Salari meridionali in gabbia




Rosario Patalano e Riccardo Realfonzo

La politica per il Mezzogiorno del governo Berlusconi cade in una evidente contraddizione logica. Il progetto di una nuova politica nazionale d’intervento per rilanciare lo sviluppo del Sud è infatti del tutto in contrasto con l’intento ventilato, continuamente annunciato e ritirato, di reintrodurre con legge un meccanismo di retribuzione salariale ancorato al costo della vita, che tenga conto della circostanza che nelle regioni meridionali il livello dei prezzi risulta inferiore al Centro-Nord (del 17% secondo Banca d’Italia).
Se, infatti, il progetto di reintrodurre una agenzia nazionale per il Sud sul modello della Tennessee Valley Authority (come un inedito roosveltiano Berlusconi si è spinto a dichiarare) sembrerebbe strizzare l’occhio ad uno schema di intervento keynesiano, fondato su un programma di lavori pubblici a sostegno della domanda, l’idea di adeguare i salari monetari dei lavoratori meridionali al minor costo della vita agirebbe in senso opposto: contenere i redditi nel Mezzogiorno non può che comprimere la domanda di beni di consumo, aggravando ulteriormente il dato dell’economia locale. Naturalmente, una logica di fondo c’è, non ha nulla a che fare con gli interessi del Mezzogiorno ed è piuttosto legata agli equilibri tra i blocchi di interesse che sostengono il governo. L’introduzione di gabbie salariali, che come è noto costituisce un elemento rilevante del programma leghista, sembra infatti essere il prezzo che Berlusconi potrebbe pagare per far passare l’Agenzia per il Sud, con la quale mettere le mani sulle risorse per il Mezzogiorno, contrastare rischi di nascenti “partiti del Sud” e controllare consensi. Siamo evidentemente molto lontani da quanto occorrerebbe mettere in campo per affrontare il tema del Mezzogiorno come questione nazionale.
Con la proposta leghista, formulata in termini di riduzione dei carichi fiscali sulla contrattazione decentrata nelle aree a maggior tasso d’inflazione, il Paese sarebbe sostanzialmente diviso in macroaree caratterizzate da rilevanti differenze retributive. Ma ad una attenta verifica non c’è alcun elemento sul piano analitico che possa giustificare tale proposta.
In primo luogo, è opportuno precisare che alcuni richiami all’esperienza italiana del passato sono del tutto impropri. In Italia il sistema dei differenziali salariali su base territoriale ha operato tra il 1945 (a seguito dei famosi accordi del 6 dicembre) e il 1969, ed era inizialmente fondato su quattordici aree e poi, dal 1961, su sette. Le gabbie dell’epoca riguardavano essenzialmente la regolamentazione dei minimi salariali in un quadro diretto alla progressiva perequazione retributiva in un Paese che usciva dalla guerra mondiale, dall’esperienza autoritaria corporativa e che presentava straordinarie diseguaglianze nel mercato del lavoro accanto ad un fortissimo grado di concentrazione della contrattazione salariale. Un sistema che all’inizio degli anni Sessanta si presentava ormai fortemente discriminatorio al punto che la sua abolizione - al grido “stessa paga per uguale lavoro” - fu uno dei successi dell’autunno caldo. Oggi se il governo riprendesse sul serio il progetto delle gabbie salariali, pensando di portare indietro l’orologio della storia, si muoverebbe in palese violazione delle norme antidiscriminatorie stabilite dalle convenzioni dell’International Labour Organisation (ILO).
Un secondo ordine di problemi concerne il fatto che almeno dal XVIII secolo gli economisti sanno che un più alto indice territoriale del costo della vita è generalmente effetto di un maggior livello di ricchezza. Non a caso, come rivela la stessa Banca d’Italia, “l’ordine di grandezza dei divari di prezzo Est/Ovest in Germania appare relativamente simile a quello tra Mezzogiorno e Centro-Nord in Italia”. Si tratta insomma di fenomeni tipici di quei paesi che hanno un forte squilibrio territoriale. D’altronde risulta facile comprendere che le dinamiche dei prezzi non possono non riflettere la circostanza che oltre i due terzi (il 68,6%) delle famiglie povere d’Italia risiede nel meridione, che l’incidenza delle famiglie monoreddito è più alta al Sud (47% contro il 41% del Centro-Nord) e che sempre al Sud una famiglia su tre guadagna tra 500 e 1500 euro al mese mentre al Centro-Nord solo una famiglia su cinque è ferma a questi livelli reddituali. Insomma: la diversità nel livello dei prezzi riflette i profondi e notissimi divari di ricchezza tra il Mezzogiorno e il resto del Paese.
A quanto appena osservato si potrebbe replicare che una fetta consistente del mondo del lavoro (a cominciare dall’impiego pubblico) viene trattato alla stessa stregua al Nord e al Sud, con effetto penalizzante per i lavoratori del Nord. Ma anche questa osservazione ad un esame attento risulta non fondata. Per comprendere il punto occorre chiarire che costruire un indice del costo della vita capace di catturare realmente il diverso livello di potere d’acquisto dei salari non è affatto impresa agevole. Recentemente l’Istat ha compiuto un tentativo in tal senso (”Le differenze nel livello dei prezzi fra i capoluoghi delle regioni italiane”) che tuttavia ha una efficacia molto limitata, dal momento che si ferma solo a tre capitoli di spesa che coprono solo un terzo dei consumi delle famiglie. Problematica è anche la scelta della scala temporale, se cioè si fa riferimento ad un determinato istante (il livello dei prezzi in un anno), o se invece si fa riferimento ad andamento dinamico del costo della vita (variazione dei prezzi da un periodo all’altro), e i risultati ottenuti potrebbero essere radicalmente diversi nei due casi, in quanto il Mezzogiorno di fronte a più bassi indici medi del costo della vita, registra un tasso d’incremento dei prezzi più sostenuto rispetto al Centro Nord. Ma il punto centrale che qui è bene richiamare consiste nella circostanza che normalmente per costruire gli indici vengono considerati panieri di beni considerati omogenei per le diverse partizioni del Paese. Ma la verità è che i panieri non sono affatto omogenei, proprio perché nelle aree più povere del Paese molti beni e servizi offerti sono di qualità inferiore. Per chiarire il punto pensiamo ai servizi pubblici, ad esempio al trasporto o alla sanità. È ben noto che nel Mezzogiorno – per un insieme di fattori, inclusa la cronica povertà di infrastrutture – tali servizi sono più scadenti rispetto a quelli offerti nel Centro-Nord con la conseguenza che il meridionale deve spesso andare sul mercato per sopperire alla deficienza dei servizi pubblici. Per questa ragione le indicazioni provenienti da un semplice esame dei livelli dei prezzi possono essere drammaticamente fuorvianti (a riguardo si veda anche l’articolo di Forges Davanzati e Pacella).
Come se tutto ciò non bastasse vi sono molti altri argomenti contro l’introduzione di gabbie salariali. L’esperienza ormai ci ha infatti insegnato che il l’introduzione di differenziali salariali non costituisce un volano per lo sviluppo del Mezzogiorno. Basti pensare agli esiti dei differenziali del costo del lavoro che di fatto hanno operato nel Mezzogiorno con l’introduzione degli sgravi contributivi introdotti con la legge 1089 del 1968 e che non hanno generato alcun beneficio al Sud. E d’altra parte chi può negare che di fatto i lavoratori settentrionali già godono di una retribuzione mensile significativamente più alta dei colleghi del Sud (il 30%, secondo un recente rapporto della Cgia di Mestre)? La verità è che in tanti anche recentemente, con l’approvazione del Trattato di Maastricht, si erano anche illusi che i bassi salari potessero rilanciare l’economia meridionale. L’idea era che il Mezzogiorno avrebbe finalmente potuto sfruttare, con l’introduzione della moneta unica, il vantaggio rispetto alle aree ricche d’Europa che derivava appunto dal differenziale salariale. Purtroppo è stato vero il contrario. Nel Mezzogiorno i bassi salari da un lato hanno progressivamente portato alla contrazione della domanda e dall’altro hanno spinto le imprese ad adagiarsi su una competitività fondata sulla compressione dei costi con rinuncia a qualsiasi forma di investimento. La stagnazione e le ulteriori perdite di quote di mercato sono stati gli esiti delle politiche di bassi salari nel Sud.
Insomma, provvedimenti governativi nella direzione dei bassi salari e delle gabbie salariali non farebbero che appesantire ancora il passo all’economia meridionale. Ma, si sa, la tentazione delle destre è sempre quella: fare dei salari la variabile dipendente dell’economia, la spugna che dovrebbe assorbire tutti i capricci del mercato

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