Rileggere Hannah Arendt: onore alla Memoria

Lo scorso 27 gennaio, giorno in cui ricorreva la
liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, si è
celebrata per la prima volta la Giornata della memoria.

Per una singolare coincidenza, il 2001 coincide anche con
il cinquantesimo della pubblicazione di "Le origini del
totalitarismo" di Hannah Arendt (1906-1975).
Il volume, che è ormai diventato un classico del pensiero
politico del Novecento, suscitò alla sua uscita vivaci
polemiche per il confronto, allora ritenuto "scandaloso",
tra nazionalsocialismo e stalinismo.

Del resto questo è solo uno dei tanti casi in cui emerge
quella "volontà di pensare senza barriere", propria della
Arendt, ben descritta in una vivace biografia tradotta di
recente in italiano (A. Pinz, "Professione filosofa. Vita
di Hannah Arendt", Donzelli, Roma 1999).
Rileggere oggi il saggio sul totalitarismo, a cinquanta
anni dalla sua uscita, può forse essere un modo per onorare
la Memoria di tutti coloro che nel Novecento sono stati
vittime della violenza delle ideologie.
La Arendt, che, lo ricordiamo, era ebrea, cerca di
comprendere il fenomeno totalitario affrontando con
spregiudicatezza la realtà dei fatti.
Già nella prefazione emerge un atteggiamento di ricerca più
attento alla verità che alla difesa di posizioni
preconcette.
Con un profondo senso di umiltà, il contrario di quella
hybris perfettista che sta alla base di tutte le ideologie,
la studiosa si pone drammatiche domande: come era potuto
accadere ciò che era accaduto?
Quali ne erano state le cause?
Come si poteva evitare il ripetersi di simili tragedie?

La tesi di fondo dello studio è duplice: il totalitarismo è
il luogo di cristallizzazione delle contraddizioni proprie
della modernità, ma, allo stesso tempo, esso segna anche la
comparsa di un fenomeno radicalmente nuovo nella storia.
Non è possibile una equiparazione, o peggio ancora una
confusione, con regimi politici come dispotismo orientale,
dittature, tirannidi che nei secoli si sono susseguiti.

L'attenzione della Arendt si concentra dapprima su alcuni
fenomeni, come antisemitismo, imperialismo e società di
massa, che hanno preparato il terreno al dispiegarsi della
violenza.
Se queste sono le "condizioni" storiche, il proprium del
totalitarismo è costituito però dall'uso sistematico del
terrore contro il "nemico oggettivo" e dallo sviluppo di
ideologie totalizzanti.
Richiamandosi a leggi necessarie della natura (la
supremazia della razza ariana) o della storia (la lotta di
classe), il nazionalsocialismo e il comunismo pretendono di
conoscere i segreti della storia.
Le ideologie alla base di questi regimi finiscono così per
includere forzatamente tutto ciò che accade nelle strette
maglie di un sistema.
Queste costruzioni, coerenti da un punto di vista logico,
anche se false da un punto di vista fattuale, finiscono
così per prescindere da ogni contatto con la realtà e con
il sapere del senso comune.

La Arendt nota con acutezza che il vero scopo
dell'ideologia totalitaria non è tanto il riassetto
rivoluzionario dell'ordinamento sociale ma, ancora più
radicalmente la trasformazione della natura umana che, così
com'è, si oppone al processo totalitario.

Gulag e lager sono i macabri laboratori a cielo aperto in
cui si sperimenta tale trasformazione e si
esprime "l'aspirazione all'onnipotenza" dei regimi.
Ciò che deve essere distrutto è l'uomo come soggetto di
diritto e come essere libero, l'uomo come "capacità di dare
inizio a qualcosa di nuovo".
I cospiratori contro la rivoluzione, da una parte, e gli
ebrei dall'altra, sono i nemici "oggettivi" che vanno
eliminati, non per quello che hanno fatto, ma per
dimostrare la verità di una ideologia e per costruire un
mondo nuovo ad immagine e somiglianza della stessa.

L'opera della Arendt mette in guardia anche dal possibile
riaffiorare di atteggiamenti totalitari nelle democrazie.
Ciò che in questo caso viene preso di mira è l'ethos
utilitarista che mina alle fondamenta la cultura
contemporanea.
Il pericolo ricorrente nella storia umana è che i crimini
contro i diritti umani possono sempre venire giustificati
con l'affermazione che "diritto è quanto è bene e utile per
il tutto distinto dalle sue parti".
La Arendt allude a una sinistra ipotesi, che oggi,
cinquant'anni dopo, desta ancora più preoccupazione: "E'
perfettamente concepibile, e in pratica politicamente
possibile, che un bel giorno un'umanità altamente
organizzata e meccanicizzata decida in modo democratico,
cioè per maggioranza, che per il tutto è meglio liquidare
certe sue parti".

Oggi che si parla sempre più spesso di "qualità della
vita", di "costi sociali" delle patologie, di problemi
legati alla sovrappopolazione mondiale, di
genetica "preventiva", la considerazione appena riportata
induce senza dubbio a riflettere.
Le analisi che l'autrice dedica al totalitarismo non si
limitano al volume del 1951, ma proseguono anche nelle
opere successive.
Il saggio su "La banalità del male" (Feltrinelli, Milano
1999), il resoconto del processo Eichmann che si è svolto a
Gerusalemme nel 1961, offre ad esempio osservazioni
interessanti sulla mentalità degli artefici dello
sterminio.
Per essere introdotti all'opera della pensatrice, ci
permettiamo poi di rimandare all'antologia: H. Arendt, "Il
pensiero secondo", Bur, Milano 1999. I testi citati sono
un'occasione per cercare di comprendere ciò che è accaduto
e per tenere desta la memoria, operazione quanto mai
importante proprio perché, come scrive la Arendt, "il dono
della memoria è pericoloso per il dominio totalitario che
si regge sull'oblio".

Paolo Terenzi