IL DIAPASON DEI CATTOLICI


Mai come in questi giorni consacrati alle festività cristiane è risuonato alto e forte l’appello alla pace da parte del Papa e dell’intero mondo cattolico: un appello con tutta evidenza mirato al conflitto Usa-Iraq, e dunque carico di significato politico. Il che è del tutto normale: moltissime altre prese di posizione della Santa Sede e della Chiesa rivestono, infatti, al di là della loro motivazione religiosa, un indubbio valore politico. La politicità dell’appello pacifista mi pare però che si distingua per il suo carattere fortemente radicale, carattere che a propria volta contribuisce a politicizzare non poco in senso radicale anche l'immagine stessa del Papa e del mondo cattolico in genere. Tanto più che la pace, preziosa oggi come sempre, è materia certo non attinente né a qualche dogma della fede né alla tradizione consolidata della Chiesa, e nella quale, quindi, sarebbe forse lecito aspettarsi una minore tendenza all’asseverazione e una maggiore varietà di punti di vista.
Complice anche la natura gerarchica della Chiesa proprio ciò, viceversa, non accade. Infatti, una volta che il Papa si è pronunciato a favore della «pace», pur non trattandosi certo di materia di fede, nessuno o quasi nel mondo cattolico manifesta un’opinione diversa o, non sia mai, contraria. Succede anzi l’opposto, e cioè che un gran numero di laici e di ecclesiastici si precipitino a rincarare la dose e in una ridda di marce, di veglie e di digiuni «per la pace» si arrivi addirittura, come hanno fatto i comboniani di Puglia, a cancellare «per protesta» la cerimonia della messa nel giorno dell’Epifania descrivendo la propria regione come «un avamposto militare che esporta guerra e genera morte» o a definire, come ha fatto padre Zanotelli, quello americano né più né meno che «un sistema di peccato e di morte». Da questo ulteriore inasprimento l’effetto di radicalità, come si capisce, non può che risultare enormemente accresciuto.
È la pronuncia pacifista papale, tuttavia, che già all’origine non riesce a liberarsi di un’immagine radicale. Anche qui a causa innanzitutto di un elemento di forte unilateralità. Certo, Giovanni Paolo II è attentissimo a misurare le parole, a distribuire i torti e le ragioni, per esempio a non disgiungere mai l’appello alla «pace» da quello alla «giustizia». Ma questi propositi di imparzialità sono destinati ad essere frustrati dal fatto che la voce del Pontefice non risuona certo sempre e con la medesima intensità per ognuna delle guerre del pianeta. Qualcuno ricorda ad esempio, per restare all’Iraq, pronunce papali paragonabili a quelle di queste settimane in occasione della decennale terribile guerra (un milione di morti) scatenata da Saddam Hussein contro l’Iran nel 1980? E i circa 200 mila curdi massacrati anche con i gas dallo stesso Saddam alla metà degli anni ’80 quante proteste sollevarono da parte della Santa Sede commisurate all’enormità del crimine? Del resto, più o meno la stessa domanda potrebbe porsi a proposito anche delle continue stragi di cristiani che da anni insanguinano l’Asia e l’Africa.
A dirla francamente, l’impressione insomma è che solo quando vi è di mezzo l’Occidente - e più in particolare gli Stati Uniti - solo allora la voce del Papa raggiunga il diapason e il mondo cattolico esprima il massimo di mobilitazione «a favore della pace». Già questo, mi sembra, configura una forte, oggettiva, unilateralità. Ma non basta, c’è un ultimo elemento da considerare: e cioè che l’unilateralità di un messaggio è anche determinata dalla sua ricezione; dal fatto, nel nostro caso, che delle prese di posizione del Pontefice e della Chiesa, anche delle più articolate, ad una parte del mondo arriva ciò che ai governanti locali fa comodo, e quando fa loro comodo. Ciò che finisce, appunto, con il rafforzare l’idea che la massima autorità spirituale dell’Occidente sia anche uno dei suoi più aspri critici.