli, quello in cui Gesù espone il comandamento "amerai il prossimo tuo come te stesso". «Chi è il prossimo? Non siamo il prossimo di un altro che ci si presenta davanti agli occhi come straniero. Il prossimo è colui che si è fatto prossimo, che opera in maniera da diventarlo, da approssimarsi all'altro, nonostante provi una repulsione iniziale nei suoi confronti. Questa sensazione di rifiuto non va trascurata. Il Vangelo è netto. Ci approssimiamo a un altro che ci "lacera le viscere". Perciò attenzione a non lanciare anatemi contro i farisei che passano accanto allo straniero senza avvicinarsi. La vista del totalmente altro fa terrore ed è per questo che l'identità è un lavoro, una fatica, qualcosa che dobbiamo costruire».
    Tutt'altro che un testo "buonista", il Vangelo descrive questo approssimarsi all'altro come un processo che "squassa" il samaritano, quasi a marcare «una differenza tra la cultura greca e il cristianesimo». Per i greci la xenofilia, l'ospitalità verso lo straniero, è un dovere sacro. «La colpa più grande si commette nei confronti dello straniero supplice, dice Platone, perché sotto le sue sembianze può nascondersi un dio». Ma per i greci l'ospitalità implica lo scambio dei doni, la reciprocità tra sé e l'altro, mentre «nella parabola evangelica il samaritano si avvicina allo straniero, con il quale non ha nulla in comune, né per nascita né per cultura, gli si approssima senza però nulla pretendere. E' un atto gratuito. Il samaritano si fa prossimo all'altro, se ne prende cura e poi se ne va, lasciando l'altro intatto nella sue differenza. E' un dono che nulla chiede in cambio, non c'è uno scambio come nella cultura greca, non c'è alcuna pretesa di rendere lo straniero uguale a sé».
    Né paladino dello scontro di civiltà né soggetto di una volontà di assimilazione dell'altro alla propria cultura: il prossimo «custodisce l'altro nella sua alterità per non farlo uguale a sé. La nostra identità è risultato di questa relazione con lo straniero, non con un altro consanguineo o simile. E' un processo che ci fa incontrare lo straniero senza annullare la reciproca diversità. Purtroppo la "doxa", l'opinione pensa che l'identità sia una trama fissa, un modo di essere che può fare anche a meno di relazioni. Non è così. L'identità è un viaggio nel quale incontriamo un altro che ci lacera le viscere. L'io che siamo all'inizio non ha nulla a che vedere con l'identità, che arriva invece solo al termine di questi incontri per nulla facili. A condizione che siamo capaci di approssimarci all'altro mantenendolo così com'è, diverso da noi». Un viaggio che non potrebbe neppure iniziare se non ci fosse una repulsione iniziale, la percezione di una irriducibilità tra sé e l'altro. «Il fine è costruire la mia identità, non quello di disperdermi. Altrimenti avremmo una dissipazione. Lavoriamo per conoscere noi stessi non per perderci. Il momento della repulsione è fondamentale. Abbiamo paura di confonderci con l'altro e il Vangelo, che non è un testo buonista, lo dice. Dobbiamo fare fatica per avvicinarci allo straniero, dobbiamo capire che l'altro ci è necessario per costruire la nostra identità. Se non ci fosse, ci fermeremmo alla difesa di un'identità astratta, parziale, immediata. Lo diceva Hegel. L'identità è fatica, lavoro, travaglio. Bisogna comprendere questa inquietudine che noi siamo e che ci spinge verso una forma compiuta».
    Un lavoro che però avviene nella prassi, nelle azioni perché è soltanto qui che le distanze possono essere ridotte al minimo senza essere mai azzerate del tutto. Il prossimo incarna una figura di eroe tragico che va verso lo straniero ma sa di non potere mai rendere la sua singolarità uguale a sé, «come l'eroe delle tragedie greche - dice ancora Cacciari - che sapeva di non poter essere adeguato alla complessità del mondo pur obbedendo alla volontà di un dio. Allo stesso modo ci possiamo approssimare allo straniero ma sapendo che la relazione resterà sempre una relazione tra due». Insomma non c'è nulla di rassicurante, niente può garantire il buon esito. «Ma non c'è alternativa. Dobbiamo costruire la nostra identità in questo incontro-conflitto con lo straniero. Con la consapevolezza che questa stessa nostra identità ci sfugge, non può essere afferrata fino in fondo. Rimane dentro di noi qualcosa di perturbante. E questo mi ricorda una celebre metafora di Kant che descriveva l'intelletto come un'isola circondata dall'oceano. Non c'è una casa sicura. Lo straniero è in noi, nella nostra dimora, nella nostra comunità. E' il nostro stesso limite che tocchiamo quotidianamente. Ma il più grande pericolo sarebbe far finta di nulla come se non esistessero distinzioni. A volte, purtroppo, la nostra civiltà si rappresenta come una cultura che deve eguagliare a sé tutte le altre».

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    Predefinito Rif: LA COMUNITÀ in piazza

    Quei beni comuni contro la comunità

    IL MANIFESTO

    di Benedetto Vecchi

    Si chiude oggi a Modena il Festival della Filosofia
    La comunità come un apriori che orienta scelte individuali, vincola i comportamenti propedeutici alla riproduzione di un'appartenenza a un gruppo sociale immaginato come coeso e omogeneo, plasma e struttura le identità individuali non ha avuto finora cittadinanza al Festival della filosofia in corso a Modena, Carpi e Sassuolo dedicato proprio alla comunità. Chi è salito sui diversi palchi allestiti nelle tre città ha messo in evidenza le difficoltà di definire concettualmente cosa sia una comunità. Se uno studioso di Max Weber come il tedesco Wolfgang Schulchter si è rifugiato nella antica distinzione tra comunità e società per indicare la contraddittorietà semantica delle attuali definizioni di comunità, molti altri relatori hanno sottolineato come la modernità abbia prodotto gli anticorpi necessari - i diritti civili, politici e sociali - affinché non sia possibile riproporre forme di organizzazione sociali basate su appartenenze sociali, culturali immutabili nel tempo e nello spazio.
    Significativamente, Marc Augé ha attinto alla sua decennale riflessione sulla «ipermodernità» per sottolineare il fatto che ogni organizzazione sociale traccia i confini per definire l'appartenenza o l'esclusione dalla cittadinanza e che l'uso attuale del termine comunità serve solo a articolare l'insorgenza di caratteristiche di un particolare gruppo di persone considerate rilevanti per definire la propria identità. Così si parla di comunità musulmane, ebraiche, omosessuali all'interno delle società occidentali. La comunità è dunque il termine usato per indicare la crisi della cittadinanza, senza che questo significhi il rifiuto radicale dei diritti di cittadinanza. Semmai c'è la richiesta di una loro articolazione e una «politica del riconoscimento» di parzialità - culturali, sociali, sessuali - finora ignorate dalle democrazie liberali. Allo stesso tempo, un filosofo come Roberto Esposito ricorda che comunità e violenza sono inseparabili, perché la legge serve a ridurre la violenza che è fondamento e costante della vita in società.
    Ma c'è un aspetto, seppur relegato ai margini delle diverse relazioni delle prime due giornate, che potrebbe meglio servire a sciogliere il grumo di problemi che l'idea di comunità restituisce sempre. Si tratta di quella sorta di incompatibilità tra la difesa dei beni comuni e l'esistenza di una omogenea realtà sociale. Come dimostrano infatti le mobilitazioni a favore della difesa dell'acqua, delle terre comuni, della critica alla proprietà intellettuale (brevetti e copyright), sulla condivisione del sapere e, più prosaicamente, della scuola pubblica, vengono messi in scena i rapporti sociali dominanti e la conseguente asimmetria di potere tra le diverse classi e gruppi sociali. Ed è proprio per questa semplice, ma rimossa verità che Vandana Shiva non può che offrire una concezione «debole» di comunità, limitata geograficamente sul piano locale e coincidente con le sole reti sociali e politiche che organizzano le mobilitazioni in difesa dei beni comuni.
    I beni comuni sono dunque l'unico contesto in cui si può parlare di una comunità in divenire, cioè che ancora non esiste, ma che ha la sua esemplificazione nelle relazioni sociali in campo dagli attivisti politici. Ma allo stesso tempo, i conflitti attorno ai beni comuni evidenziano proprio la non esistenza di una comunità data dal suolo, dal sangue o da parziali caratteristiche culturali, religiose, sessuale (uomini o donne). Il filosofo della politica Carlo Galli ironizza da anni con quanti elevano a categoria filosofica la comunità. Ne parla, infatti, come un fantasma che disturba i sonni del pensiero politico neo-liberale o che viene agitato da chi insegue mitiche comunità di popolo senza neppur aver letto quel Carl Schmitt che, nel Nomos della Terra (Adelphi) e nelle Categorie del politico (Il Mulino), ha indicato lo Stato come unico e indiscusso produttore di «comunità». Sappiamo bene quale Stato Schmitt avesse in mente e come la sua opera puntasse alla critica della democrazia non tanto per un impossibile ritorno al passato, ma per imbrigliare in rigide gerarchie sociali e di potere l'egualitarismo promesso dalle versioni «radicali» della democrazia in quanto espressione del «potere dei senza potere». Ma la sua riflessione continua ad essere un forte antidoto agli agit prop della comunità, che annoverano anche quella secessione dalla società delle élite dominanti che si rifugiano in gated community per meglio governare la produzione della ricchezza.
    E antidoto è anche la proposta di Richard Sennett, il quale, introducendo il tema della «comunità del mestiere», respinge decisamente ogni velleità comunitaria, privilegiando semmai la tensione egualitaria di quel savoir faire impregnato di capacità riflessiva, progettuale, intellettuale si potrebbe dire, che caratterizza il lavoro degli artigiani vecchi e nuovi.
    Anche in questo caso l'evocazione di un bene comune come può essere la cooperazione sociale, chissà perché chiamata dallo studioso statunitense capitale sociale e umano, chiarisce che la comunità è sempre una realtà immaginata e mai reale. Richard Sennett lo ha chiarito quando ha illustrato le potenzialità del L'uomo artigiano e di come in questa drammatica crisi economica i professionals di Wall Strett, i creativi della pubblicità, gli informatici della Silicon Valley rivalutano l'etica del lavoro degli artigiani, sapendo al tempo stesso che la «comunità del mestiere» è niente altro che un argomento retorico da contrapporre agli apologeti del capitalismo flessibile. Discorso non del tutto convincente, quello di Sennett, ma tuttavia ennesimo sintomo della fragilità del voler pensare politicamente la «comunità».
    In altri termini, al di là dei giochi linguistici di chi scrive e parla di «comunità dei senza comunità», di insorgenti comunità locali o di comunità inoperose, la comunità più che costituire la via di uscita dalla crisi della democrazia rappresentativa, costituisce semmai un ulteriore ostacolo a pensare il modo in cui nel quale i «senza potere» possano plasmare le forme del vivere associato.

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    I Comunitaristi e la costruzione europea

    da Bollettino Comunitarista - Giugno 2003



    E' interessante discutere brevemente della posta in gioco di una Europa unita e maggiormente autonoma politicamente e militarmente da un punto di vista 'nazionalitario'. Quale posizione è coerente con le istanze di liberazione sociale e di indipendenza nazionale (culturale, politica, economica) espresse dai comunitaristi italiani?
    Riflessioni sull'Europa politica
    La costruzione europea, in particolare sotto gli aspetti della sua integrazione monetaria/finanziaria da un lato e dei progetti di identità di sicurezza e di difesa militare da un altro, è decisamente uno degli argomenti più dibattuti degli ultimi anni.
    Come nel 1999, in occasione dell'azione NATO nella Ex-Jugoslavia, anche nel 2003, allorché gli Stati Uniti, con alcuni paesi alleati, hanno mosso guerra all'Iraq, si è tornati a polemizzare sulla 'mancanza di unità' dell'Europa politica, e sulla 'urgenza' di costruire una capacità militare autonoma dei paesi della UE.
    E' interessante discutere brevemente della posta in gioco da un punto di vista 'nazionalitario'. Quale posizione è coerente con le istanze di liberazione sociale e di indipendenza nazionale (culturale, politica, economica) espresse dai comunitaristi italiani? Innanzitutto, schematizziamo brevemente le più comuni posizioni che nel corso degli ultimi 50 anni hanno contraddistinto le classi politiche europee:
    - federalismo
    - confederalismo
    - atlantismo
    - 'nucleo duro'
    La distinzione più importante, volendo essere molto concisi, resta quella tra chi vede di buon occhio la formazione degli 'Stati Uniti d'Europa', sul modello federalista, con un unico 'Stato europeo' che assuma il comando politico, economico e militare delle varie 'euro-regioni', e chi invece parteggia per un approccio 'inter-governativo' basato su una confederazione di Stati-nazione. Per capirsi, il primo caso è il sogno dei movimenti federalisti europei e di intellettuali come Alexandre Marc (teorico del federalismo integrale [1]), il secondo è il tradizionale approccio gollista, sintetizzato dal Plan Fouchet del 1961 [2]. Il Trattato di Maastricht (dicembre 1991) è un compromesso tra i due poli, ma un compromesso che per certi versi rende molto difficile la creazione di una vera Europa politica, anche perché a questa distinzione appena menzionata, il Trattato aggiunge il compromesso tra l'atlantismo (quindi filo-americanismo) degl inglesi e di ampie porzioni delle classi dirigenti tedesche, italiane, olandesi etc., e la concezione di 'nucleo duro' europeo (tipica dei gollisti ma anche di Mitterrand e di alcune minoranze democristiane e socialdemocratiche tedesche e italiane).
    Queste posizioni, appena delineate, sono comunque accomunate dalla convinzione che l'Europa, gigante economico pacificato al suo interno dopo secoli di guerre fratricide, debba avere un ruolo politico sulla scena mondiale adeguato alla propria prosperità e potenzialità. Dietro questi bei propositi si cela, è chiaro, la volontà di potenza di vari settori del potere dei principali paesi euro-occidentali. In primo luogo, gli apparati statali, le burocrazie partitiche e sovranazionali, gli agenti pubblici dominanti che controllano la direzione della spesa pubblica e l'embrione di apparato industrial-militare europeo [3]. In secondo luogo (ma non secondo per importanza e peso politico...), i gruppi imprenditoriali più importanti, le cui ambizioni sono spesso frenate dal fatto di non poter contare, come possono fare invece gli omologhi competitori statunitensi, su Stati militarmente e diplomaticamente dominanti. Al di là delle solite frasi di circostanza, insomma, l'Europa-potenza non può che acuire la competizione infra-occidentale tra l'area USA e quella UE. Non corrisponde al vero che una forte identità europea in materia di sicurezza e di difesa rafforzerebbe il legame transatlantico. Questa è una banalità da funzionario internazionale, che i critici americani più sinceri (e brutali) irridono, a ragione [4].
    Un progetto politico nazionalitario coerente, basato cioè sull'unione non solo ideale ma anche metodologica di liberazione sociale e liberazione nazionale, è certamente tenuto a prendere posizione in merito. In primo luogo, occorre ragionare sul problema dello Stato, su quale ne sia la natura e su cosa potrebbe diventare in un'Europa politicamente integrata e forte. In secondo luogo, è necessario pensare quale opzione, tra le più probabili per il prossimo futuro, sarebbe tatticamente più logico appoggiare. Il tutto deve rispondere a una domanda fondamentale, vale a dire: quante possibilità ci sono di poter realizzare gli obiettivi politici, economici e culturali del Progetto comunitarista nei differenti scenari europei che si profilano all'orizzonte?
    Andiamo con ordine.
    Innanzitutto, lo Stato-nazione, come forma storica della statualità, è oggi in crisi, ma nel senso greco del termine (krisis): è cioè in una fase di trasformazione, e non di 'irreversibile declino', come la vulgata sulla globalizzazione ha sostenuto e sostiene da decenni. Non tutti gli Stati-nazione -- tanto per cominciare -- hanno seguito la stessa traiettoria di evoluzione nell'ultimo mezzo secolo. Non si può parlare genericamente della forma dello Stato-nazione, e non vedere, concretamente, dell'enorme differenza tra lo Stato nordamericano, da un lato, gli Stati europei occidentali, da un altro, e gli Stati dei paesi ex-comunisti, da un altro ancora [5]. Il primo, gli USA, ha mantenuto in pieno la sovranità monetaria e militare, cioè l'aspetto che secondo i teorici del declino irreversibile degli Stati sarebbe in via di disparizione ovunque. I secondi ne hanno perso in grande misura, ma nel quadro di un progetto di integrazione economica (la UE) concepito per meglio competere nel contesto internazionale. I terzi sono Stati disperatamente in cerca del modo per inserire i propri blocchi dominanti nel sistema di potere mondiale e di far crescere i propri mercati interni.
    Nemmeno si può considerare uno Stato-nazione come un blocco monolitico, senza considerarne le contraddizioni sociali, strutturali, e tra le varie frazioni in esso dominanti. Vi è chi ha parlato, a ragione, dello Stato come di uno 'spazio politico' in cui si formano apparati e gruppi di potere in conflitto tra loro [6], in un contesto dinamico, il che è ben diverso da concezioni rigide e semplicistiche, secondo le quali, ad esempio, lo Stato altro non sarebbe se non un 'comitato d'affari' al servizio dei maggiori imprenditori, oppure, all'opposto, il 'garante' dell'interesse generale.
    I comunitaristi non sono certo 'statalisti'. La stessa idea di comunità nell'accezione datale in particolare da Costanzo Preve [7], in senso non 'interclassista' né 'organico', si oppone a ogni concezione statalista. Questo tuttavia non significa sostenere la necessità di 'farla finita con lo Stato'; piuttosto, si tratta di ridefinire la statualità in un senso compatibile con un socialismo radicalmente rinnovato, e lontano da tentazioni nostalgiche (del comunismo storico novecentesco) o 'futuristiche' (come le baggianate sulle 'moltitudini biopolitiche desideranti' et similia). Nel contesto geopolitico attuale, lottare indiscriminatamente contro tutti gli Stati significa cadere in contraddizione con una coerente strategia antimperialista. Per fare un esempio concreto, l'operato di Chavez in Venezuela rappresenta un esempio di politica (almeno in parte) 'indipendentista' rispetto alle mire di dominio nordamericane, sia in senso economico che politico/culturale. Lo Stato-nazione venezuelano va difeso contro i tentativi di indebolirlo o di piegarlo alle volontà dello Stato dominante statunitense. In Europa, movimenti nazionalitari come quello basco o corso hanno il diritto di lottare per un proprio Stato-nazione, ed eventualmente solo dopo averlo ottenuto possono discutere se 'entrare in Europa' (dove sono già, a tutti gli effetti, da un realistico punto di vista storico/culturale).
    Da un punto di vista storico, le lotte per coniugare la liberazione nazionale al mutamento sociale in senso democratico/egalitario/anticapitalista si sono sempre rifatte a un modello di Stato ben diverso rispetto a quello liberalborghese. In Italia, nel periodo risorgimentale, Carlo Pisacane (1818-1857) ha rappresentato forse l'elemento individuale più vicino alle tematiche nazionalitarie: concezione socialista e lotta per l'indipendenza nazionale si univano nel pensiero e nell'azione del rivoluzionario napoletano [8]. Di certo, lo Stato auspicabile da parte di chi si batte per dei rapporti sociali egalitari e per un'economia partecipativa anticapitalista non può essere una riproduzione di quello storicamente decisivo per l'affermazione delle democrazie 'borghesi'. In questo senso, non si può essere sostenitori dello Stato-nazione. Ma se quest'ultimo viene ridefinito in senso nazionalitario e post-liberale, allora la situazione cambia radicalmente. L'avversario principale dei nazionalitari diventa quindi chi promuove la formazione di enormi 'sovra-stati' o organizzazioni politico/militari ed economiche i cui 'decisori' fondamentali non traggono alcuna legittimazione dal popolo né sono sottoposti ad alcun controllo effettivo sul loro operato. Organismi come la Commissione europea, o come la NATO, o come il WTO non possono che impedire l'autodeterminazione reale di un popolo. La cooperazione internazionale va dunque ripensata profondamente, a partire dalla libertà e dall'indipendenza di popoli concretamente esistenti. Ciò è in netta contraddizione con la metodologia di chi pensa di costruire, come primo passo, delle enormi aggregazioni multi-nazionali per poi domandarsi, solo in seguito, sul loro funzionamento democratico (sul piano politico ma anche economico). Questo secondo approccio, in realtà, è basato -- ideologicamente -- su una concezione di democrazia perfettamente compatibile con il dominio capitalista: il suo fondamento è il 'plebiscito' elettorale come mezzo per legittimare il dominio oligarchico delle élites imprenditorial-finanziarie, partitico-burocratiche e militar-industriali (cioè il modello USamericano).
    Appare perciò piuttosto evidente che gli obiettivi politici e culturali comunitaristi non possono non entrare in contraddizione con tutti i sostenitori di un 'super-stato' europeo, sebbene alcuni di questi siano -- in buona fede -- antimperialisti.
    E' più complicato, invece, il discorso sulla proposta politica di origine gollista di una cooperazione rafforzata in campo militare e strategico tra Stati europei che mantengono la loro autonomia e specificità. Lo scopo di tale progetto 'inter-governativo' e confederale può in effetti essere anche quello di favorire la 'competitività' del 'sistema-paese' francese, tedesco, italiano etc. nell'agone mondiale, riequilibrando almeno in parte i rapporti di forza con gli USA per fini capitalistici e imperialistici. E' vero anche, tuttavia, che tale progetto potrebbe oggettivamente favorire due 'epifenomeni':
    (a) Una maggiore conflittualità inter-statale tra europei e statunitensi, e quindi delle nuove linee di frattura e di crisi tra i blocchi dominanti mondiali; e
    (b) una rinnovata coscienza nazionale all'interno dei paesi europei, e soprattutto una rivalorizzazione dell'autonomia che potrebbe coniugarsi a richieste e lotte di stampo propriamente sociale e anticapitalistico
    In definitiva, un conto è lottare per obiettivi sociali in un contesto di federalismo europeo improntato a criteri tecnocratici e liberisti, un altro è farlo in un contesto più 'pluralistico' di Stati nazionali che mantengono una propria (relativa) autonomia.
    Il secondo scenario è certamente più propizio per le lotte sociali e politiche di giustizia sociale, di riequilibrio ambientale e di valorizzazione della specificità culturale che strutturano il Progetto comunitarista.
    Sia chiaro, per terminare, che il nazionalitarismo qui proposto è del tutto refrattario a logiche 'autarchiche' e 'isolazioniste'. I comunitaristi si pongono in continuità con la migliore tradizione internazionalista, ma lo fanno dando valore all'indipendenza nazionale e alla cooperazione volontaria tra gruppi umani e sociali di eguali diritti e valore ma differenti per storia, cultura, tradizioni [9]. Quindi, metodologicamente, la libertà e l'autodeterminazione di un popolo vengono prima della sua adesione volontaria a qualsiasi organizzazione internazionale. Altrimenti, vi sarà solo il trionfo di auto-legittimatesi oligarchie economico/politiche spacciato per 'democrazia'.
    ---
    note
    [1] A. Marc, Europa e federalismo integrale, trad.it. Milano 1996
    [2] Cfr. ad esempio B. Olivi, L'Europa difficile, Bologna 1993
    [3] E' infatti di embrione che si deve parlare, non esistendo in Europa un tale apparato nel senso proprio del termine, come invece esiste negli USA.
    [4] John Hulsman, Cogli la ciliegina. L'America usa la debolezza europea, in 'Limes', 1/2003, pp. 141 e segg.
    [5] Cfr. ad esemprio G. Pala, Stati disgreganti e Stati disgregati, 'La Contraddizione', La Contraddizione
    [6] G. La Grassa, Fuori della corrente. Decostruzione-ricostruzione di una teoria critica del capitalismo, Milano 2002.
    [7] Cfr. 'Comunitarismo', ottobre 2002 e marzo 2003
    [8] Cfr. ad esempio M. Salvadori, Storia moderna, Milano 1989
    [9] Cfr. C. Preve, Geopolitica, comunitarismo, identità europea e questione nazionale, in 'Indipendenza', 13, gennaio 2003
    Muntzer il Sopravvissuto

 

 

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