Le armi della fede

La destra nazional-religiosa, incarnata dal movimento dei coloni che ha costruito una vera “teologia della terra” mettendo insieme il nazionalismo e il fanatismo religioso. Il mondo degli hassedim, gli ebrei ultraortodossi
che vivono come separati, solo all’interno della loro comunità. Minoritari nella società e molto diversi gli uni dagli altri, sono questi i volti della sfida fondamentalista all’identità laica di Israele

Alla vigilia delle elezioni israeliane, intervista al sociologo Renzo Guolo sul peso crescente del fondamentalismo nel paese


Guido Caldiron

«Quando si manifesta un pericolo esterno, ad esempio con gli attentati che colpiscono la popolazione civile, la società israeliana si ricompatta. Ma chiunque sia stato in Israele negli ultimi anni si è accorto come le fratture interne vadano aumentando. In quella che si può definire come una vera "società di fratture", le divisioni stanno però cambiando di segno: un tempo si misuravano i poveri con i ricchi, la destra con la sinistra, i sefarditi con gli ashkenaziti. Oggi, invece, il confronto e la contrapposizione avviene soprattutto tra laici e religiosi. In particolare, la parte laica della società israeliana vive con crescente insofferenza l'espandersi dei gruppi religiosi fondamentalisti, minoritari ma molti attivi, che rappresentano una vera sfida all'identità laica e democratica del paese».
Tra i maggiori studiosi europei del fondamentalismo politico-religioso contemporaneo, autore di diversi saggi dedicati a questo argomento, tra cui Il partito di Dio, Guerini e Associati, 1994, Terra e redenzione, Guerini e Associati, 1997, Avanguardie della fede, Guerini e Associati, 1999, Il fondamentalismo islamico, Laterza, 2002, il sociologo delle religioni Renzo Guolo, docente presso l'ateneo di Trieste, sintetizza con queste parole il clima che attraversa la società israeliana. Alla vigilia delle elezioni politiche che si svolgeranno martedì, gli abbiamo chiesto di aiutarci a capire quale peso il fondamentalismo religioso occupi oggi nel paese.

Meno di un terzo dei cittadini ebrei di Israele si dichiara "religioso", eppure si ha l'impressione che la religione occupi un posto importante anche nelle vicende politiche del paese, al punto che molti osservatori si chiedono apertamente se non si dovrebbe parlare di una società confessionale? Come stanno le cose?

Israele è sicuramente uno stato laico, e questo malgrado parte delle responsabilità istituzionali in materia di diritti della persona siano affidata ai religiosi. Questo deriva dal compromesso che David Ben Gurion, il fondatore laico e socialista dello Stato, fece con gli ebrei osservanti per avere il loro consenso alla nascita stessa di Israele. Perché si deve sapere come per gli ebrei ultraortodossi, gli haredim, i cosiddetti "uomini in nero", lo Stato di Israele non abbia mai avuto un particolare valore, loro attendono solo l'avvento del "regno di David" e la "redenzione" seguendo la lezione biblica, mentre hanno sempre considerato come pagano il progetto sionista di creare uno Stato per mano degli uomini e vi si sono lungamente opposti. Malgrado questo compromesso fondativo, non si può non sottolineare come la società israeliana sia fortemente secolarizzata. Chi ha visitato Haifa o Tel Aviv, o conosca scrittori come Oz, Grossman e Yehoshua, sa bene quale sia la forte impronta laica della cultura israeliana. Ciò detto, è in particolare da dopo la "Guerra dei sei giorni" del 1967 che è andata emergendo una minoranza religiosa oltranzista che cerca di mettere in discussione continuamente questa natura laica dello Stato. E' dal '67 che questo fenomeno ha cominciato a segnalarsi, perché a conclusione di quel conflitto, nell'occupazione dei "territori", alcuni hanno pensato di cogliere una sorta di ricongiungimento di Israele alla memoria biblica, attraverso il controllo dei territori di Giudea e Samaria, in una dimensione messianica, legando cioè l'avvento della "redenzione" con il possesso dell'intera terra dell' "Eretz Israel" della tradizione religiosa. Da allora questo elemento è diventato parte della costituzione materale del paese.

Quindi, una lettura teologica delle vicende storiche vissute dallo Stato di Israele si è andata imponendo fin da allora?

Dobbiamo pensare alla genesi dello Stato di Israele. Dopo la sua fondazione sono affluiti nel paese ebrei che venivano da paesi molto diversi tra loro e che come elemento unificante avevano solo quello religioso; lingue e culture erano diverse, basti pensare alle differenze esistenti tra gli ashkenaziti europei fuggiti dall'Olocausto e i sefarditi che vivevano da sempre in Medioriente. Così, alla fine, la religione civile del paese si è nutrita anche dei riferimenti biblici. E proprio la colonizzazione dei "territori" da parte di minoranze fondamentaliste è diventata, oltre che il centro del conflitto con i plaestinesi, un tema fondamentale per una parte della cultura nazionale.

Ma trent'anni dopo la "Guerra dei sei giorni", quale è la consistenza dei gruppi fondamentalisti e il loro peso nella società israeliana?

Stiamo parlando di un ambiente che corrisponde a circa il 10% della società israeliana, anche se elettoralmente i partiti religiosi hanno superato il 15% dei consensi. Vi sono però molte differenze tra un gruppo e un altro. La prima, fondamentale, è tra la componente nazional-religiosa e gli ultraortodossi, che non sono affato la stessa cosa. Da un lato troviamo i coloni religiosi che fanno riferimento a quella corrente definita come "sionismo religioso" che ha visto, come si diceva prima, nel ritorno degli ebrei nella terra di Israele un obiettivo metapolitico: quando Israele entrerà in possesso del "suo" territorio biblico, tutti gli ebrei potranno riunirsi, e verrà le "redenzione". Le istante di questo movimento sono teologiche e perciò non negoziabili. In questo senso i coloni religiosi non accetteranno mai il ritiro dai "territori", perché per le loro credenze significherebbe fermare il processo di "redenzione". Questo ambiente nazional-religioso ha creato una vera "teologia della terra", mettendo insieme il nazionalismo e il fanatismo religioso. Per quanto riguarda gli haredim, gli ultraortodossi, dopo la prima fase, in cui consideravano il sionismo come una vera eresia, un certo cambiamento c'è stato dopo l'Olocausto, anche se non ha modificato il giudizio di fondo, perché hanno iniziato a considerare Israele come un luogo dove era possibile praticare la fede in condizioni di sicurezza. E questo è l'atteggimanto che hanno ancora oggi e che non passa perciò per alcuna dimensione salvifica come invece accade per i coloni. Sul piano concreto, ad esempio, i coloni religiosi sono fieri di fare il militare, mentre gli haredim si battono invece per continuare ad essere esentati in virtù della loro fede. Dal punto di vista politico però, mentre i coloni votano in maggioranza per il "Likud" o si muovono come una lobby trasversale presente in vari partiti, ma solo raramente hanno espresso gruppi politici consistenti, gli haredim che cercano di sostenere con leggi e finaziamenti le loro istituzioni separate, scuole, centri di servizi, che servono a tutelare la loro "purezza" religiosa, hanno da tempo dato vita a forze politiche anche di un certo peso come la "Lista unificata della Torah" tra gli ashkenaziti e lo "Shas" tra i sefarditi, oltre ad altre sigle minori. Bisogna ricordare inoltre come questi partiti assumano anche la fisionomia di gruppi per la difesa di un gruppo etnico preciso, riuscendo in questo a conquistare anche il voto di alcuni laici. Con il sistema proporzionale puro che vige in Israele, anche partiti dell'1% finiscono però per risultare determinanti quando si contano i voti alla Knesset per decidere di questa o quella maggioranza e in particolare per l'appoggio dato alla destra del "Likud". Perciò queste componenti, malgrado siano minoritarie nel paese, sono riuscite ad imporre i loro temi nell'agenda politica nazionale.

Per il ruolo che giocano in particolare i coloni religiosi nella questione centrale dell'occupazione dei "territori", quale peso potranno avere queste componenti nella possibile riapertura di una prospettiva di negoziato con i palestinesi?

La cosidetta componente nazional-religiosa rappresenta un vero macigno da questo punto di vista. Nessuna soluzione del conflitto può avvenire se non si supera il nodo delle colonie. In una parte consistente della società israeliana è maturata la convinzione che ci debba ritirare da questi luoghi decisivi per la possibile formazione di uno Stato palestinese. Solo che tra i coloni vi è chi sarebbe disposto solo a ritirarsi da alcune località e chi invece, la parte più radicale, non vuole fare alcuna concessione e è disposta anche allo scontro con l'esercito israeliano nel caso di un eventuale sgombero forzato. Si tratta degli stessi ambienti da cui veniva Baruch Goldstein che nel febbraio del 1994 sparò sulla folla dei fedeli musulmani riuniti presso la Tomba dei Patriarchi a Hebron uccidendo trenta persone.

Liberazione 25 gennaio 2003

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