Messina, 202 cause arretrate ogni mille abitanti
Il degrado della giustizia nella «città del verminaio». Il fascicolo più vecchio ha appena compiuto 50 anni


Un’idea sarebbe quella di seguire il sistema di Santo Domingo de la Calzada, «donde cantò la gallina despuès que asada»: se la gallina già arrosto manda un coccodé sei innocente, se resta muta nel tegame tra l’aglio e la salvia sei colpevole. Giustizia medievale? Certo: mica per altro è una leggenda del Camino de Santiago. Ma venite a Messina e rispondete: è meno medievale tirare in lungo un processo per decenni? Il fascicolo più vecchio, un’eredità contestata, ha appena compiuto 50 anni: venne aperto nel 1953, l’anno della morte di Tazio Nuvolari. Nel frattempo sono defunti quelli che l’avevano promossa, i giudici, gli avvocati... E ogni volta tutto ricomincia da capo. Contribuendo ad alzare la mostruosa montagna di cause civili arretrate e pendenti che ormai sono 202 ogni mille abitanti: quasi il quadruplo della media nazionale, undici volte più che a Lecco o a Sondrio. Per non parlare dei processi penali: il maxi-processo «Mare Nostrum» contro 269 imputati accusati di rappresentare il peggio della mafia più aggressiva è stato aperto addirittura nel 1998, si è già trascinato per 84 udienze, viene gestito da un giudice avuto in prestito da Palermo perché dopo un indecoroso tira e molla «nessun magistrato messinese ha voluto assumere la presidenza del collegio» (parola del procuratore Luigi Croce) e a questo punto, spiega lo stesso magistrato, «non è ragionevolmente prevedibile la data di conclusione del processo». Sempre che, arrivato alla fine, non venga fatto saltare con la «Cirami». Come è già accaduto al processo d’appello «Peloritana 1» (24 omicidi più delitti vari) sospeso un mese fa, grazie alla legge varata dal Parlamento per il processo Imi-Sir, quando già c’erano state la requisitoria e tutte le arringhe, meno due, degli avvocati difensori. «Ormai la Cirami è buona per tutto», ride amaro Franco Cassata, che sconvolse la città con la sua inchiesta sulla truffa sui farmaci. «Un avvocato è arrivato a invocarla per un imputato che aveva insultato un carabiniere: dice che siccome i magistrati di qui sono amici dei carabinieri... E di chi dovremmo essere amici: dei fuorilegge?».
Eppure pareva che questa Messina, dove puoi vedere forse il punto massimo di degrado del nostro sistema giudiziario, fosse diventata davvero un paio d’anni fa una delle emergenze italiane. L’allora presidente della commissione antimafia Ottaviano Del Turco denunciava che la città era «un grumo di interessi». Il suo vice Niki Vendola parlava del Palazzo di Giustizia, dove lavoravano magistrati poi finiti in manette quali Giovanni Lembo o Marcello Mondello, come di un «verminaio». I Guardasigilli mandavano giù gli ispettori a raffica. I giornali erano pieni di inchieste sui rapporti tra il sottosegretario agli Interni Angelo Giorgianni, e personaggi oscuri come Domenico Mollica, un imprenditore che per il pentito Angelo Siino era «il terminale della mafia a Messina». E perfino uno come Gianfranco Micciché, che coi suoi di Forza Italia è un garantista biturbo, bollava la deposizione di Vincenzo Romano, il giudice accusato di avere cercato di imboscare l’inchiesta sui farmaci che coinvolgeva i fratelli del rettore Diego Cuzzocrea, cognato del procuratore Antonio Zumbo, così: «Un qualsiasi altro testimone ascoltato da una qualsiasi procura italiana sarebbe stato arrestato per reticenza».
Pareva allora che fosse stato raccolto il grido di allarme della gente perbene, di destra e di sinistra, contro la spaventosa deriva di una città e di una provincia che un tempo avevano la fama di essere «babbe» ed estranee alla tradizione mafiosa ma che via via sono diventate il crocevia degli interessi della ’ndrangheta e della mafia. Pareva che fosse stata ascoltata la denuncia del questore Giuseppe Zannini Quirini: «A Trapani, a Palermo e in tante altre città della Sicilia individui subito chi è il nemico, lo sai riconoscere. Qui no. Qui a Messina i contorni sono molto più sfumati. E’ difficile separare il mondo del Bene e del Male».
Pareva che alcuni episodi incredibili per una università, come la gambizzazione di certi docenti, gli attentati contro altri o l’uccisione del professor Matteo Bottari, genero dell’ex rettore Guglielmo Stagno d’Alcontres e pupillo del nuovo Diego Cuzzocrea, avessero spinto Roma a investire tutti i soldi, gli uomini e i mezzi possibili su Messina per estirpare la cancrena.
Ma non è stato così. Basti dire che a Roberto Castelli, forse troppo impegnato a riscrivere i codici nella scia di Giustiniano, viene rinfacciato d’essere il primo ministro della Giustizia a non aver mai sentito il bisogno di venire quaggiù a vedere di persona. E sì che di cose da vedere ce n’è diverse.
Forse niente rappresenta meglio la cancrena del sistema giudiziario quanto Messina. A partire dal Palazzo di Giustizia. Il nuovo, progettato nel ’67 quand’era guardasigilli Oronzo Reale, è finanziato da tempo ma evidentemente non c’è mai stata una soddisfacente spartizione degli appalti perché non è mai stato dato neppure un colpo di pala. Il vecchio, che un cartello dice essere piaciuto assai all’architetto hitleriano Albert Speer, cade a pezzi (tranne l’elegante sede dell’Ordine degli avvocati), i muri sono scrostati, gli armadi ricolmi di fascicoli mummificati e tutta la procura ordinaria lavora negli sgabuzzini catacombali dello scantinato. Quanto alle infrastrutture, Luigi Croce (che come collaboratore tra i più stretti di Giancarlo Caselli fu mandato qui per «dare una ripulita») denuncia: «A dicembre siamo impazziti anche per recuperare la carta per le fotocopie». Recuperata? «Non le dico come sennò ci arrestano».
Croce, sotto la pressione degli scandali a catena, è stato dotato di 20 pubblici ministeri (teorici: in realtà ne ha 16) e dice che il suo ufficio comincia a funzionare. Solo che «tutto poi va a infognarsi in due strozzature: l’ufficio dei Gip e il Tribunale». «Siamo solo sei e non ce la facciamo a star dietro alle inchieste», spiega il giudice per le indagini preliminari Carmelo Cucurullo. «Guardi quegli armadi: tutti fascicoli che non ho tempo di aprire». Quelli che superano il primo imbuto si bloccano nel secondo: le due sezioni del «penale» che riescono a smaltire solo parte dei processi in arrivo. Risultato? Un disastro. E tutto mentre, urla la relazione della Procura per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, «la criminalità organizzata, lungi dal placarsi, continua sempre di più a penetrare nel settore economico, specie degli appalti e dei servizi, talora sostituendosi agli imprenditori con atti di violenza». Un quadro fosco di una realtà fetida, dove non si riesce a «distinguere tra vittime, favoreggiatori e complici, essendo i loro ruoli in continua evoluzione e intersecandosi tra loro».
«Troppo pochi siamo! Troppo pochi!», sospira il presidente del Tribunale, Giuseppe Suraci. E racconta di un fascicolo che lui stesso istruì quando stava a Milazzo nel 1959 e si è «ritrovato sul tavolo nel 1999», e di giudici «prestati tutti i giorni dal "civile"» per tappare questo o quel buco e di magistrati stakanovisti che «arrivano a fare 340 sentenze l’anno» e di «un carico di 1.700 cause per ogni giudice nonostante gli ispettori ministeriali abbiano detto che la quota pro capite dovrebbe essere di 400» e di «una cronica insufficienza di cancellieri e di personale amministrativo» arginata dalla «grandissima professionalità dei colleghi» grazie ai quali «si può dire che quello di Messina è in realtà il Tribunale più efficiente di tutta l’Italia. Ripeto: il più efficiente d’Italia!».
Una tesi fantasiosa. Che al presidente degli avvocati Francesco Marullo strappa un sorriso irritato: «Ma se abbiamo organizzato proteste di ogni genere, scritto senza avere mai risposte al Csm, comperato perfino pagine sui giornali per denunciare le lentezze insopportabili di questa macchina arrugginita!». «Sa quanto ci vuole a volte per ottenere un’udienza dopo un licenziamento? Un anno», accusa Alberto Ciccone. «Dico: c’è qualcosa di più urgente di un processo contro un licenziamento ingiusto? Bene: ci vogliono cinque anni, per avere una sentenza. Cinque anni!».
Quanto alle carenze di personale, diciamolo, è una scusa buona per tutta l’Italia. Ma quaggiù, casomai, meno che altrove. Dice l’ultima inchiesta del Sole 24 Ore che tra tutte le 103 città italiane Messina è 33° (per capirci: 70 provincie stanno peggio) per criminalità giovanile, 36° per case svaligiate e a metà classifica (60° alla pari con Varese) per minori denunciati. Insomma: sulla carta non pare manco assediata come altre realtà del Sud dalla delinquenza spicciola che gonfia il lavoro della magistratura. Di più: nel 2001 l’intero distretto è stato caricato di 35.495 nuovi procedimenti civili, cioè una causa ogni 18 abitanti. Tantissime. Ma meno, per esempio, di quelle arrivate a Napoli: una ogni 16. E in ogni caso a Messina, solo per fare un esempio, c’è un ufficiale giudiziario ogni 4.916 abitanti: quasi il doppio della media nazionale (uno ogni 8.405) e il triplo che a Venezia (uno ogni 13.795) o a Brescia (uno ogni 15.221). Un rapporto che diventa ancora più sfalsato, stando alle piante organiche studiate dall’Ordine degli avvocati di Vicenza, nell’esame del personale amministrativo: un dipendente ogni 2.690 abitanti a Brescia, ogni 2.414 a Venezia, ogni 2.030 a Bologna, ogni 1.435 in Italia e ogni 872 a Messina. Per non parlare dei magistrati che... Ma ne parliamo a parte.

Gian Antonio Stella




Il caso di Mistretta: 33,7 magistrati ogni 100 mila residenti. In ritardo anche i procedimenti di pace: 481 giorni di durata contro una media nazionale di 286
Ma ci sono tribunali che hanno un numero di giudici sei volte superiore a Vicenza
«Infiltrazioni mafiose a Mistretta? Di nessun rilievo»

La criminalità? Senza «particolari connotazioni». L’allarme sociale? «Modesto». La devianza giovanile? «Sporadica». Infiltrazioni mafiose? «Di nessun rilievo». A leggere il rapporto di Francesco Deodato, presidente del tribunale locale (uno dei quattro della provincia messinese), Mistretta e il suo circondario sono una bucolica riserva di pace e serenità. Eppure è qui che puoi vedere la cecità della macchina giudiziaria italiana. Lo dice un’elaborazione, sui dati ufficiali del ministero di Via Arenula, compiuta dagli avvocati vicentini: in tutta Italia ci sono 11,7 giudici (penali o civili, inquirenti o giudicanti) ogni 100 mila abitanti. Ma le sproporzioni sono allucinanti: la quota precipita infatti a 7,7 a Perugia o 7,1 a Como fino a 5,4 a Vicenza per impennarsi fino a 15,8 a Nuoro, a 18,7 a Palermo, a 19,9 nell’intero distretto di Messina. Con una punta nella paciosa Mistretta di 33,7. Il che vuol dire che la dotazione di magistrati è qui non solo sei volte superiore a quella di Vicenza (5,4) ma è tripla perfino rispetto a realtà calde come Brindisi (12,1), bollenti come Sciacca (11,4) o incandescenti come Santa Maria Capua a Vetere (12,5), dove i magistrati sono da anni sul piede di guerra perché non ce la fanno a reggere l’urto di una delle province più difficili d’Italia, Caserta. Tanta abbondanza di giudici (ci sono anche due coppie marito-moglie e una padre-figlio: viva la famiglia) sembra tuttavia inutile. Certo, quelli in servizio effettivo sono meno di quanti figurano sulla carta, ma è così in tutti i Palazzi di Giustizia italiani. Anzi: c’è chi sta peggio. Eppure non esiste classifica in cui la città e la provincia non siano nelle posizioni di testa. Con un 85° della popolazione italiana, il distretto peloritano ostenta infatti un 27° (più o meno come Genova e Palermo, che però sono grandi il triplo) di tutti i processi civili pendenti nazionali. Col risultato che, stando all’ultima tabella elaborata dal «Sole» (le cose migliorano in appello, dove peggio della città peloritana stanno in otto, da Reggio Calabria a Venezia a L’Aquila), i tempi messinesi sono biblici. E’ vero che il peggiore è quello di Palmi (una media di 1.932 giorni per smaltire un procedimento) ma i tribunali dello Stretto si piazzano in tre nei primi otto posti con Barcellona Pozzo di Gotto (seconda: 1.446 giorni), Messina (terza: 1.365) e Patti (ottava: 1.173). Contro una media italiana di 597 giorni che scendono a Cuneo a 206 e a Rovereto a 204. Il che, secondo i dati ministeriali, fa del distretto di Messina il peggiore in assoluto con una media di 1.307 giorni per causa civile: il quadruplo di Torino (320) e il quintuplo di Trento (213).
E i giudici di pace? Saranno riusciti almeno loro, nati da pochi anni senza arretrati, a stare al passo col resto d’Italia? Macché: spiega uno studio di Gabriele Longo che non solo Messina è sempre stata la lumaca del Paese (pur avendo «un carico di lavoro esattamente uguale alla media nazionale»!) ma la durata media di un processo in riva allo Stretto è aumentata via via di un paio di mesi l’anno: da 241 giorni del 1996 a 481 oggi, contro una media nazionale di 286. Il doppio di Lecce (250) e il triplo di Torino (140) o Trento (136).

G. A. S.