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Vita di Raimondo de' Sangro
"Questo signore è di corta statura, di gran capo, di bello e gioviale aspetto. Filosofo di spirito, molto dedito nelle meccaniche, di amabilissimo e dolcissimo costume, studioso e ritirato, amante la conversazione di uomini di lettere".
Così l'illuminista napoletano Antonio Genovesi delinea i tratti fisiognomici, morali ed intellettuali di Raimondo de' Sangro, settimo principe di Sansevero; un personaggio popolare e, tuttavia, poco conosciuto, il cui nome è indissolubilmente legato ad uno dei monumenti più famosi e, certamente, più visitati di Napoli, la Cappella sepolcrale di famiglia nel cui progetto iconografico egli fu personalmente impegnato e per la cui realizzazione impiegò, nell'arco di circa tre decadi, artisti di cultura ed esperienza europea.
Il principe di Sansevero fu più che un intelligente committente ed un audace sperimentatore, attratto addirittura da pratiche ai confini del lecito, come vorrebbe di lui la fantasia popolare. Egli fu scienzato, uomo di lettere e figura di spicco nel panorama militare e politico di una Napoli che, ancora, a cavallo tra vicereame austriaco e dominazione borbonica, viveva un grande fermento. La sua vicenda umana offre una angolazione inconsueta per affacciarsi sui complessi scenari della vita politica e culturale nell'Europa dell'Età dei Lumi.
Raimondo de' Sangro, VII Principe di Sansevero, nasce il 30 gennaio 1710 a Torremaggiore, in provincia di Foggia, da Antonio de' Sangro e da Cecilia Gaetani d'Aragona, rampolli di famiglie di antichissimo lignaggio. Sia i Sansevero che i Gaetani vantavano ascendenze risalenti al medio evo, un'eredità che li poneva in una posizione di autonomia rispetto alle varie dominazioni succedutesi a Napoli. Non vi è dubbio che la complessa personalità di Raimondo fu influenzata dalle tragiche vicende dei genitori e forgiata dal contesto di grandeur delle due famiglie di origine.
La madre Cecilia, morta quando il Principe aveva appena un anno, era figlia di Aurora Sanseverino e Nicola Gaetani, intellettuali, mecenati di filosofi e di artisti come Vico e Solimena, e protettori di una certa intellighenzia napoletana che si era fatta portatrice di un rinnovamento, sia nel campo letterario sia in quello scientifico, che nei primi anni del '700 poteva apparire rivoluzionario.
Il ramo paterno, di tradizione militare, annoverava numerosi condottieri al servizio dell'esercito spagnolo lungo tutto l'arco del vicereame. Ma è soprattutto nel periodo della dominazione austriaca (1705-1734) - quando, in seguito alla morte di Carlo II di Spagna, Napoli venne ceduta agli Asburgo - che la famiglia de' Sangro divenne particolarmente potente. Come si legge sulla lapide del mausoleo che Raimondo innalza al nonno nella Cappella, Paolo de' Sangro si era guadagnato il titolo di Grande di Spagna, di prima categoria, per sé e per i suoi discendenti maschi, oltre a tutti gli incarichi ufficiali presso la corte.
La figura del nonno paterno ha un ruolo fondamentale nella formazione di Raimondo, poiché è alle sue cure, cui era stato affidato da piccolissimo, che si deve lo sviluppo intellettuale del Principe e il suo amore per la ricerca. Dopo la morte della madre, infatti, il padre abbandona il figlioletto e conduce una vita dissipata tra Napoli e Vienna, spezzata da una conversione che lo porterà a diventare abate.
Per assicurare a Raimondo un'educazione all'altezza del suo rango, il nonno lo invia a Roma, a studiare presso il Collegio dei Padri Gesuiti: una scuola severa e prestigiosa dove il giovane ha modo di entrare in contatto con una cultura di orientamento sia umanistico che scientifico, manifestando inclinazione per l'una e l'altra branca del sapere.
Nel 1730 Raimondo ritorna a Napoli, dove la sua vita scorre frenetica fra intensi studi ed osservazioni di fenomeni scientifici e naturali, impegni politici (è in questo periodo che inizia ad avvicinarsi alla massoneria) e militari. Si dedica intensamente pure all'editoria, dando alle stampe, con una particolare macchina di sua invenzione, diversi libri di contenuto massonico-occultistico.
Anche la conservazione ed il restauro delle sue proprietà rientrano nei suoi mille interessi, infatti fin dal 1735 si adopera per il rifacimento di alcune parti del Palazzo avito, sito in piazza San Domenico Maggiore, forse cogliendo l'occasione dell'arrivo a Napoli della cugina Carlotta Gaetani d'Aragona, che egli aveva sposato per procura cinque anni prima. Lo si apprende da un documento dell'epoca, il quale recita che il 19 febbraio del 1735 furono pagati:
« quaranta ducati a Don Raimondo de' Sangro e per esso a Gaetano Spallino capomastro fabbricatore del grezzo di pozzolana lapillo et acqua comprata per servizio di detto Suo palazzo, e piombo comprato per coprire l'"appennato" del balcone della camera della Fenice. »
Questa testimonianza è utile non solo per ricostruire la cronologia degli interventi di restauro sul palazzo Sansevero, ma anche perché ci fa conoscere l'esistenza di un'ambiente che era utilizzato da Raimondo per i suoi esperimenti di chimica: la Camera della Fenice. Uccello sacro e favoloso degli egiziani, la fenice è un simbolo alchemico: combinazione ideale di significati per il giovane aristocratico, desideroso di avvolgere in un alone di mistero la sua attività scientifica.
Nel 1744 dà inizio ai lavori di ristrutturazione della sua Cappella gentilizia, cui presero parte artisti di levatura europea che, sotto la guida e lo stimolo del Principe, riuscirono a esprimere in maniera unica e sorprendente il pensiero del committente. Il Principe, infatti, voleva che i gruppi scultorei presenti nella sua Cappella contenessero un particolare "messaggio" allegorico di chiaro stampo massonico-occultistico e che fossero rappresentativi del suo modo di essere e di pensare.
I lavori nella Cappella durano per circa trenta anni, dando vita a quello splendido monumento che tutti noi possiamo ancora ammirare, e terminarono poco prima della morte del Principe, il quale si spense il 22 marzo del 1771, nel suo palazzo in piazza San Domenico Maggiore. Gli vennero tributate solenni onoranze funebri, come ricordano alcuni documenti relativi all'allestimento del suo catafalco:
« In nome e in parte dell'odierno principe di Sansevero don Vincenzo de' Sangro - don Ludovico Cavallo, amministratore della casa, paga 12 ducati a francesco Luciano - in soddisfazione così dell'affitto di cassa e coltre di velluto blù ricamata d'argento e d'oro, della berretta indorata nuova e cuscino ricamato e quattro splendori d'argento per li funerali e castellana del principe don Raimondo de' Sangro, come altresì per qualsivogliano fatiche di beccamorto. »
La castellana ornata di 390 cere lavorate, fu allestita nella sua chiesa sepolcrale e gentilizia di Santa Maria della Pietà accosto al suo palazzo.
Il corpo doveva essere tumulato nella tomba che lui stesso s'era costruito, nel mausoleo di famiglia; ma, ultimo colpo di scena di un personaggio a ragione o a torto condannato ad essere misterioso, una leggenda vuole che le ossa del principe non trovino riposo nella Cappella...
Le Meraviglie
Un episodio, ricordato dallo stesso principe in una nota autobiografica che accompagna la Lettera Apologetica, opera che costituisce la vera summa delle sue conoscenze e della sua filosofia, è esemplare dell'eclettico talento del giovane aristocratico e della sua propensione per ogni forma di spettacolarità.
Nel 1729 si manifestò la vivacità dello spirito di Raimondo: presso il Collegio dei gesuiti si voleva organizzare un festeggiamento per la nascita della figlia di Carlo VI d'Austria, Principessa Maria Amalia. I padri gesuiti pensarono di utilizzare il cortile grande del Seminario sia per allestirvi delle rappresentazioni teatrali che per farvi esibire in giostre cavalli e cavalieri. Il problema era, dunque, quello di realizzare un palco mobile adatto per il teatro che potesse essere rapidamente smontato per dar spazio alle giostre. Gli ingegneri avevano proposto soluzioni piuttosto complesse che prevedevano l'intervento di numerosi uomini di fatica.
Anche il diciottenne Sansevero presentò un progetto che si rivelò il più funzionale di tutti:
«...con l'opera di argani, ruote e corde, tutto nascosto alla vista degli spettatori, senza neppure apparirvi uomo che le tirasse, si vide subitamente ritirare il gran palco; quando dovettesi dar luogo per la Cavalleria, e quindi, sollevandosi nel mezzo, e restringendosi l'una metà e l'altra nel terreno, pendenti a forma di Libro, rimase in pochi istanti tutto ristretto e ridotto nel piccolo spazio di tre soli palmi e appoggiato agli archi inferiori della facciata; onde rimase libero il cortile d'ogni benché senza alcun inpedimento all'uso del Cavalcare; di che pur ora durano le stupende ricordanze, e come di un portento ancor se ne parla, e ancor si continua a farne le meraviglie.»
L'episodio, oltre che dell'ingegno del principe, è testimonianza di due aspetti del suo "personaggio". Benché nobile, non disdegnava di applicarsi a un'attività per così dire tecnologica, impegnando la sua fertile mente nell'ideazione di un apparato da festa. Con un'altra eccezione soltanto, il duca Ferdinando Sanfelice, fratello del famoso cardinale Antonio e architetto di alcuni dei palazzi più belli del rococò campano, mai nessun nobile napoletano aveva ritenuto convenevole dedicarsi ad arti cosiddette "meccaniche".
Raimondo rompe questa barriera di "casta" mettendosi su una strada che lo porterà a fare i più diversi esperimenti, talvolta anche con ricadute utili al viver quotidiano: inventare ad esempio una specie di stoffa impermeabile e finanche un modo più semplice per stagnare le pentole di rame.
L'allusione alla "meraviglia" che quel "portento" aveva destato nei presenti, ci introduce in quell'atmosfera di "magia" che, ricercata dal principe stesso, finirà per accompagnare il suo personaggio, ingigantita e deformata dalla supertizione del popolo: un'aura alimentata da un lato dall'orgogliosa certezza della propria superiorità e dall'altro amplificata dalla mediocrità di interlocutori capaci di scambiare per portenti le sue conoscenze e le sue realizzazioni nel campo della scienza e della tecnica.
A quell'epoca, infatti, queste discipline erano coltivate da pochissimi uomini, e spesso a rischio della propria incolumità personale: non soltanto perché essi conducevano degli esperimenti potenzialmente pericolosi per la quasi totale assenza di conoscenze e di metodiche sperimentali, ma soprattutto perché, indagando il mondo della natura, questi pionieri venivano a trovarsi in conflitto con le "verità assolute" della Chiesa.
Ma il Raimondo scienzato non sapeva rinunciare alla spettacolarità e alla meraviglia. Si narra che un giorno egli costeggiasse il golfo di Napoli con una carrozza marittima mossa senza l'impiego di alcun rematore.
Uno scherzo del principe? Forse, ma comunque ben curato nei dettagli tecnici, infatti la carrozza è mossa da un sistema di pale rotanti che sostituiscono le ruote tradizionali.
Un'ulteriore prova del desiderio di "meravigliare" furono le ricerche condotte dal principe nel campo della pirotecnica, mettendo a punto metodi e formulazioni fino ad ottenere i più vividi e brillanti colori che mai si erano visti nel reame. Tuttavia, nel dedicarsi ad un'attività tipica del mondo alchemico di tradizione rinascimentale, Raimondo non si dedicava con lo spirito dello stregone ma con l'accanimento e la logica dello scienziato, annotando i passi e i risultati di volta in volta raggiunti, e come tale si proponeva di scrivere un trattato di pirotecnica,
«...nel quale svelandosi quanto finora ha di ignoto e di nascosto la divisata Arte, si toglierà finalmente la maschera a tutti que' segreti, che con tanta gelosia si custodiscono, e de' quali piace ad alcuni farne tal mistero, che né pure le curiose richieste de' Sovrani né rimangono soddisfatte.»
Dopo gli studi romani Raimondo riprende a Napoli intorno al 1730 le sue ricerche e i suoi esperimenti, realizzando una serie d'invenzioni di pratico utilizzo. Tra le invenzioni del Sansevero una menzione particolare merita il grande orologio con carillon, ancora descritto nella Lettera Apologetica. Perfettamente al corrente con la moda corrente degli orologi meccanici decorati con automi che, azionati da complicati congegni, simulavano i movimenti di animali e di uomini, Raimondo ne aveva costruito uno e lo aveva posto sul ponte di comunicazione tra la Cappella e il Palazzo di famiglia che ancora oggi si affaccia su Piazza San Domenico.
Anche in questo caso Raimondo si riallaccia alla tradizione della costruzione di automi. Una tradizione antichissima, che aveva avuto un grande revival nel Cinque e Seicento quando gli apparati da festa e tutta la cosiddetta architettura effimera, il gusto per l'artificio e la meraviglia presero ad alimentarsi dei più disparati accorgimenti, frutto della fantasia di artisti come Leonardo e Bernini. Con i suoi marchingegni Raimondo non fa altro che mettersi nella scia di questi inventori che già da due secoli erano riusciti a suscitare un alone di stupore per quelle loro realizzazioni: macchine che oggi possono apparirci come dei giocattoli d'altri tempi ma che allora dovevano sembrare qualcosa di prodigioso e forse anche di diabolico per quel non so che di straordinario che in qualche modo rompeva il tradizionale ordine della Natura.
La Massoneria
Il principe aderì alla Massoneria nel 1744 e vi fece parte fino al 1751, anno in cui Benedetto XIV e Carlo III di Borbone tentarono di porre fine alla attività delle logge napoletane.
Le prime logge napoletane si erano formate dopo l'introduzione dei principi massonici nel regno, al tempo del vicereame austriaco verso la fine del '600, da parte di elementi del ceto militare austriaco. La fonte più antica a riguardo è un manoscritto conservato nell'archivio della Società Napoletana di Storia Patria, redatto nella prima metà del '700, in cui si parla di logge attive a Napoli fra il 1749 e il 1951.
In un altro manoscritto il Principe di Belmonte si riferisce alle logge napoletane:
«I Liberi Muratori sin dal tempo di Carlo III si erano introdotti a Napoli, ma vi si mantenevano in maniera nascosta, e ristretti fra solo forestieri, che sotto un altro pretesto si radunavano. Da principio vi furono ammessi un piemontese, di mestiere acquavitaro, ed un francese, mercante di drappi. Costoro, conosciuti a fondo i principi della società, pensarono di erigere una loggia separata. Infatti, l'anno 1745 eseguirono un tale immaginato disegno.»
Il Principe di Belmonte era una figura di primo piano della massoneria siciliana alla fine del Settecento e numerosi suoi documenti sono conservati nella Biblioteca di Palermo. La matrice massonica militare era stata introdotta nel regno da Felice Gassola, massone piacentino affiliato ad una loggia in Inghilterra e giunto nella capitale del regno con l'esercito di Carlo di Borbone. Questi entrò presto in contatto con il Principe de' Sangro; si trovano tracce di questo rapporto nelle pagine scritte da Pietro Napoli Signorelli, allievo di G. B. Vico, che ha lasciato opere ricchissime di notizie sulla cultura napoletana dell'epoca, nella quale dedica ampio spazio alla figura di Raimondo ed alle sue scoperte.
Tra queste egli ricorda:
«...una carta per cartocci d'artiglieria che si converte subito in carbole senza rimanervi favilla veruna accesa... Era questa una invenzione inglese che si servava in Londra gelosamente. Re Carlo, nel 1745, ne ordinò che se ne facesse copiosa provvisione per servirsene per alcuni cannoni di campagna. Il Principe Sansevero, ad insinuazione del piacentino Gazzola, general comandante l'artiglieria, vi riflette, stima di essersi apposto nel trovare la mistura opportuna e dopo giorni uno presenta al Re sei fogli di una carta da lui fatta che alle pruova riuscirono al meglio della carta inglese.»
Nel 1744 Raimondo aveva avuto modo di conoscere il Gazzola durante la campagna contro gli austriaci che tentavano la riconquista del regno di Napoli. Nella battaglia di Velletri, con cui l'esercito di Carlo si liberò definitivamente dell'aggressore austriaco, prese parte attiva anche il principe di Sansevero, dando prova del proprio valore, e suggellando così il legame e la fedeltà della sua famiglia, da sempre alleata degli Asburgo, alla casa di Borbone che dal 1734 regnava su Napoli.
Il filone massonico di origine militare e quello di origine borghese furono fusi in uno proprio da Raimondo de' Sangro, con la collaborazione del Gazzola che, attraverso i suoi contatti inglesi, lo propose e ne ottenne l'elevazione al grado di "Gran Maestro delle Logge Napolitane". Ma un altro personaggio aveva lavorato per la riunificazione delle logge: Francesco Zelaja, alfiere militare che aveva capito che per salvare le logge bisognava metterle sotto la tutela e la protezione di un personaggio di grande prestigio e legato alla corte, come il Principe di Sansevero.
I primi del 1740 v'erano due anime massoniche nel regno di Napoli: una formata dai ranghi più elevati della gerarchia militare insieme ai nobili legati alla corte, ed una seconda che accoglieva gran parte dei commercianti, inglesi e francesi, che commerciavano con il regno, ed anche ufficiali di basso rango. La maggioranza di coloro che componevano questa seconda ala borghese delle logge partenopee era di religione calvinista, ed era questa ala che era guidata dallo Zelaja.
A partire dal momento del riconoscimento di Raimondo come Gran Maestro di tutte le logge napoletane, il nostro Principe si tuffa nella politica del regno, avvicinandosi al Re di cui gode la stima e collaborando alla ristrutturazione dell'esercito, anche attraverso l'invenzione di macchine da guerra, del tutto nuove per l'epoca e portando avanti quello che era il suo vero progetto. Tale attività la mantenne fino al 1751 anno in cui, cedendo alle pressioni vaticane che preludevano ad uno scontro armato, Carlo III di Borbone dovette con un editto cancellare le logge napoletane e bandire la massoneria dal regno. Raimondo de' Sangro abiurò.
La scelta di sciogliere l'ordine fu da alcuni interpretato come atto di vigliaccheria, da altri, invece, come unico atto possibile per salvare i confratelli da ulteriori persecuzioni. Il progetto del de' Sangro era, come risulta anche dalla prefazione dell'edizione italiana de I Viaggi di Ciro da lui curata, di far risorgere la nobiltà napoletana, spesso accusata di essere dedita solo alla vita di corte, alla caccia, e di essere legata solo ai propri privilegi feudali. Egli si propone di riscattarla da questo letargo e si pone quale capo di quegli aristocratici che, volendo giocare un ruolo importante nei fermenti innovatori che in Europa si facevano sentire, aspiravano ad avere un peso decisivo nel governo della nazione.
Convinto seguace di Bayle, Shaftesbury, Collins e Toland, da cui aveva mutuato i principi di tolleranza religiosa e di libertà di pensiero, il Principe non può fare a meno di coinvolgere nel proprio progetto i magistrati con i quali i nobili rivaleggiavano «negli affari del Regno» procurando grave disagio alla corona, al regno intero, ed offrendo all'estero motivo di discredito per il Regno di Napoli, terzo regno del mondo conosciuto. Questa apertura di Raimondo alla borghesia, questo considerare nobili coloro i quali mostrano ingegno, virtù ed onestà, e' di certo dovuto all'evolversi del suo pensiero massonico. Questa associazione, infatti, nacque senza pregiudizi relativi all'estrazione sociale dei suoi affiliati, il cui fine ultimo era, secondo un'immagine allegorica attinta dal Vecchio Testamento, costruire un tempo ideale, ispirato a quello di Salomone, basato sull'esercizio della virtù.
A tale proposito, in un'allocuzione del 1745 in loggia in occasione dell'ammissione di alcuni apprendisti, Raimondo afferma:
«Sono molto lusingato di potervi dare questo titolo, e di poter col tempo rivelarvi tutte le gloriose prorogative che esso comporta. Accettati, per il vostro medesimo desiderio e per un suffragio che vi assicurano le vostre qualità personali, nella nostra rispettabile società, dopo aver sfidato i pregiudizi del secolo, le opinioni del profano, dopo aver superato con costanza precisa le prove differenti che vi hanno condotto nell'augusto santuario della massoneria, è infine giusto che vi metta a parte della luce che avete cercato con tanta cura, e non contento di aver colpito i vostri occhi con il vivo fulgore dei suoi raggi, che io vi riscaldi il cuore, lo animi, illumini la vostra anima e il vostro spirito, svelandovi i misteri delle nostre logge, facendovi conoscere il vero oggetto dei lavori, lo scopo vero della nostra associazione, le regole per la nostra condotta ed i principi della nostra morale.
Tutto ciò che facciamo è relativo alla virtù, è il suo tempio che noi costruiamo, e i semplici e grossolani strumenti di cui facciamo uso non sono che i simboli dell’architettura spirituale di cui ci occupiamo. Voi vedrete, fratelli, avanzando nei gradi dell'Ordine, cosa che il vostro zelo meriterà senza dubbio, fino a che punto l'allegoria ne sia sottilmente sostenuta: io posso, per adesso, rivelarvi solo quei segreti ai quali lo stato di apprendista vi permette di essere iniziati: non traccerò la storia della nostra origine; consultate i libri santi, voi la troverete all'epoca della sublime costruzione che consacrò con la saggezza del più grande dei re, un magnifico monumento alla gloria e al culto dell'Eterno...»
«Questa breve spiegazione, fratelli, dissipa il prestigio che vi ha potuto preoccupare prima di conoscervi: eccovi, infine, alla portata di renderci giustizia, noi non ci lasciamo ingannare né dai nostri principi, né dai nostri sentimenti: riuniti dallo stesso scopo, pieni dello stesso zelo, noi siamo tutti fratelli e ce ne facciamo gloria; opere simili di una stessa provvidenza, siamo tutti uguali, la nascita, i ranghi, la fortuna non ci fanno uscire da questo giusto livello che dovrebbe, a quel che credo, ridurre tutti gli uomini nel loro valore intrinseco: la virtù sola e i soli talenti ci distinguono più o meno, e la bassa gelosia non occupa in noi il posto della nobile emulazione. Infine, fratelli, noi siamo uomini semplici, modesti nei piaceri, essenziali nelle amicizie, fermi negli impegni, puntuali nei doveri, sinceri nelle promesse...»
La visione dei rapporti tra uomini colti e virtuosi, basati sostanzialmente su di un ideale di ugualianza e fraternità, preannuncia quei fermenti che si svilupperanno nel corso degli anni successivi e che porteranno alla Rivoluzione borghese del 1789 in Francia, ed alla Repubblica Partenopea del 1799 a Napoli.
Naturalmente con Raimondo siamo ancora in una visione elitaria, ma già consapevole che il processo di rinnovamento avviato dall'Illuminismo europeo con il superamento dei vecchi dogmi in materia di scienza, religione, filosofia e diritto, avrebbe portato ad un cambiamento anche sul piano politico e sociale.
Quanto Raimondo si fosse nutrito di tutti i classici del pensiero moderno ci è testimoniato dall'Inventario della sua ricca biblioteca: 1600 volumi circa, oggi dispersi, con numerosi trattati sulle più svariate materie econ opere autografe di Pierre Bayle, Denis Diderot, Montesquieu, Voltaire, Condillac, Rousseau e tanti altri.
Per quanto riguarda un filone più strettamente scientifico ci sono opere di Galilei e Newton, quest'ultimo nel trattatello divulgativo del massone veneziano Algarotti. Vi sono poi numerosi testi di storia delle religioni e sulla Compagnia di Gesù in relazione alle spedizioni nei continenti extra-europei. Si trovano, anche, numerosi libri legati al mondo dell'antiquaria e delle arti applicate, come le Antichità di Ercolano, un'edizione che documenta gli scavi che il re Carlo di Borbone aveva patrocinato per farne omaggio solo a regnanti ed esponenti della più alta aristocrazia. Accanto a questa, Raimondo possedeva altre opere aventi come argomento Ercolano e tutte scritte o curate da fratelli massoni.
L'ideologia massonica, con la sua aspirazione a far rivivere un modello di società giusta e incorrotta, spinge alcuni intellettuali del Settecento a ritrovare, attraverso lo studio dei monumenti antichi rimasti ancora in piedi (Paestum) o venuti alla luce con le allora nascenti campagne di scavo (Ercolano e Pompei), tracce concrete di una civiltà, quella greca e romana, che ai loro occhi appariva un esempio di democrazia e di rigore morale.
Nella sua sterminata libreria non compare alcun testo di argomento alchemico o magico di alcun autore classico della tradizione esoterica cinque-seicentesca. Si trovano, però, due manoscritti, Dissertazione sopra la magia e Arte magica dileguata, quest'ultima opera dell'illuminista veneto massone Maffei che si scagliava contro l'interpretazione di alcuni fenomeni naturali in termini di magia e stregoneria, frutto di superstizione ed ignoranza.
L'unico testo di argomento cabalistico era Il Conte di Gabalis dell'abate francese Villars de Montfaucon che Raimondo possedeva in ben due copie, una francese e l'altra tradotta in italiano e pubblicata dalla sua stamperia.
Dopo i fatti del 1751, la repressione, la scomunica ed il tentativo a vuoto dell'Inquisizione di tradurlo a Castel Sant'Angelo, Raimondo si vide costretto a chiudere la tipografia in cui stampava i manoscritti da lui stesso tradotti, a volte sotto pseudonimo. Due gesuiti, in particolare, tallonavano da presso il Principe: Innocenzo Molinari e Francesco Pepe che riferivano ai responsabili superiori dei servizi vaticani circa le opere e le iniziative del Principe. Soprattutto si scagliavano, nei loro rapporti, contro le opere pericolosamente scientifiche che Raimondo stampava e divulgava: un vero attentato alla dottrina della fede.
Fra le opere editate due in particolare suscitarono le ire del papa di turno tanto da provocare l'editto di scomunica e la richiesta d'estradizione. Si trattava de Il Conte di Gabalis ovvero Ragionamenti sulle Scienze Segrete e della Lettera Apologetica dell'Esercitato Accademico della Crusca contenente la difesa del libro intitolato - Lettere d'una peruana - per rispetto alla supposizione de' quipu scritta alla Duchessa di S ***.