guardate cosa ho ritrovato in archivio
un ritaglio de La Nazione circa del 2003/2004
INTERVISTA A ELENA CURTI, LA FIGLIA DEL DUCE
Giovanni Morandi
Mi parla di suo padre?
Mio padre è Bruno Curti e io mi chiamo Elena Curti.
Mi dica quale domanda potrei farle, perché lei possa rispondere?
Si dice che lei è figlia di Benito Mussolini. Perché si dice questo?
Si dice questo perché mia mamma ha avuto seri dubbi che io potessi essere figlia di Benito Mussolini e di ciò lo informò. A me, questo dubbio, che mi mamma mi ha esposto quando avevo già 18 anni, non mi ha fatto molto comodo, perché ero cresciuta pensando che la mia famiglia, e ancora lo penso, fosse la famiglia Curti. Al principio per me è stata una tragedia, adesso ho accettato questa realtà perché la vita è quello che è. Quindi mio padre è Bruno Curti e Benito Mussolini probabilmente è il mio padre naturale. Ed è stato buono con me, mi ha assistito negli studi, era contento di parlare con me.
Che cosa sente di avere in comune?
Certi lati del carattere, certe timidezze nascoste, che poi si manifestavano in atteggiamenti di vanità e di esibizione. Riconosco che in determinati casi anche io ho avuto questi atteggiamenti. L’educazione mi ha insegnato che dovevo essere un po’ più umile. Cosa che mi è costata molto e a un certo momento ero diventata anche troppo umile. Però è stato bello parlare con lui quando mi diceva che voleva sempre fare le cose in modo perfetto, che se aveva solo il sospetto che qualcosa non fosse andata bene, non ci dormiva la notte.
Lei è una persona così aperta che si fa fatica ad immaginare che abbia tentato di uccidersi. Che successe?
Mi misi a una finestra con una lametta cercando di tagliarmi i polsi. Ero con mia mamma in una pensione di Milano. Avevo trascorso cinque mesi in carcere.
In carcere lei venne trattata come una detenuta o come una preda di guerra sulla quale si potevano fare abusi?
Abusi proprio niente, per la verità.
Molte ausiliarie che erano con lei a Dongo vennero violentate e buttate nel lago.
Quando mi hanno portato in piazza mi hanno dato schiaffi, botte, mi hanno tagliato i capelli, però sono stata rispettata.
Mi racconta quel giorno, sono passati 60 anni, lei ne aveva 22. Quell’ultimo giorno con suo padre, Benito Mussolini. E’ stato quando a Dongo i partigiani dicono che faranno proseguire la colonna dei tedeschi ma non gli italiani e allora lui si traveste da tedesco, abbandonando gli italiani che erano con lui al loro destino. Che espressione aveva?
L’espressione di uno che sta facendo qualche cosa che non vorrebbe fare ma che deve fare.
E lei lo vede uscire dall’autoblindo nel quale lei rimane?
E con me gli altri che erano lì.
Che cosa ha pensato in quel momento? L’ha disprezzato?
L’ho odiato. Ma nello stesso tempo cercavo di capire. Credo di averlo capito, di averlo perdonato. Anche se non ho né da perdonare né da accusare nessuno. Va bene, l’ho capito.
Che c’è da capire?
Che gli sembrava di doverlo fare.
Perché doverlo fare?
E che ne so io. Avrà pensato che travestirsi da soldato tedesco per salvarsi sarebbe stata la cosa giusta non solo per lui ma per l’Italia, perciò doveva cercare di sopravvivere.
Ma quando lui accettò di indossare il cappotto da sergente e di mettersi l’elmetto tedesco la guardò negli occhi?
Non guardò nessuno, non ha guardato nessuno, è uscito senza girarsi.
Lei era sull’autoblindo con il Duce, il segretario del PNF, Pavolini, altri ministri e gerarchi che poi sarebbero stati fucilati a Dongo. Claretta Petacci era in un auto. Prima che i partigiani vi fermassero a Musso com’era stato il viaggio?
Mi ero incontrata con lui a Milano in piazza San Sepolcro e mi fa: “Anche Voi qui?”. Mi veniva da morir dal ridere, perché quando parlavamo insieme mi dava del tu ma di fronte agli altri dava del Voi, perché lui aveva istituito questa usanza, che nessuno poi rispettava, ma doveva dare l’esempio.
E durante il viaggio nell’autoblindo che vi siete detti?
Eravamo accanto e lui aveva una busta e non la fantomatica borsa di cui tutti hanno parlato. Era una busta e l’ha messa sulle ginocchia. Poi fa: “E’ una busta che contiene documenti molto importanti, che spiegheranno la verità di questa guerra e il mondo ne resterà stupito.” Dopo poco siamo stati fermati. Gli altri sono usciti e siamo rimasti dentro lui e io e abbiamo visto due partigiani che erano sulla montagna a fianco della strada, e lui mi ha avvicinato allo spioncino dicendo: “Vieni, vieni, guarda! Quei maledetti!”
Com’era quell’autoblindo?
Era un camion blindato, non era un autoblindo vero e proprio. Avevano messo delle lamiere di fianco e sopra. Era blindato fino ad un certo punto, perché c’era il buco di un proiettile, che era entrato.
Qual era stato il tono della conversazione fino a quando non siete stati bloccati?
Assolutamente tranquillo, lui era interessato, curioso, poi si innervosì con il tedesco che era andato a parlamentare con i partigiani e che non tornava più. Io sostengo che i tedeschi si misero d’accordo per consegnare Mussolini.
Lei sa che Mussolini fu preso grazie all’inganno del prete di Muso, che era un antifascista e che riuscì a bloccare la colonna dei tedeschi, spaventandoli dicendo che sulle montagne c’erano migliaia di partigiani, ed invece non era vero niente?
Può darsi. So di un prete infame, che ha raccontato che aveva parlato con Mussolini. Invece Mussolini è sempre stato lì con me, è uscito soltanto qualche minuto e l’ha aiutato Carradori, perché doveva fare la pipì, però dev’essere stato lì vicino, perché dopo un poco è ritornato.
C’era il famoso tesoro nell’autoblindo?
Qualcosa ci sarà stato. Queste cose le ho ricostruite dopo. Io avevo con me dieci stipendi, che erano stati dati a me come agli altri, quando ormai la fine della guerra era imminente. Poi c’era un pacco grande dove c’erano 4 milioni e quelli erano di Mussolini. Poi non so altro, così come non sapevo che in quella colonna c’era tutto il governo della nazione.
Ha visto fucilare i ministri e i gerarchi a Dongo?
No, li hanno fucilati il giorno dopo e hanno sparato talmente tanto che io, che ero tenuta prigioniera, credevo che fossero venuti i fascisti a liberare Mussolini.
Angela Cucciati, madre di Elena, conobbe Mussolini nel 1921, quando era deputato e direttore del giornale Popolo d’Italia che aveva sede a Milano. Andò da Mussolini per chiedergli il favore di intercedere in favore del marito, Bruno Curti, “ardito” che era stato messo in carcere perché accusato di aver preso parte all’aggressione di un professore antifascista. Così cominciarono gli incontri fra i due amanti e il legame durò fino al 1945.
Per lo storico Antonio Spinosa, Elena Curti nasce sicuramente dalla relazione tra Mussolini e Angela Curti Cucciati e quello fu il rapporto più lungo dopo Rachele. Lo dimostra la corrispondenza tra i due, che è conservata all’Archivio di Stato. Nelle lettere, Angela lo chiama “Benito” o “Primo del mio cuore”.
“Mussolini seguiva i miei studi. Mi regalava libri, a volte annotati, e tra le pagine trovavo anche somme non da poco”.
Angela sognava una carriera nel cinema per la figlia ma quando la informò del progetto, Mussolini inorridì e disse: “Elena è un fiore e non va sciupato!”. Elena, sostenuta dalla madre, aveva pensato di iscriversi alla facoltà di architettura ma ancora una volta il Duce sentenziò: “E’ una professione da uomini!”. Così Elena si iscrisse al corso di filosofia. Degli incontri a Venezia, Elena Curti dice: “Non mi ha mai intimidito nemmeno quando andavamo nella sala del mappamondo, che bisognava percorrere tutta, accompagnati dal segretario Navarra, per arrivare alla sua scrivania. A quel tempo io e mamma abitavamo in un appartamentino ai Parioli ed era stato Mussolini a dire alla mamma di trasferirsi a Milano. Mamma andava a Palazzo Venezia quasi ogni giorno e il capodanno del 1942 lui è venuto a casa nostra in incognito. Spesso telefonava la sera tardi.”
Nel 1943 Elena aderisce alla RSI. Prima lavora al ministero dell’economia corporativa, poi Mussolini la vuole alla direzione del partito.
“Mi disse “Sarai il mio occhio in quella sede””. Così ogni giovedì, in bicicletta, mi recavo da lui e gli portavo delle relazioni, che compilavo nella maniera più obiettiva e sincera. Erano resoconti che spesso cominciavano con lo stereotipo: “La gente dice…”.
A Dongo, Elena è con Mussolini nell’autoblindo che viene bloccato dai partigiani.
Venne salvata da Padre Pacifico Valugani, a cui lei aveva chiesto di voler condividere la sorte riservata ai ministri e gerarchi che erano stati arrestati con lei. Il frate si rivolse al famoso Capitano Neri (che poi sarebbe stato ucciso dai partigiani comunisti) chiedendogli esattamente il contrario, ovvero che la salvasse.