di Maria Zegarelli

Tra le novità di questo anno che sta via via spegnendosi c’è n’è una sicuramente degna di nota, se non altro per il grande caos che ha provocato: la legge sull’immigrazione, meglio nota come la «Bossi-Fini», i cognomi dei suoi padri ispiratori. È, per intenderci, quella normativa che ha diviso la maggioranza, spaccato in due, tre, quattro parti la Casa della libertà - mettendo seriamente a rischio la tenuta delle mura portanti -, tenuto con il fiato sospeso migliaia e migliaia di lavoratori extracomunitari e i loro datori di lavoro.

La grande confusione è iniziata da subito, (il giorno dopo la fine della bagarre in Parlamento) svelando la grossolanità del legislatore e la poca chiarezza delle norme che ha prodotto. Intanto la prassi per la regolarizzazione, iter obbligatorio per ottenere il tanto desiderato permesso di soggiorno, procede a passo di lumaca creando dei veri e propri ostaggi nelle mani dell’Italia (chi esce senza permesso non rientra più e quindi tutti qui fino a quando la burocrazia avrà compiuto il suo corso). Poi, nelle aule dei tribunali la polemica divampa e si espande via via che sul tavolo dei giudici arrivano «casi da esaminare». Sulla legge in questione - entrata in vigore il 9 settembre - pendono già 10 ricorsi sollevati da altrettanti giudici e magistrati su questioni di legittimità e costituzionalità. Forse soltanto la neonata Cirami saprà produrre di più.

Il punto intorno al quale si bloccano i processi contro gli immigrati è sostanzialmente uno: come si applica in pratica la legge. E dato che non c’è chiarezza si formano le «scuole di pensiero». Procura che vai applicazione che trovi, citando - e adattandolo all’esigenza - un vecchio proverbio.

A Bologna il procuratore Di Nicola ha definito «obiettori» i pm che scarcerano gli immigrati subito dopo l’arresto, mentre a Verona l’orientamento è proprio quello di scarcerarli, «dato che la legge contiene delle gravissime contraddizioni». L’ex procuratore di Milano Gerardo D’Ambrosio, dopo i richiami del Polo ai giudici, aveva cercato di spiegare: «La legge Bossi- Fini? Noi la stiamo applicando, anzi stiamo facendo l’impossibile per rimediare a certe norme macchinose e di dubbia interpretazione». Il magistrato Manfredi Luongo è arrivato al nocciolo della questione senza troppi giri di parole: «Se la legge non è fatta bene la colpa non è certo dei giudici». Allora, cerchiamo di capire quali sono le parti più controverse della legge. Secondo il giudice monocratico di Roma, Rosanna Ianniello, (che ha sollevato eccezione di incostituzionalità) la Bossi-Fini viola il diritto di difesa perché, dal momento che prevede l’espulsione immediata dell’immigrato, impedisce al difensore di chiedere i termini a difesa.

Ha spiegato l’avvocato Bruno Andreozzi, che spesso difende gli extracomunitari: «Dopo il fermo della persona e la convalida dell’arresto si deve effettuare il processo vero e proprio e l’imputato ha diritto ai termini a difesa, quindi deve essere processato dopo un certo numero di giorni». Per la Bossi-Fini no.

Un giudice torinese, invece, il dubbio di legittimità costituzionale è legato alla norma che prevede l’arresto in flagranza degli stranieri sorpresi in Italia dopo la scadenza dei termini di cinque giorni imposto dal Questore per abbandonare il paese, Sarebbero tre gli articoli della Costituzione ( 2, 3 e 27)contro cui si sconterebbe tutto ciò: uno dei motivi è che la violazione è considerata dal legislatore di “modesta gravità” mentre l’arresto in flagranza è previsto per reati di «spiccatissima pericolosità sociale». Ragion per cui, secondo il magistrato, tutti gli arresti in flagranza sfociano nella liberazione (sono già 12 le scarcerazioni disposte dai giudici). Su questo stesso punto molti magistrati hanno presentato ricorsi, perché ravvisano un diverso trattamento tra italiani e extracomunitari.

E veniamo alle scarcerazioni: quasi sempre si tratta di librazioni decise «perché non c’erano le condizioni di applicabilità delle norme coercitive», per una contraddizione rilevata tra la legge sull’immigrazione e le norme del codice di procedura penale in materia di custodia cautelare in carcere. Ma c’è anche un’altra motivazione, rilevata almeno in due procedimenti diversi: quando cioè «appare sussistere il giustificato motivo della permanenza in italia», malgrado il decreto di espulsione. Quando cioè gli immigrati «non abbiano denaro sufficiente per intraprendere il viaggio di ritorno nel loro paese d’origine». Si chiama anche «assoluta indigenza», motivo ritenuto sufficiente dal pm di Milano Giovanni Battista Rollero, per rimettere in libertà un ucraino e un rumeno arrestati perché non avevano lasciato l’Italia entro i 5 giorni previsti dalla Bossi-Fini.

A margine vale la pena di riportare alcune dichiarazioni rese «a caldo» da diversi esponenti della maggioranza in seguito alle eccezioni sollevate dai giudici. Piergiorgio Stiffoni, senatore della Lega nord: «È iniziata la rivolta dei giudici contro il popolo sovrano che vuole rigore contro la clandestinità. È aberrante la presa di posizione del pm di Firenze seguita a quella di Roma sulla Bossi-Fini». Il deputato bolognese di Forza Italia Fabio Garagnani, alla notizia del presunto rifiuto di alcuni magistrati di applicare la legge» nella parte in cui prevede l’arresto in flagranza: «Se fosse tutto vero sarebbe una cultura da colpo di Stato. Inaudito. Se i fatti sono realmente accaduti, si tratta di un’aggressione alla democrazia bella e buona». Un’annotazione: nessun dubbio da parte della Casa delle libertà sulle questioni giuridiche sollevate dai giudici.