LA COMUNITÀ in piazza
di Benedetto Vecchi
Quest'anno il festival della filosofia è dedicato alla riscoperta di un termine che si credeva sepolto dalla modernità. E che vuole ridisegnare i confini dell'inclusione e dell'esclusione dalla cittadinanza. Dalle fredde intimità alimentate dai media alla politica dell'amicizia, tre giorni di incontri per un articolato lessico teso a narrare la crisi delle forme del vivere associato che hanno segnato il Novecento
Parola maledetta, quella scelta quest'anno dal Festival della filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo come chiave di accesso alla comprensione della vita nelle società contemporanee. Maledetta e tuttavia ampiamente usata (e abusata) negli ultimi trent'anni non solo in ambito filosofico, ma anche in quello più pragmatico della sociologia. La «comunità» è stata considerata come un antico retaggio del passato che la modernità avrebbe dissolto come neve al sole, relegando così gli studiosi che l'usavano ai margini della discussione pubblica. La retorica o l'invocazione di una comunità erano prerogativa dei conservatori di campagna o, più drammaticamente, di chi invitava a marciare il popolo al passo dell'oca. Solo negli anni Sessanta la comunità poteva essere recuperata, ma solo all'interno di un superamento del capitalismo e di un egualitarismo radicale.
È stato infatti il filosofo francese Maurice Blanchot a riabilitarla con un linguaggio tanto barocco quanto spregiudicato. Ma la sua riscoperta di una comunità di eguali rimane comunque relegata in gruppi di intellettuali decisamente «di nicchia». È con la crisi della modernità che la comunità riacquista il centro della scena, sebbene la sua concettualizzazione abbia molto a che fare con l'eclissi di una costituzione materiale (e formale) che ha caratterizzato il capitalismo nella sua parabola novecentesca.
Quella che viene invocata non è la comunità di popolo, né dei produttori, ma a una forma di vita delimitata geograficamente. E come al tempo della costituzione degli stati nazionali anche queste «moderne» comunità sono inventate, cioè sono il prodotto di una intenzionalità politica ben precisa. E se Blachot aveva in mente il gruppo fusionale sartiano e il Sessantotto francese, la retorica attorno alle comunità prefigurano un futuro che riproduce i rapporti sociali e di potere dominanti. La comunità è dunque la parola d'ordine di chi vuol preservare il «territorio» - altra parola chiave che torna spesso tanto nei media che nella riflessione filosofica - dalla possibilità di trasformare i rapporti sociali dominanti.
Non va comunque sottovalutato un altro elemento che accompagna l'uso di questo termine. La cancellazione, cioè, delle differenze interne, dei conflitti che caratterizzano le società contemporanee. E la produzione di rigidi confini che organizzano l'inclusione e l'esclusione sociale. In tempi neanche tanto lontani, Etienne Balibar ha scritto molto su come lo stato-nazione abbia sempre definito i confini della democrazia, stabilendo così l'accesso alla cittadinanza.
Lucidamente, infatti, il filosofo francese ha descritto il limite delle moderne democrazie. In questo inizio di millennio e di conclamata crisi della democrazia rappresentativa, la comunità immaginate su base territoriale funzionano su rigidi gerarchie all'interno, dove l'inclusione diviene sempre più selettiva. Si entra in comunità solo se si aderisce alla forma di vita e alle gerarchie con le quali è organizzata la vita associata. La comunità viene quindi immaginata come risposta alle trasformazioni sociali, culturali e produttive della modernità capitalista. La traduzione politica di questo discorso è il populismo amorale e secolarizzato, attento alle tecniche comunicative di costruzione di un ordine del discorso che la legittimi come approdo della crisi dello stato nazione.
Il festival della filosofia che prende il via a Modena, Carpi e Sassuolo propone un frame nel quale collocare le diverse «narrazioni» sulla comunità partendo dal loro carattere problematico, contradditorio. E non è un caso che il fitto calendario di incontri e di lectio magistralis è articolato attorno alle diverse maschere che la «comunità» indossa nella sua rappresentazione mediatica, appunto secolarizzata. È infatti un segnale inequivocabile che il lessico della comunità faccia leva su quelle «intimità fredde» alimentate dalla comunicazione mediatica. Il format comunicativo della comunità è il reality show, dove dietro l'apparente innocenza del gioco di società o della messa in scena di ordinaria quotiditianetà si cela il feroce darwinismo sociale che orienta il discorso politico comunitario. Nel campo avvelenato della comunità stazionano il suolo e il sangue del tradizionale pensiero politico organicistico, ma ci sono anche alcuni termini del lessico politico che discendono dalla critica dei rapporti sociali dominanti nella società capitalista. L'autodeterminazione, il territorio, il mestiere, la critica dell'economia politica, la produzione artistica, il ruolo marginale e consolatorio della religione nelle società secolarizzate, la divisione del lavoro all'interno della famiglia patriarcale sono solo alcune tappe di quel fiume in piena che hanno favorito la crisi della democrazia rappresentativa, ma che la comunità riconduce negli argini dell'individualismo proprietario, figura idealtipica nelle teorie contemporanee sulla comunità, così come il populismo è la sua manifestazione politica.
Non è compito di un festival della filosofia elaborare un antidoto al virus «comunitario». Ma è significativo che tre comuni di una regione molto gelosa della propria diversità sociale e politica rispetto alle vicende nazionali si pongano il problema di guardare in faccia il «male oscuro» della democrazia italiana. Lasciando però interdetti. Il lessico su cui si articola la tre giorni emiliana sembra più una torre di babele - gli incontri specifici sulla comunità si contano sulle dita di una mano: gli altri sono dedicati appunto alle possibili «maschere» che la comunità può indossare - che non un ordinato vademecum che aiuti a comprendere la posta in gioco. Ma è proprio in tempi di crisi che un brainstorming può aiutare di più a comprendere il presente che non un decalogo di buoni e «ordinati» pensieri.
IL MANIFESTO
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