di: Alberto B. Mariantoni
Premetto che chiunque non si ritenga uno stolto o un mero presuntuoso, non possa fare altro che rifiutare categoricamente di spiegare la fede attraverso la ragione (come è noto, infatti, la fede del credente può largamente spiegare la ragione, mentre la ragione non è mai in grado di spiegare nessun tipo di fede). Ed aggiungo che sarebbe davvero assurdo – parafrasando il filosofo Friedrich Wilhelm Joseph von Schelling (1775-1854) - pretendere di volere tentare di razionalizzare ciò che per sua natura non è affatto razionale o razionalizzabile.
Che posizione, dunque, dovrebbero assumere i Fascisti (o chiunque altro sia pronto – indipendentemente dalle sue origini ideologico-politiche o dalle sue particolari predisposizioni spirituali – ad unire i suoi sforzi con quelli di altri concittadini, per tentare - tutti insieme - di ben vivere o di meglio ben vivere all’interno della medesima societas o dell’identica Patria comune) in materia di religione, per non litigare?
A Roma, sull'antico Panteon, c'era scritto: " Quod pro ceteri sacrum, pro nobis sacrosanctum est". E lo stesso Mussolini, romano nel cuore e nello spirito, venticinque secoli più tardi, confermerà quel modo di vedere le cose, in questi termini: " Noi - disse - rispettiamo il Dio degli asceti, dei santi, degli eroi ed anche il Dio così come è visto e pregato dal cuore ingenuo e primitivo delle genti ".
Questa, a mio giudizio, dovrebbe essere la nostra posizione comune: sia che si tratti di Fascisti credenti (di una qualsiasi fede: monoteista o politeista), sia che si tratti di Fascisti non credenti.
Ritengo, infatti, che le religioni o le scelte antireligiose, qualunque esse siano, debbano assolutamente rimanere escluse dalla vita pubblica di qualsiasi società e strettamente confinate all’interno delle mura dell’abitazione di coloro che se ne reclamano. Alla stessa stregua delle nostre individuali preferenze artistiche e culinarie, o delle nostre preferenze e/o predisposizioni sessuali.
Il motivo?
Per il semplice (e non esaustivo) motivo che gli uomini non sono tutti uguali, mentre la maggior parte delle religioni (e più particolarmente, le cosiddette "religioni del Libro": Giudaismo, Cristianesimo ed Islam), considerano che lo sono!
Cerchiamo di capire…
Nell’Atene di Pericle, ad esempio, il banditore ufficiale dell’Agorà - rivolgendosi all’assemblea dei cittadini che si riunivano in quel luogo per deliberare sul presente e/o sul futuro della loro società - poneva ai presenti le seguenti domande preliminari :
vogliamo vivere (o continuare a vivere) insieme all’interno di questa Polis?
abbiamo l’intenzione di continuare a vivere bene (o vogliamo tentare di vivere meglio) all’interno della nostra Polis?
Se alla prima ed alla seconda domanda i cittadini rispondevano affermativamente, i lavori continuavano (in quel caso – è facile intuirlo - il resto delle discussioni o delle delibere, si riduceva a delle semplici scelte di ordine tecnico e/o amministrativo); in caso contrario (cioè, se una maggioranza di cittadini riteneva affievoliti, sorpassati o estinti i motivi del vivere insieme e/o del ben vivere all’interno di quella Polis) i lavori si interrompevano e l’assemblea veniva sciolta. Veniva sciolta, poiché a quell’assemblea di liberi cittadini mancava l’essenziale: mancava, cioè, la volontà di vivere insieme e quella di volere ben vivere tutti uniti all’interno della medesima società!
Per cercare di capire quanto sto cercando di spiegare, invito il lettore ad analizzare, con me, il significato ed il senso della parola " società ".
Dal latino "societas, -atis", la società è un'associazione di esseri unici, originali, irripetibili e complementari, gli uni, in generale, utili agli altri e viceversa, nonché cosmicamente ordinati (o almeno, così era nelle prime Polis greche e nelle prime Civitas latine) all'interno di una spontanea e naturale scala gerarchica di valori, di attitudini, di competenze e di responsabilità.
E’ ciò che io considero – con tutte le sue possibili ed immaginabili varianti – il modello naturale e spontaneo di aggregazione umana e di coesione civile e politica tra gli uomini che definisco "Innata Societas" o società tradizionale, autentica o naturale. Una società, cioè, che non ha bisogno di nessuna costruzione o elaborazione intellettuale e di nessuna finzione ideologica, politica, giuridica o amministrativa, per costituirsi, esistere ed operare.
In altre parole, un'Innata Societas o società tradizionale é un modello di collettività umana che tende naturalmente e spontaneamente a realizzarsi, ogni qualvolta, i principali motivi di aggregazione e di coesione civile e politica di un qualunque gruppo solidale, sono simultaneamente caratterizzati e determinati da una medesima origine etnico-storica, una medesima lingua, una medesima cultura, medesimi costumi, medesime tradizioni.
Analizziamo, ora, la parola " comunità "
Dal latino "comunitas, -atis", una comunità (nel nostro caso, di credenti o di non credenti) è un gruppo di persone che – all’interno di una stessa società o appartenenti, in origine, a diverse società, affini o antagoniste – decidono di stare insieme, poiché hanno constatato che posseggono comuni idee, una comune visione delle cose, una comune fede, una comune etica, comuni interessi, comuni preferenze, comuni predisposizioni, comuni stili o consuetudini di vita, ecc.
Se vogliamo, si tratta di un gruppo di persone che, considerandosi uguali o simili, scelgono volontariamente di stare insieme - non sulla base della loro origine etnico-storica comune, della loro lingua comune, della loro cultura comune, dei loro costumi comuni, delle loro tradizioni comuni ma – semplicemente sulla base di una comune scelta ideologica e/o di un comune denominatore filosofico o dottrinale (o esistenziale): cioè, l’elemento istigante o scatenante che è all’origine del famoso "pares cum paribus facillime congregantur" dei Latini.
Questo, che cosa vuole dire?
Vuole dire che non ci troviamo più di fronte ad una "societas", ma semplicemente confrontati ad una "factio, factionis", ad un "pars, partis" o ad una "secta, ae" (cioè, una "fazione", un "partito" o una "setta") che tende ad aggregarsi, ad esistere e ad operare all’interno di una medesima società (oppure, a costituirsi, esistere ed operare transnazionalmente), indipendentemente dall’origine etnico-storica, dalla lingua, dalla cultura, dai costumi e dalle tradizioni dei suoi adepti.
E’ ciò che io considero - con tutte le sue possibili ed immaginabili varianti sul tema - il modello artificiale di aggregazione umana e di coesione civile e politica che mi permetto di definire "Simulata Societas" o società antitradizionale, fittizia o innaturale. Una "società", cioè, che per potersi realmente costituire ed essere ugualmente in grado di esistere, di operare e di durare nel tempo, ha necessariamente bisogno di tutta una serie di finzioni ideologiche e di artifizi politici e pratici che non hanno (anche quando, esteriormente e apparentemente, riescono ad imitare le società naturali…) nessuna correlazione, né attinenza, con i motivi naturali e spontanei di aggregazione umana e di coesione civile e politica che caratterizzano invece le società naturali.
Ora, se è vero che una qualunque "Societas" può senz’altro esistere, agire e durare nel tempo, definendo e regolamentando preventivamente le attività delle diverse "fazioni" che tendono a costituirsi e ad operare nel suo seno; il contrario – cioè, il monopolio ideologico o la supremazia dottrinale di una qualunque "fazione" religiosa, irreligiosa, filosofica, ideologica, politica o pratica sulle altre, all’interno di una medesima società – produce ogni volta, solo ed esclusivamente "tirannia".
Mi spiego.
Su cosa si basa il concetto del "ben vivere" all’interno di una medesima società e quello di "armonia" tra i cittadini che vivono ed operano all’interno di quest’ultima?
A mio avviso, su due pilastri fondamentali ed essenziali: quello della "morale pubblica" e quello della "legge".
Potrei aggiungere che la morale e la legge, ai miei occhi, sono gli "argini indispensabili" che debbono necessariamente contenere gli imprevedibili e travolgenti flutti dell’umana indisciplinata progenie all’interno di qualunque società. Se questi "argini" mancano o sono difettosi, è il caos o l’anarchia. Oppure, la tirannia.
Quale "morale", però, e quale "legge" dovrebbero regolamentare l’esistenza e l’interrelazione dei "soci" all’interno di una società? La mia "morale" e la mia "legge", esclusivamente? Quelle di una qualunque "fazione" che esiste all’interno della nostra società? Quelle della "fazione" che ci è più simpatica o che è più attinente ai nostri desideri o alla nostra natura? Oppure, quelle di tutti i cittadini (simpatici o antipatici, amici o avversari, favorevoli o contrari alle nostre idee e/o alle nostre predisposizioni e/o preferenze) che vivono, coesistono ed operano con noi all’interno della medesima società?
Per gli antichi Greci e Latini, il problema della "morale pubblica", era semplice da risolvere. Per questi ultimi, infatti, l’unica "morale", necessaria e possibile da applicare alle loro società, era esclusivamente quella "societaria", quindi "politica".
L’antichità classica greco-latina, infatti, nell’esplicitare l’arte della Polis non si poneva assolutamente il problema della " verità oggettiva", così come oggi ce lo poniamo noi. Sapeva che gli uomini sono tutti differenti. E che, quindi, quot homines, tot census.
Per illustrare l’idea che i nostri antenati si facevano della " verità ", potrei parlare dell’esperienza del famoso bastone che quando è a metà immerso nell’acqua ci appare spezzato e quando è completamente estratto o tirato fuori da quella posizione, ci appare intero...
Potrei parlare di Protagora (-V° sec.) che - in apertura di una sua opera intitolata Verità (o Discorsi demolitori), affermava: " L’uomo è la misura di tutte le cose: di quelle che sono così come sono; e di quelle che non sono così come non sono ".
Potrei parlare di Gorgias (-485/-380) che - nel suo trattato del Del non-essere (o Della natura) asseriva: " Non c’è niente che - anche se qualcosa fosse - l’uomo non possa conoscere; e che - anche se l’uomo potesse conoscerlo - il linguaggio non possa esprimere ".
Potrei parlare del " sofisma della verità/menzogna " di Eubulide di Mileto e dell’aneddoto dei " Sofisti e dell’alveare " di Socrate (-470/-399).
Potrei parlare di Pirrone (-365/-275) che - con il suo concetto di acatalessìa - negava la possibilità per l’uomo di " cogliere " la verità oggettiva e/o di potersene impadronire.
Potrei parlare, in fine, di Pontius Pilatus o Ponzio Pilato (I° sec.) che - in Giovanni 18, 38 - di fronte alle precise affermazioni di Gesù a proposito della verità, è talmente sorpreso che gli rivolge la domanda: ma " che cos’è la verità "?
Ma questo non cambierebbe nulla al fatto che i nostri antenati – pur intuendo che la "verità oggettiva" esistesse… – erano convinti che nessuno tra gli uomini potesse personalmente monopolizzarla a suo vantaggio ed a discapito dei suoi simili.
E’, dunque, per quella ragione che quelle società - invece di perdersi (come le nostre…) in inutili diatribe o vane speculazioni accademiche che avrebbero avuto per scopo di dimostrare l’indimostrabile - preferiva valutare realisticamente il pro ed il contro che è in ogni cosa (duo lógoi) ed attenersi esclusivamente ai concetti di opinione e di accordo comune (dóxa kái nómos), per definire il senso delle loro azioni o delle loro scelte.
Come è facile dedurlo dagli scritti dei principali autori greci e latini che si sono interessati a questo argomento, la nozione di "morale societaria" era esclusivamente centrata sull’interesse generale della società che in quel momento storico la stava effettivamente esprimendo o manifestando.
Quegli autori, infatti - coscienti della diversità umana (quot homines tot census) - rigettavano, con rispetto e pacata determinazione, nella sfera del privato, ogni singola preferenza e predisposizione naturale dei loro compatrioti e consideravano morale per l’insieme della società, quanto la totalità dei cittadini, di comune accordo, aveva liberamente deciso o sentenziato di auto imporsi, nonché di riconoscere, di onorare personalmente e di fare rispettare individualmente e collettivamente come tale.
In altre parole, tra tutti i cittadini di una Polis o di una Civitas si stabilivano le norme comuni del "dovere societario" (il dovere di ognuno, cioè, nei confronti degli altri).
Qualche rapido e banale esempio: al mattino – quando tutti si svegliavano per andare a lavorare – nessuno doveva vuotare sulla testa dei passanti i propri pitali riempiti di urina o di escrementi…; ognuno aveva il diritto di esprimere la propria sessualità, come meglio preferiva, esclusivamente, però, all’interno delle mura di casa propria ed unicamente con le persone adulte che si dichiaravano consenzienti; il punto di vista individuale di ognuno ("doxa", per i Greci e "opinio, is", per i Romani) era rispettato e garantito, ma nessuno doveva pretendere di essere il solo portatore esclusivo della "verità"; ecc.
Una volta che, di comune accordo, si era fissato cosa si potesse e cosa non si potesse fare nel contesto della vita pubblica della Polis o della Civitas, la trasformazione di quella "morale" in "Legge" della società ("nomos" per i Greci; "lex" per i Romani), diventava automatica. E chi non rispettava ciò che egli stesso aveva liberamente dichiarato di fare o di non fare, nonché di rispettare, all’interno di quelle società, veniva severamente punito.
Diverso, il concetto di "morale" per qualcuno che è generalmente convinto di essere il portatore assoluto della "verità".
Prendiamo – ancora per fare un esempio comprensibile - la nozione di " morale " o di " moralità " che emerge dalle pagine del Pentateuco e paragoniamola con quella che affiora dai testi della tradizione greco-latina.
Dai cinque libri della Torà - nonostante nelle sue pagine non vi sia mai nessun termine specifico che possa in qualche modo corrispondere o essere paragonato al significato che oggi attribuiamo alla parola " morale " - è possibile estrarre o ricavare quello che oggi chiameremmo un vero e proprio codice etico: un elenco di regole e di prescrizioni, cioè, che gli uomini - in nome della " verità " e del " bene " - debbono assolutamente osservare.
L’insieme di quelle regole e di quelle prescrizioni sono sistematicamente presentate, o come dei " comandamenti " che sarebbero l’espressione diretta della volontà divina; o come delle " tradizioni ancestrali " che risalirebbero alla notte dei tempi; o come delle " sentenze " e dei " precetti " che aiuterebbero l’uomo a riscoprire e valorizzare la sua vera natura.
A loro proposito, naturalmente, gli ideatori e/o i redattori del Pentateuco si guardano bene dal tentare di proporre o di suggerire al lettore una qualunque definizione, della " verità " e del " bene ".
Il " bene " ed il " male ", la " verità " e la " menzogna " - secondo quanto traspare dai loro testi - sono dei semplici assoluti e debbono essere invariabilmente considerati tali, in quanto quella è la loro convinzione ed il loro credo!
Se vogliamo, quindi, la " morale biblica " - da un punto di vista culturale - si riduce ad essere una nozione strettamente soggettiva ed arbitraria: una nozione, cioè, che - nonostante gli abbondanti riferimenti al " sacro " o al " divino " che cercano artificialmente di farla crede oggettiva agli occhi del lettore - ha per solo fondamento ed esclusiva legittimità le preferenze e/o le predisposizioni particolari di chi ha effettivamente ideato e/o redatto i differenti capitoli o le diverse frazioni del Pentateuco.
In altre parole, gli ideatori e/o i redattori della Torà - negando a priori ogni genere di differenza tra gli uomini - pretendono assimilare il pluriversum umano ai soli parametri di valutazione e di giudizio che sono espressi dalle loro attitudini e/o dalle loro inclinazioni personali. E sulla base delle loro individuali convinzioni, esigono che l’intera comunità umana accetti incondizionatamente di adeguarsi o di conformarsi alla scala gerarchica dei loro principi e dei loro valori, nonché al compendio delle loro ambizioni e/o delle loro aspirazioni personali.
Ora, se gli uomini fossero tutti uguali, la "morale biblica" – come ogni altra "morale partigiana" (sia essa religiosa, irreligiosa, filosofica, ideologica, politica o pratica) – potrebbe senz’altro essere trasformata in "legge" ed applicata all’insieme dei membri di una qualsiasi società e, perché no, dell’intera umanità. Siccome, però, gli uomini – nonostante tutte le teorie che fino ad oggi hanno invano tentato di dimostrarci il contrario - uguali non sono, l’unica "morale pubblica" che è esigibile ed applicabile (senza creare o provocare ingiustizie) all’insieme dei membri di una qualunque società, è solo ed esclusivamente una "morale societaria", dunque "politica"!
Oppure, dovrebbe essere la "morale" individuale" (di una persona, di un gruppo, di una setta, di una fazione, di un partito) che dovrebbe prevalere sulle altre all’interno di una medesima società?
Ammettiamo – per semplice ipotesi - che sia la "fazione" ad avere il diritto di propagare al resto dei membri della medesima società (o dell’intera umanità) la sua "morale" particolare e, di conseguenza, di imporre a tutti la sua "legge" specifica.
Per capire la contraddizione in termini che si nasconde dietro qualsiasi "morale di parte", basta prenderne una a caso (ivi compresa quella del nostro occasionale e sbalordito lettore...) e tentare di applicarla ad una qualunque società o all’intera umanità.
Che cos’è il "bene", per un sadico? Che cos’è il "bene", per un masochista? Che cos’è il "bene", per una lesbica? Che cos’è il"bene" per un omosessuale? Che cos’è il "bene", per un ladro? Che cos’è il "bene", per uno scansafatiche? Che cos’è il "bene", per un rabbino, un prete o un imam? Che cos’è il "bene", per un ateo o per un miscredente?
Pensiamo veramente che, ognuna delle suddette nozioni di "bene", possa corrispondere in qualche modo al nostro personale concetto di "bene"? Oppure, a quello che dimora usualmente nel cuore della infinita varietà di uomini che compongono la nostra società o l’intera umanità?
Intendiamoci. Non pretendo affatto - per meglio illustrare i miei argomenti - caricaturare volgarmente l’esperimento ed incitare il lettore a generalizzare all’insieme delle donne e degli uomini del nostro tempo la specifica " morale " che potrebbe essere espressa o manifestata da un qualsiasi mafioso o da un qualunque lestofante... Diciamo che, in questa sede e nel contesto di questa riflessione, mi accontenterò semplicemente di incitare il lettore a generalizzare mentalmente alla società italiana o quelle del resto dei paesi del mondo, la " morale " che potrebbe scaturire - tanto per fare un esempio positivo - dalla " regola " di San Francesco d’Assisi.
Credenti o non credenti, chi potrebbe affermare che il Poverello d’Assisi sia mai stato un perverso, oppure un mascalzone, o ancora un delinquente, ovvero un personaggio poco raccomandabile? Chi potrebbe negare che, nel corso della sua esperienza terrena, egli non sia stato un sant’uomo, un altruista, un essere generoso, fondamentalmente mite e buono, nonché estremamente tollerante e caritatevole?
Non dimentichiamo, però, che lo stesso San Francesco, nel corso della sua esistenza, aveva liberamente scelto – in nome della sua fede - di vivere una vita di privazioni e di assoluta povertà.
Come sappiamo, camminava scalzo; si riparava dal freddo con un semplice sacco (a cui aveva praticato dei fori per fare fuoriuscire la testa e le braccia) assestandoselo sui fianchi con una semplice corda; dormiva all’agghiaccio sulla nuda terra, usando per cuscino un ruvido sasso e si cibava al massimo con un po’ di acqua e qualche tozzo di pane secco e rattrappito!
Proviamo, ora, a generalizzare il tipo di " regola " che egli aveva scelto di praticare nel nome del suo credo, all’insieme dei membri di una qualunque "società" del mondo o all’intera umanità.
Che cosa otterremmo?
Potrà sembrare scioccante ed insultante doverlo sottolineare ma, non potremmo ottenere nient’altro che una triste e misera "società", fatta di insopportabili stenti e di indicibili privazioni. Potrei addirittura aggiungere che paragonata ai "campi di concentramento" tedeschi, inglesi ed americani dell’ultima guerra o a quelli sovietici, cinesi, combogiani e vietnamiti del paradisiaco "Arcipelago Gulag" comunista, questi ultimi, ai nostri occhi, comincerebbero addirittura ad assumere le sembianze di lussuosissimi e mondani complessi alberghieri, a cinque stelle!
Non bisogna dimenticare, infatti, che se ci dovessimo adagiare ad accettare la generalizzazione del concetto di "morale di parte" all’insieme dei membri della medesima società, il nostro presente ed il nostro futuro continuerebbero ad essere invariabilmente costellati da "guerre civili permanenti" tra membri della medesima società (come negli ultimi 1700 anni…) e, nel migliore dei casi, da diverse e variegate tirannie del "pensiero unico", come quella che abbiamo vissuto negli ultimi cinquantotto anni e che purtroppo, nel nostro presente, stiamo ancora vivendo e continuando ogni giorno a sperimentare sulla nostra pelle!
E’ dunque per questa sola ed unica ragione che – pur ribadendo ai Camerati (credenti o non credenti; monoteisti o politeisti) il messaggio di concordia (o, almeno, di non belligeranza…) politica che mi sono permesso di lanciare loro e che è insito nel romano " quod pro ceteri sacrum, pro nobis sacrosanctum est " – tengo ugualmente a riaffermare il mio modesto punto di vista sul problema religioso all’interno delle società umane: e cioè, che le religioni o le scelte antireligiose, qualunque esse siano, debbono assolutamente rimanere escluse dalla vita pubblica di qualsiasi società e strettamente confinate all’interno delle mura dell’abitazione di coloro che se ne reclamano.
Ne va del ben vivere e dell’avvenire delle società umane e del futuro tipo di Stato che tutti insieme - credenti e non credenti monoteisti e politeisi (nessuno escluso!) - presto o tardi, dovremo comunque prenderci il compito, l’onore e la responsabilità di riorganizzare.
Alberto B. Mariantoni