Marino lascia l'Italia e torna negli Usa:
da noi prevale la cultura del privilegio
Il re dei trapianti si arrende "Qui non posso lavorare"
Speravo di dimostrare che si può cambiare
In Italia ognuno coltiva il proprio orticello
di ARNALDO D'AMICO


ROMA - Un ultimo saluto amaro, ieri mattina a Fiumicino, dall'aereo che l'ha riportato negli Stati Uniti, da dove partì quattro anni fa. Nient'altro. Non è tipo da lasciarsi prendere dalle passioni: quando devi dirigere trenta persone in camera operatoria per dodici ore filate sai come e quando fermarti. Ma non ne poteva più. Ignazio Marino, nato a Genova nel 1955, laureato in medicina a Roma, uno dei "cervelli" tornati in patria con grande clamore, non tollerava più quelli che "segano le gambe" a chi fa bene invece di rimboccarsi le maniche per fare meglio. Sperava che le cose fossero cambiate in Italia da quando se ne era andato vent'anni fa. In America Ignazio Marino è diventato l' "erede" di quel Thomas Starzl che inventò il trapianto di fegato, intervento chirurgico tra i più difficili. E poi il primo direttore straniero dell'unico centro trapianti federale americano. Lasciò tutto per organizzare a Palermo l'Ismett (Istituto Mediterraneo per i Trapianti e le Terapie ad alta specializzazione) che ora il mondo ci invidia per i record di guarigioni.

Ma alla fine burocrazia e baroni hanno vinto: da oggi Marino è di nuovo negli Usa, a capo della divisione trapianti e chirurgia del fegato di una delle più prestigiose università americane, la Thomas Jefferson di Philadelphia.

Ma allora professore perché tornò in Italia?

"Nel 1996, quando si cominciò a pensare ad un centro trapianti multiorgano in Sicilia, io lavoravo negli Stati Uniti ormai da quasi dieci anni. Ho esitato all'inizio: ne avevo visti in Italia di grandi progetti iniziati per essere lasciati a metà. Speravo però di dimostrare che anche da noi si possono raggiungere ottimi livelli anche partendo da condizioni svantaggiate. Pensavo bastasse importare quel modello organizzativo e scientifico che ho imparato negli Stati Uniti e che funziona".

Perché , secondo lei, funziona il modello americano?

"Per l'esclusività del rapporto di lavoro: ogni medico di università o ospedale americano non può svolgere attività privata e per questo riceve compensi adeguati. Per la multidisciplinarità: nei centri trapianti americani, ad esempio, ogni paziente viene seguito contemporaneamente da tutti gli specialisti senza trasferimenti e visite supplementari. Non si spreca tempo, si migliora la qualità dell'assistenza grazie al confronto tra i vari esperti che così ampliano anche le loro competenze. In Italia la divisione degli ospedali in reparti causa disguidi, scarsa comunicazione tra i medici, difficoltà di coordinamento e minore efficacia delle terapie. Altro elemento determinante, sono le maggiori responsabilità affidate agli infermieri negli Stati Uniti".

- Pubblicità -

Quando iniziò l'avventura-disavventura italiana?

"Nel 1999, dopo tre anni di lavoro per stabilire gli accordi tra il Governo italiano, la Regione Sicilia e il Centro Medico dell'Università di Pittsburgh, organizzare il team di professionisti americani che si sarebbero dovuti trasferire a Palermo, assumere gli infermieri italiani e formarli negli Stati Uniti, elaborare il progetto per la costruzione dell'ospedale. Ma ci sono stati mille problemi".

Ad esempio?

"Problemi tecnici nel raggiungere gli standard di sicurezza e di affidabilità delle attrezzature. Abbiamo eseguito il primo trapianto di fegato a fine luglio 1999, con una temperatura esterna che sfiorava i quaranta gradi e, durante l'intervento, è saltato l'impianto di condizionamento. Un disastro, senza la temperatura giusta in sala operatoria è a rischio la salute del paziente e la funzionalità dell'organo. E per l'équipe aumenta le probabilità di errori. Me lo ricorderò per tutta la vita quel giorno".

Altri problemi?

"Per assumere esperti informatici ho mandato lettere ai docenti delle facoltà siciliane perché mi segnalassero gli allievi migliori, come si fa negli Stati Uniti. Ho inviato trenta lettere e mi sono arrivate tre risposte, ma di pura cortesia, senza alcun nome".

Scoraggiante...

"Per fortuna c'era anche la convergenza di sforzi e di persone che credevano fortemente in questo progetto e che hanno fatto di tutto per non farlo naufragare. In primo luogo l'allora ministro Rosy Bindi e l'assessore alla sanità Alessandro Pagano, il sindaco Orlando, il cardinale Pappalardo e tante altre persone che ricoprivano ruoli chiave e rappresentavano uno stimolo oltre che una garanzia di riuscita".

Bene o male l'Ismett è partito ed è stato un successo medico e scientifico. Ma la soddisfazione personale maggiore quale è stata?

"Quella di aver reso inutili i "viaggi della speranza". E l'aver dimostrato che le cose posso funzionare molto bene anche nel Sud del paese".

E la delusione maggiore?

"Mi aspettavo che, come accade non solo in America, si sarebbe sviluppata una competizione con le altre strutture del territorio, una gara per fare meglio, con una generale spinta al miglioramento, con benefici per tutti, dei malati per primi. Tranne qualche rara eccezione, gli sforzi sono stati fatti per creare ostacoli all'Ismett, non per attivare sana competizione. E la spinta al cambiamento dell' Ismett si è ridimensionata".

E così si è arreso?

"Ancora no, anche se i cambiamenti ai vertici delle istituzioni nazionali e regionali hanno diminuito l'attenzione verso un progetto ancora troppo giovane per camminare da solo e che aveva invece bisogno del sostegno di tutti. Alle classiche difficoltà di dialogo con l'amministrazione regionale, s'è aggiunta la mancanza di intervento da parte del ministero e la fine della strategia di lungo periodo. L' Ismett è nato per diventare il primo centro trapianti multiorgano italiano, ma dopo le autorizzazioni per fegato e rene non sono arrivate quelle previste per cuore, polmone e intestino. Infine non capisco perché la Regione abbia continuato a pagare "viaggi della speranza" a tanti pazienti che potevano essere curati in Sicilia".

Ma quale si è rivelato l'ostacolo insormontabile?

"...la diffusa ritrosia al cambiamento e una grande abilità nel difendere piccoli o grandi interessi a scapito dell'interesse comune, che nel nostro caso è la cura dei malati. La mia sensazione è che in Italia nella sanità prevale la voglia di coltivare il proprio orticello: si creano reparti per fare un primario, si parcellizzano le responsabilità in modo che tutti comandino ma nessuno sia realmente responsabile, si lottizzano i posti letto. Ma ciò che più mi stupisce è che non si denunciano gli errori o le terapie sbagliate per non rischiare di offendere un altro medico, mettendo a rischio la salute di un malato e perdendo l'occasione di evitare il ripetersi degli errori in futuro".

Che fine farà l'Ismett?

"Ora è sotto la direzione interinale di John Fung, direttore del centro di Pittsburgh".

E lei tornerà a lavorare in Italia?

"Non credo. Almeno sino a che prevarrà la cultura del privilegio personale, sino a quando si creeranno ostacoli a chi sa far bene invece di cercare di far meglio che poi è l'interesse del malato".

(3 gennaio 2003)


Parlano Palombini dell'Associazione dottorandi e dottori,
il biologo Paolo Amati e Rino Falcone dell'Osservatorio
La denuncia degli esperti:"Ci saranno altre fughe"
Giovanni Bignami ex direttore dell'Asi:
dirigerò un istituto in Francia
di CLAUDIA DI GIORGIO


ROMA - Per la scienza italiana la notizia della "fuga eccellente" di Ignazio Marino è un pessimo modo di iniziare l'anno. Tra tagli finanziari, attacchi politici e minacce di controriforma, la crisi della ricerca in Italia sembra arrivata a un punto di non ritorno. "La fuga dei cervelli non deve essere fraintesa", avverte Augusto Palombini, segretario dell'Adi, l'associazione dei dottorandi e dottori di ricerca. "Non è una causa, ma un sintomo della crisi della ricerca e dell'università, che non può essere risolta con provvedimenti tappabuchi".

La scelta di Marino, dice Palombini, "è la dimostrazione palese che in Italia la meritocrazia non viene applicata. Il nostro paese riconosce i meriti di chi è andato all'estero solo a posteriori. E se questo è ciò che accade ad una persona che rientra in Italia dopo aver raggiunto una posizione importante, possiamo immaginare la condizione dei ricercatori più giovani, ancora agli inizi della carriera".

- Pubblicità -

Pessimistico anche il commento del biologo Paolo Amati, presidente della Federazione Italiana Scienze della Vita, secondo il quale questa ennesima fuga è "il segno di un decadimento ulteriore della ricerca, ma più in generale del paese, che va verso un terziario mediocre, come dimostra il caso della Fiat. Si chiede produttività alla ricerca, ma mancano le industrie capaci di raccogliere e sviluppare l'innovazione. Le piccole imprese vanno avanti grazie alla fantasia individuale, mentre la realtà globale è molto più complessa e noi stiamo perdendo competitività. Non abbiamo più mezzi adeguati per fare ricerca, le università languiscono, il Cnr è costretto ad abbandonare partecipazioni internazionale prestigiose. Ma al governo manca sia la visione culturale e strategica della ricerca sia le competenze necessarie per comprenderne i problemi".

Punta il dito verso la classe politica anche Rino Falcone, portavoce dell'Osservatorio per la ricerca. "Questi sono i risultati del clima creato da un anno di dichiarazioni e di azioni molto critiche dei responsabili governativi nei confronti della ricerca pubblica sia universitaria che extrauniversitaria. La prospettiva di mortificazione in cui il governo sta mettendo il settore è evidente. Perché chi ha un mercato fuori dall'Italia dovrebbe rimanere? Solo per ragioni affettive. Ma anche queste hanno un limite, una soglia legata alla possibilità di lavorare e pensare a un futuro in questo paese. Superata la soglia, si cambia aria. Non mi meraviglio affatto di questa fuga: se il clima continua così, aspettiamocene delle altre".

E difatti, Ignazio Marino è solo il primo emigrato eccellente del 2003. Il sette gennaio prossimo, Giovanni Bignami, ex direttore scientifico dell'Agenzia Spaziale Italiana, andrà a dirigere un istituto pubblico di astrofisica in Francia. Perché se ne va, professor Bignami? "Perché credo che la ricerca pubblica di base in questo momento in Italia sia molto penalizzata. Io resto comunque professore all'università di Pavia, ma assumendo questo impegno in Francia spero di aiutare la ricerca italiana a ritornare verso livelli europei".

(3 gennaio 2003)


Mi raccomando Storace e Ciampi: voi intanto pensate alle bandierine tricolori e nuove iniziative "patriottiche"...che tanto della realtà chissenefrega...

P.S.
L'articolo è molto politicizzato però la sostanza,critiche strumentali a questo governo a parte(come se quelli del centro-sinistra avessero fatto meglio!) è sostanzialmente veritiera