In questi giorni è caduto il primo anniversario del crac di Lehman
Brothers, la banca d’investimenti americana il cui fallimento – solo
in apparenza improvviso – ha convinto tutti, anche i più scettici, dell’
esistenza
di una grande crisi economica. Già prima di allora, nei
mesi dell’affaire Bear Stearns e poi nell’estate del 2008, s’era discusso
parecchio del sopravvenire di una fase difficile per l’economia
globale. Qualcuno, anche tra i più avveduti, cominciò a parlare di
“un nuovo ’29”, ossia d’una crisi paragonabile soltanto – per intensità
e danni collaterali – a quella che portò alla Grande Depressione.
Chi parlava, a ragione, di paure e di speranze, non resistette al
parallelo immaginifico con l’America cupa di Hoover e a una ricetta
vecchia più di Roosevelt per uscirne: il ricorso allo Stato, ossia alla
finanza pubblica, per raddrizzare le “storture” del mercato. Un
mercato – dicevano – impazzito a causa del proliferare di nuovi e
incontrollabili
strumenti finanziari, i derivati su mutui e altri contratti
di debito, che presto sarebbero diventati carta straccia, riducendo
al medesimo stato buona parte della finanza e dell’economia reale.
Così, all’appropinquarsi della crisi, la soluzione più ovvia (e più saggia)
è parsa a tutti, o quasi, il ricorso al denaro pubblico: per evitare
la chiusura di banche, compagnie assicurative e imprese (in primis,
le case automobilistiche statunitensi) “troppo grandi per fallire”
si sono spesi migliaia di miliardi in tutto il mondo. In America,
soprattutto,
ma non soltanto. L’euforia neostatalista ha preso un po’ tutti,
e l’aver salvato (a carissimo prezzo) centinaia di istituzioni finanziarie,
è sembrato a molti il risultato indispensabile perché si arrivasse
a un punto di svolta. Si dice ora che i “segnali di ripresa” ci sono,
e che sono sempre più numerosi. E’ vero, come è vero che essi provengono
dalle imprese e dal mondo del lavoro, e non dalla finanza.
E anzi sono stati parecchi, in questi mesi, i segnali di stasi – a dispetto
delle iniezioni di capitale pubblico, cioè di proventi delle tasse di
tutti i cittadini – provenienti dall’industria del credito. Molte banche,
soprattutto i grandi istituti con grandi strategie globali e scarsa
attitudine
locale, hanno incassato, ringraziato, e poi hanno cercato di limitare
al minimo sindacale la concessione di nuovi prestiti (o la rinegoziazione
di quelli vecchi). Diverso il discorso, almeno in Italia,
per tante banche popolari o del credito cooperativo che – al contrario
– non si sono tirate indietro nel momento del bisogno. E però è
la tendenza complessiva a contare, non le eccezioni, per quanto lodevoli.
Un anno dopo il grande choc di Lehman Brothers e degli scatoloni
portati via in fretta e furia dai suoi dipendenti ormai senza lavoro,
sono almeno due le lezioni che si possono trarre da tutta questa vicenda.
La prima – lampante, perché sono i numeri dell’economia
reale a dirlo – è che non c’è stato nessun ’29. Le difficoltà, quelle sì,
non sono mancate. E sono state difficoltà capaci di costare la serenità
e il benessere di tante famiglie in tanti paesi. Ma il tracollo globale,
la depressione endemica, la tabula rasa del modello economico
capitalistico sono tutte cose che, pur annunciate e quasi vaticinate,
non si sono poi verificate.
L’altra lezione, è che s’è trattato d’una crisi da gattopardi. Come nel
romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, s’è cercato di cambiare
tutto (a parole), perché tutto restasse com’era. L’assetto della finanza
americana, con qualche inevitabile fusione e qualche testa caduta
qua e là, è grossomodo lo stesso di dodici mesi fa. I mutamenti,
se ce ne sono stati, in Europa sono stati se possibile ancor più
impercettibili.
Lo stesso presidente americano, Barack Obama, ha sottolineato
qualche giorno fa che troppe cose sono rimaste le stesse
d’un tempo. Non ha spiegato perché, e un po’ va capito. Sarebbe stato
difficile ammettere che ciò è stato possibile proprio grazie all’intervento
(da lui praticato e caldeggiato) degli Stati nelle economie. Sia
prima, sia dopo la crisi. In un saggio sulla Grande Depressione, l’
economista
libertario Murray Rothbard spiegava bene che una crisi
altro non è che “un’esplosione di errori” degli attori dell’economia.
Un risultato raggiungibile ad una sola condizione: che qualcuno induca
a sbagliare, tutti insieme, imprenditori e consumatori. Il modo
migliore per limitarne la libertà e indurli all’errore è immettere moneta
(con prestiti facili) sul mercato: i “soldi facili” dirotteranno le loro
scelte di investimento. Esattamente quel che è accaduto negli anni
di Alan Greenspan alla Federal Reserve. Insomma, la causa della
crisi è lo Stato che crea artificialmente un’espansione (una bolla)
che prima o poi si sgonfia. Il vaccino a tutto questo, un anno fa, era
a portata di mano: lasciar fallire chi, esplosa la bolla, non aveva più
i numeri per stare sul mercato. Lasciare, cioè, che l’economia americana
(e, di conseguenza, quella globale) si ridisegnasse autonomamente,
ripulendosi delle scorie dell’ingordigia creata ad arte dalla
Fed. Foraggiarla con aiuti pubblici non poteva che portare alla conseguenza
opposta: lasciare tutto com’era, salvo un po’ di maquillage.
E tutti pronti a credere anche alla prossima bolla.
Articolo di Alan Patagra' (giornalista TG5), apparso su la voce di Romagna.