Dalle colonne del "Corriere della Sera" ancora una rivelazione sul dibattito di fondo che anima il capitalismo nostrano
Quanta voglia di pubblico tra i manager italiani


Salvatore Cannavò

Ce ne eravamo accorti già la scorsa settimana quando sul Corriere delle Sera era stato pubblicato un sondaggio in cui la maggioranza degli italiani si diceva favorevole a un intervento pubblico in Fiat (a condizione di cacciare via gli Agnelli...). Ora, sempre il Corriere - stavolta nel suo supplemento economico del lunedì - ce ne offre una conferma ancora più significativa. Sì, perché questa «irresistibile voglia di pubblico» promana dallo stesso vertice del capitalismo italiano o, per lo meno, dai suoi top manager che, osservando i disastri nel settore privato - oggi Fiat, ieri Montedison, Olivetti, la siderurgia - fanno capire chiaramente che "pubblico è meglio".

I campioni di Stato

E così possiamo scoprire che i manager migliori se ne stanno bene al riparo del controllo statale. Vittorio Mincato, ad esempio, "governa" da una vita uno dei gruppi italiani più importanti, l'Eni; ne è amministratore delegato dal 1998, ma lo scorso giugno il suo incarico è stato riconfermato fino al 2005. E l'Eni, società per azioni, quotata in borsa con un collocamento eccezionale per pubblicizzazione, è controllata ancora al 30% dallo Stato. Un controllo che non ha impedito alla holding di mettere in attivo, nel terzo trimestre 2002, 921milioni di euro di utile netto. Paolo Scaroni, invece, fino a maggio 2002 Group Chief Executive della Pilkington Plc - leader mondiale nella produzione di vetro piano con sede in Gran Bretagna - non ha avuto dubbi a trasferirsi all'Enel, compagnia che ormai non si occupa più solo di energia elettrica, ma che comunque vive in quel settore di punta rappresentato dalle utilities, i servizi pubblici essenziali. L'elenco del Corriere continua con uno dei tanti giubilati della Fiat, Roberto Testore, trasferitosi dalla casa torinese a Finmeccanica, mentre Pasquale Pistorio, a quanto pare uno dei manager italiani più ammirati, dopo aver diretto le principali compagnie del mondo è ora alla STMicroelectronics - sesto posto nella classifica delle prime dieci aziende produttrici di semiconduttori, con un fatturato totale per il 2000 pari a 7,8 miliardi di dollari - controllata da France Telecom (ancora pubblica) e da Finmeccanica.

Insomma, un parco di campioni e di risultati encomiabile che fanno dire ad autorevoli esponenti dell'economia italiana che è venuta l'ora di una svolta inversa a quella avviata negli anni 80 e 90. Ad esempio, citiamo ancora dal Corriere, Franco Masera, amministratore delegato di Kpmg (società che lavora al progetto di riammodernamento della Pubblica amministrazione) si spinge fino a proporre «un Iri due», una riedizione, cioè, dell'Istituto per la ricostruzione industriale, fondato nel 1936, in piena recessione mondiale, e che costituisca una «superholding» in cui lo Stato faccia confluire tutte le sue partecipazioni (un "miniesempio" di questo progetto, tra l'altro, è offerto dalla Sta, la società costituita a Roma da Veltroni in cui il Comune ha fatto confluire tutte le sue partecipazioni).

Vittime globali

Ma cosa spinge i manager, e tanta parte dell'establishment economico a sostenere questa posizione "eretica", tanto da influenzare lo stesso vertice del governo?

In realtà, è probabile che dalla loro postazione non sfugga quell'intrico di dinamiche e di contraddizioni portate dalla globalizzazione economica. Il mercato mondiale, soprattutto nella sua fase di crisi, favorisce e alimenta concentrazioni dolorose, accorpamenti in cui, tanto per citare una celebre definizione, "pesce grande mangia pesce piccolo". Le strutture private italiane, tanto decantate quando è stato dato avvio alla vulgata della privatizzazione, sono generalmente piccole e non ce la fanno a competere con un processo di concentrazione produttivo e finanziario che segue un ritmo travolgente.

La partita europea

Una dinamica in cui, contrariamente a quello che si pensa, è l'Europa a dettar legge: nel corso di tutti gli anni 90, il numero di acquisizioni da parte di imprese europee a livello mondiale non solo è stato sempre superiore al numero di acquisti compiuti in Europa, ma, più significativamente, è stato sempre superiore all'analogo rapporto statunitense. Come rivela il rapporto annuale dell'Autorità garante del mercato e della concorrenza (da cui ricaviamo questi dati) si rivela una «forte attitudine all'internazionalizzazione attiva da parte delle imprese comunitarie, a fronte di una tendenza di segno opposto per le imprese di nazionalità statunitense».

In questo rapporto, che vede una spiccata supremazia europea, l'Italia si perde però per strada e non riesce a seguire il ritmo degli altri paesi europei. «La graduatoria dei paesi comunitari - continua l'Agcm - vede l'Italia sopravanzare solo i Portogallo e il Lussemburgo in termini di incidenza del numero delle acquisizioni di imprese ad alta tecnologia sul numero complessivo delle transazioni». Per fare un esempio, al 9,3% dell'Italia corrisponde il 24 della Germania, il 21 della Francia, ma anche il 18 del Belgio o il 19 della Danimarca.

Insomma, l'Italia è sempre più alla "periferia" del mercato mondiale di cui sempre più si candida a divenire l'ancella. In una situazione di così estrema difficoltà, non è solo comprensibile, ma ormai vitale affidarsi a una progettualità e a una forza d'urto che solo l'intervento pubblico può garantire. Come dice ancora Franco Masera, il modello è l'Eni: «Grandi gruppi quotati in Borsa, ma con una quota di controllo in mano allo Stato che ne assicuri l'indirizzo, la crescita e la difesa da eventuali attacchi esteri». Un modello più sicuro, una nave più solida e, perché no?, un sistema in cui garantire, anche al livello dei top manager, un alto stipendio e un posto di lavoro.

Liberazione 17 dicembre 2002
http://www.liberazione.it