Da "Avvenire" del 7 gennaio

I SANTI E LA FOLLIA
Tutta la sua vicenda si svolse a Verona, dove nacque nel 1873 nel quartiere povero di Santo Stefano. Parlava il dialetto meglio dell’italiano e sapeva incarnare lo spirito della sua gente. La scelta di occuparsi degli ultimi e dei diseredati, soprattutto dei ragazzi abbandonati sulla strada. Tutta la sua vita è un canto alla Provvidenza

Don Calabria, il santo dell'elettroshock

Fin da bambino aveva sognato di diventare sacerdote, era questo il suo «gioco» con i ragazzi e anche quand’era in casa. E la sua grande generosità lo aiutò a superare le difficoltà negli studi

Vittorino Andreoli

Premetto che parlare di don Giovanni Calabria mi riempie di emozione. È il santo di Verona, la mia città, e io l'ho conosciuto personalmente. Mia nonna era devota al fondatore dell'Opera «dei Buoni fanciulli» e mi portava i venerdì in cui il sacerdote riceveva a san Zeno in Monte, sulle colline veronesi in cui si trovava l'istituto. Assieme ad altre persone aspettavamo che il padre arrivasse, si intrattenesse a parlare, poi desse a tutti la benedizione. Era per me come attendere qualche cosa di magico, un personaggio delle fiabe. L'ultima volta avrò avuto 12 anni e ne ho un ricordo straordinario.

In vita era solito, ogni sera, benedire la città e adesso, in quella stessa posizione da cui impartiva la sua benedizione, domina una croce che - di notte - si illumina. Chiunque giunga a Verona, o guarda in alto, la vede ed è costretto a mandare un pensiero a questo prete, salito sugli altari.

Don Calabria nasce e resta sempre a Verona. Sarà uscito dai suoi confini due o tre volte: in una di queste fu per recarsi a Roma, da Pio XI, in udienza. È un santo che parla il dialetto della città meglio dell'italiano e incarna lo spirito della sua gente, fatto allora di povertà, benché oggi sia parte di un nord-est ricchissimo. E infatti don Giovanni sente il bisogno di occuparsi dei poveri poiché Verona era una delle città più indigenti, terra di pellagra che dava demenza e cretinismo legato ad una dieta composta soltanto di mais e di latte.

Qui nell'Ottocento sorgono molte iniziative della Chiesa a vantaggio dei poveri (don Nicola Mazza, monsignor Bertoni, don Antonio Provolo, Carlo Steeb, monsignor Comboni, Maddalena di Canossa, Teodora Campostrini) ed è qui che la Rerum Novarum di Leone XIII (1891) acquista tutto il suo significa di nuova visione sociale. Enciclica che non vede la povertà come un dono del Signore, ma come una malattia sociale che va combattuta, e a farlo - a Verona - sarà all'inizio la Chiesa e questi meravigliosi pr eti sociali, tra cui appunto don Giovanni Calabria.



La vita del prete

Nasce nel quartiere povero di santo Stefano l'8 ottobre 1873, ultimogenito di otto figli. Quattro moriranno, come avveniva spesso allora, per tubercolosi e tifo. Il padre era un ciabattino e la madre una casalinga che si doveva impegnare presso altre famiglie facendo pulizie, e soprattutto lavando e stirando indumenti. Quando il padre, Luigi Calabria, morirà nel febbraio 1886, Giovanni non ancora tredicenne deve andare a lavorare. L'ambiente è di povertà estrema dove il primo problema è la fame, e il cibo rappresenta la medicina per vivere. Segno inequivocabile di questo stato sono le condizioni fisiche del ragazzo che non rende nello studio, è distratto, spesso si addormenta, addirittura sviene: tutte manifestazioni di una vera e propria sindrome da iponutrizione. Una volta alla lipotimia seguono delle convulsioni che fanno temere per l'epilessia, ma sono correlabili con uno stato di ipoglic emia acuta.



Entra e rimane in seminario solo per la caparbietà di un sacerdote, don Pietro Scapini (professore di matematica nello stesso seminario), che diventerà più tardi il direttore spirituale di Giovanni Calabria. E' questi che si oppone al giudizio deciso e radicale su un giovane di scarse capacità intellettuali, tardo mentalmente. Giunto al liceo Giovanni si mostra refrattario alle questioni di teologia, incapace totalmente di apprendere latino e greco. Insomma, limiti di cui egli stesso ha consapevolezza, definendosi fin da allora e poi per sempre «zero e miseria». Le sole doti veramente eccellenti sono la bontà, la generosità, una sensibilità straordinaria per aiutare chiunque altro. E saranno proprio queste doti a sostenere tutta l'autorità di don Scapini per non farlo buttare fuori dal seminario, il che avrebbe infranto il sogno di Giovanni di diventare prete. Don Scapini ripeteva che nella Chiesa ci sono persone intelligenti ma poco generose; quell 'allievo, al c ontrario, era di una generosità estrema senza essere intelligente. E d'altra parte Giovanni diceva: «mi pare di essere nato prete», poiché tutte le sue fantasie, fin da piccolo, erano di indossare la veste del sacerdote. E la mamma ricorda che fin da ragazzino si era allestito nell'angolo della soffitta dove abitavano un piccolo altare, vi aveva messo un libro come messale e stava a lungo a giocare al prete, facendo genuflessioni e gesti sacri che riprendeva dalla santa Messa. Anche con i suoi coetanei giocava a fare il prete.

Finalmente il 15 agosto del 1901, giorno dell'Assunta, don Giovanni Calabria celebrerà la sua prima messa. Con quell'abito, che gli pareva di indossare da sempre, ora si dedica a ragazzi poveri, abbandonati sulla strada e li porta con sé, ne affida alcuni alla mamma che li tiene nella povera casa. Incomincia così una scommessa che ha del folle e dell'insipiente. Forma una famiglia di "buoni fanciulli" e affronta la sfida del loro mantenimento.

Tutta la storia di don Calabria è un canto alla Provvidenza. Non si tratta solo di affermare: «la c'è la Provvidenza» nell'espressione manzoniana; qui potremmo dire che non c'è altro, se non Provvidenza.

Ogni mattina, dopo aver celebrato la santa Messa, si recava nella portineria dell'istituto e chiedeva: «E' arrivata la Provvidenza?». E nel suo agire quotidiano era un continuo: «affidiamoci alla Provvidenza», «lasciamo fare alla Provvidenza», «preghiamo perché arrivi la Provvidenza». Il dipendere dalla Provvidenza significava per don Calabria rifiutare ogni rapporto con istituzioni ufficiali. Si narra che venuto a conoscenza che erano rimaste in cassa solo cento lire, a fronte di debiti di decine di migliaia, esce dall'istituto, percorre il sentiero attiguo alle mura austriache di Verona, nelle cui casematte trovavano rifugio le famiglie più diseredate, e distribuisce loro quel poco denaro. E spiega: «Come può la Provvidenza venire, se voi cercate il risparmio, nel senso dell' accumulo ? Solo se non abbiamo niente arriverà la Provvidenza». Non si doveva quindi chiudere la giornata avendo qualcosa da parte. E se nella circostanza citata era uscito lui stesso a distribuire il denaro ai poveri, risulta che alla sera sempre mandasse dei Fratelli in città a distribuire quanto rimasto.

Nel 1908 così il Padre sintetizzava le prime "sante Norme": «Quest'Opera viva interamente e totalmente abbandonata alla divina Provvidenza. Nessuno dei ragazzi paghi, sia assolutamente proibito ogni sorta di réclame; non conferenze, non pesche di beneficenza, non ringraziamenti pubblici. Iddio non ha bisogno di queste cose, e in quest'Opera, che è tutta Sua, Lui penserà… Se noi usassimo dei mezzi umani, l'Opera subito cesserebbe di essere di Dio, diventerebbe dell'uomo, e allora andrà avanti come una banca, come una casa commerciale che oggi fiorisce e domani fallisce… L'indole di quest'Opera è di non possedere nulla, di non mettere mai denaro a frutto; tutto quello che si ha e che D io manda si deve spendere e diffondersi».



È una concezione incredibile: una Provvidenza molto più sicura di qualunque sistema bancario. Una fiducia che, come tale, arriva a produrre in qualche modo l'evento e rinsalda sempre più il legame. Provvidenza è, prima di tutto, non avere. La Provvidenza come antitesi alla certezza del sostegno. Tutto è Provvidenza nella concezione di don Calabria. È Provvidenza anche il dolore.

Fratel Vittorino, segretario personale di don Calabria negli ultimi dieci anni, racconta che spesso veniva mandato a bussare al Tabernacolo per chiedere direttamente a Dio che cosa si dovesse fare. Ordine che puntualmente eseguiva, per poi ritornare a riferire al Padre. E per rendere questi riferimenti meno "folli" si deve confrontarli con altre follie, questa volta del Vangelo, laddove la perfezione è il vendere tutto quanto si possiede e darlo ai poveri, è l'esortazione a non preoccuparsi per cibo e vestimento prendendo esempio dagli uccelli dell 'aria e dai gigli del campo. Insomma, quello che lui chiamava «il Vangelo vivente».



Gli ultimi anni

Nel tema di cui ci occupiamo, il rapporto tra follia e santità, don Giuseppe Calabria ha un posto particolare. È a tutti gli effetti parte della follia, almeno per gli ultimi quattro anni di vita, quando non soltanto fu valutato da psichiatri, ma ebbe indicazione di ricovero in luoghi dediti ai disturbati mentali, gli furono applicati degli elettroshock, che certo a quel tempo rappresentavano una terapia forte, destinata ai gravi malati di mente. Insomma, era dentro la follia. Io parlo con entusiasmo di questo fatto, poiché amando i matti, sento di voler ancor più bene a don Calabria come santo matto. Una maniera di essere ultimi veramente. Forse don Giovanni non lo era, santo, prima di diventare matto, prima cioè di essere posto sul lettino, tenuto immobile, con due elettrodi fissati alle tempie a 120 volt che gli attraversano il cervello.

È questa la sorte che è toccata a tanti malati, agli ultimi fra i malati, i malati di mente, quelli in gran parte abbandonati in manicomio. E sarà proprio il direttore del manicomio di Verona, del San Giacomo della Tomba, a decidere quella "terapia". Apprezzo molto che nell'ultima biografia ufficiale, di M. Gadili, nel capitolo XXV egli parli di elettroshock, ne dia un diario, seduta per seduta. Prima non se n'era mai parlato ufficialmente.

La vicenda cui facciamo riferimento va dal 1950 alla fine del 1954, quando don Giovanni muore. È il periodo dei medici. Il 15 giugno 1950 fratel Consolaro, che era medico personale di don Calabria, espresse il suo giudizio clinico: «Il padre soffre di una forma senile arteriosclerotica». Il 5 settembre 1950 un consulto di psichiatri diagnostica: «Forma depressiva malinconica» (che, tra le depressioni, è la più grave clinicamente). Il 6 maggio 1951 gli viene "sparato" il primo elettroshock, ne seguiranno altri tre (9 maggio, 13 maggio, 16 maggio).

Don Giovanni Calabria nonostante brevi periodi di ripresa rimarrà dentro la malattia, che va vista anche come luogo delle sofferenze estreme poiché si manifesta con un senso di indegnità, un'incapacità a fare qualunque cosa di utile, paura di essere vittima del demonio e dunque del peccato. Si racconta il dramma della celebrazione della santa Messa, con interruzioni di pianti sconfortanti, dichiarazioni di non essere capace, di offendere addirittura il Signore. Celebrazioni che talora duravano sei-sette ore, con l'assistenza dei suoi Fratelli che lo sostenevano per combattere questa patologica scrupolosità. Dal punto di vista clinico, dunque, erano affiorate una diagnosi di sclerosi cerebrale, una di depressione melanconica e, proprio per questo comportamento ossessivo e scrupoloso, una di neurastenia.

Padre Natale, suo direttore spirituale, riferisce che don Calabria era preso dalla paura di peccare, di dire parolacce, sentiva nella propria mente bestemmie che non poteva dominare, tan to che a volte credeva di averle pronunciate veramente: tutta una serie di coazioni che lo portavano a impiegare formule intese a evitare questa forma di pensiero. La concentrazione meditativa acuiva gli anancasmi e, in particolare, il terrore di peccare, tanto che si recava subito da padre Natale e voleva continuamente confessarsi. Insomma, il quadro è quello anche di una condizione ossessivo-compulsiva.

Nella biografia ufficiale il Gadili scrive: «La giornata era un continuo alternarsi di preghiere, nonostante fosse sempre tormentato da dubbi e scrupoli… Si sentiva abbandonato da Dio, diviso da lui come da un muro insuperabile. Riteneva di aver rovinato l'Opera, di non aver cercato che se stesso. Si sentiva dannato, gli sembrava di udire una voce che gli diceva: "Sei dannato, per te non c'è altro". Diceva ancora di sentire la bocca "piena di brutte bestemmie"».



In questa storia il problema non è tanto se si possa escludere una patologia mentale e legg erla in termini spirituali, quanto decidere quale delle forme richiamate è la più grave: la sclerosi cerebrale, la depressione oppure la sindrome ossessivo-compulsiva. Una dimensione tuttavia che non mi pare di grande interesse per il nostro tema. Nell'ambito del rapporto follia-santità è certo che don Giovanni Calabria è un malato di mente, almeno negli ultimi quattro anni della sua vita, fino al 4 dicembre 1954, alle ore 1, quando muore.

Mi pare che siano anni in cui il dolore, la sofferenza raggiungono la passione. Una purificazione che passa attraverso una vicenda umana, espressione ultima, la più grave e povera possibile: quella della sofferenza mentale. Si legge nella biografia: «Le sofferenze, che si manifestarono negli ultimi anni, rivelavano una purificazione interiore, un'offerta come vittima in riparazione dei peccati, un prezzo da pagare per il consolidamento dell'Opera e un pegno per la vittoria futura del bene. Forse le cause profonde della sua malattia dobbiamo cercarle in questa sua macerazione spirituale».

Comunque sia, è la storia di un santo da manicomio che dà significato alla sofferenza anche di tutti quei malati che sono e sono stati abbandonati in un manicomio, dentro il buio della follia. Attraverso don Giovanni Calabria il dolore della follia acquista un senso, che forse va oltre quello umano, nella mia considerazione altissima, pur di non credente. Sono ancor più fiero dei miei matti e voglio più bene a questo santo perché sa cosa sia la follia, non avendola visitata ma vissuta e sofferta.





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