Oggetto: OPERAZIONE BABILONIA


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Da "Umanità Nova" n. 43 del 22 dicembre 2002

Operazione Babilonia/1
Guerra all'Iraq o all'Arabia Saudita?
Pubblichiamo la prima parte di un lungo saggio di Giacomo Catrame
dedicato al contesto geopolitico in cui si inserisce la guerra che gli
Stati Uniti si accingono a scatenare contro l'Iraq.

GUERRA ALL'IRAQ O ALL'ARABIA SAUDITA?

Come è ormai ampiamente noto gli Stati Uniti hanno vinto la prima mano
della partita denominata "guerra all'Iraq". La risoluzione dell'ONU,
infatti, non autorizza l'automatico intervento militare contro l'Iraq,
come ufficialmente richiesto dagli USA e dalla Gran Bretagna, ma pone
tali condizioni al governo del dittatore Saddam Hussein da permettere
qualsiasi provocazione da parte di un qualsiasi agente della CIA
travestito da ispettore dell'ONU. D'altra parte è abbastanza chiaro che
Bush e Blair hanno puntato su una posizione massimalista per ottenere da
Francia, Russia e Cina una risoluzione ufficialmente più morbida ma le
cui conseguenze portano esattamente alle stesse conclusioni volute da
Londra e Washington.

La guerra, quindi, per ora è rimandata ma sicuramente ci sarà. È solo
questione di tempo.

La pervicacia con la quale l'amministrazione Bush (e quella del
maggiordomo Blair) cercano il conflitto definitivo con lo stato
mediorientale non si può spiegare né con le menzogne utilizzate da
questi governi come giustificazioni, né con l'analisi più in voga nella
stampa indipendente che vede questa volontà nascere dal semplice
desiderio anglo-americano di appropriarsi di alcuni giacimenti
petroliferi.

Il petrolio, infatti, centra, ma non tanto come semplice obiettivo,
quanto come vero e proprio strumento di guerra per ottenere la
risistemazione della carta geopolitica del Medio oriente secondo gli
interessi della superpotenza globale e del suo fido alleato europeo.

La visione geopolitica che si è affermata a Washington negli ultimi anni
ha subito una drammatizzazione con gli attentati dell'11 settembre, ma è
maturata ben prima del doppio schianto aereo dello scorso anno.
I motivi che hanno portato alla costruzione di questa nuova visione
dell'ordine del Medio Oriente da parte degli americani sono da
ricercarsi nella crisi di fiducia di questi ultimi verso la leadership
saudita, motivata dai dubbi sulla tenuta della famiglia Saud, dal
tentativo della diplomazia di Riyad di intromettersi nel conflitto
israelo-palestinese, dall'incerta situazione economica americana che
abbisogna di ulteriori riduzioni dei prezzi petroliferi oggi come oggi
impediti dall'OPEC e dal rischio di incontrollabilità del Golfo Persico
attualmente una delle vie principali di trasferimento del greggio verso
l'Occidente.

Con la dichiarazione di "Guerra infinita al terrorismo" gli Stati Uniti
hanno costruito uno scenario mondiale inedito all'interno del quale
hanno assunto il ruolo di protagonisti assoluti. La prima priorità che
il governo di Washington ha assunto in questo quadro è stata quella
dell'indipendenza energetica, con la conseguenza di costringerli ad
aprire il "dossier Arabia Saudita". Come i governanti americani ben
sapevano, infatti, i sauditi finanziano da almeno due decenni le reti
terroristiche internazionali legate alla corrente islamica wahabita (la
stessa alla quale appartengono i regnanti sauditi) e lavorano fin dal
1980 alla diffusione delle proprie reti politico-religiose in quell'Asia
Centrale che sembra destinata a diventare particolarmente importante dal
punto di vista energetico nel futuro immediato.

L'Arabia Saudita, quindi, si presenta con le caratteristiche di "stato
canaglia" per gli USA ben più di Iraq e Iran. Inoltre l'amministrazione
americana è sempre stata perfettamente a conoscenza dell'operato saudita
dal momento che la CIA ha attivamente collaborato alla costruzione di
queste reti ai tempi della "Guerra santa" contro l'URSS e che il
finanziamento di Washington è stato fondamentale per la loro
attivazione.
Il problema centrale per gli Stati Uniti, ampiamente incomprensibile per
i sostenitori delle teorie che hanno il loro centro nella negazione del
ruolo degli stati, è la connessione tra l'Arabia Saudita e l'Occidente
fatta di filiere finanziarie internazionali e del ruolo di calmiere del
prezzo petrolifero assunto da questo paese.

L'intenzione americana di punire l'Arabia Saudita per il ruolo di
opposizione coperta alla politica americana non può quindi consistere in
una guerra contro lo stato della penisola arabica, ma inizia ad assumere
in modo scoperto le fattezze della demolizione del meccanismo di
controllo del prezzo petrolifero incarnato dall'OPEC. L'operazione
geopolitica americana è quella di colpire le opposizioni arabe al
proprio dominio incontrastato in Medio oriente tramite il petrolio,
immettendo sul mercato significative quantità di greggio capaci di far
saltare il delicato meccanismo che governa l'offerta (e, quindi, il
prezzo) di petrolio. Queste risorse, però, per ottenere lo scopo
preventivato devono provenire da ricchi giacimenti a basso prezzo di
estrazione e vicini alle infrastrutture di trasporto. Al mondo esiste
solo un luogo che assommi queste caratteristiche: l'Iraq. Per punire
l'Arabia Saudita, quindi, agli americani serve l'Iraq e il suo petrolio.

IL SISTEMA DEI TRE MARI

La guerra americana per rendersi indipendenti dal punto di vista
energetico è iniziata con la guerra del Golfo del 1991. Allora gli USA
pensarono che la "liberazione" del Kuwait, la distruzione del potenziale
bellico dell'Iraq e l'occupazione di fatto dell'Arabia Saudita (da
allora sono presenti sul territorio saudita sono presenti 35.000 soldati
americani) bastasse a garantirsi il controllo delle risorse energetiche
dell'area.
A partire dalla metà degli anni novanta, però, gli Stati uniti hanno
iniziato a rendersi conto che la prima guerra contro Saddam non era
bastata né a stabilire il controllo sulle risorse mediorientali, né a
risolvere le questioni legate alle risorse energetiche alternative a
quelle della penisola arabica presenti in Asia Centrale.
Risale a quell'epoca il battesimo del sistema geopolitica detto dei "Tre
mari" (Adriatico, Nero e Caspio) dal quale dipende il controllo del
trasporto del greggio dell'Asia Centrale e l'avvio della battaglia per
stabilire il dominio di Washington su di esso. Inizialmente gli USA
hanno giocato la carta della contrapposizione contro la Russia il cui
episodio più significativo è stata la guerra del Kosovo. L'obiettivo di
questa continuazione della Guerra Fredda era quello di valorizzare e
rendere commercializzabili attraverso il Mediterraneo le risorse
petrolifere del Caspio non russo né iraniano. La base di
quest'operazione è stato l'Azerbaigian, tramite il quale Washington ha
"agganciato gli altri stati dell'area (Georgia, Kazakistan,
Turkmenistan, Uzbekistan) sottraendoli all'orbita di Mosca. Naturalmente
questa operazione ha rafforzato il ruolo della Turchia, principale
alleato di Washington nell'area, secondo esercito della NATO e
affidabile traghettatore del petrolio centroasiatico. Non a caso in
quegli anni nasce in Turchia il progetto "grande Turan" che mirava a
costruire una sorta di Commonwealth tra le popolazioni turcofone
dell'Asia Centrale con base ad Ankara. A quest'operazione, fatta di
investimenti per percorsi per il trasporto energetico che evitassero il
territorio russo e quello iraniano e di sabotaggio dell'uso degli
oleodotto e dei gasdotti russi, non è estranea nemmeno la guerra in
Cecenia, dal momento che la guerriglia cecena è stata per anni
addestrata e finanziata (in un rapporto di collaborazione e insieme di
competizione) da turchi e sauditi sotto la supervisione della CIA e la
longa manus di Condoleeza Rice, oggi ministro dell'amministrazione Bush
e allora consigliera per l'area della compagnia petrolifera
Chevron-Texaco. Il progetto americano dell'epoca era quello di replicare
in seguito questa operazione in Asia Centrale, questa volta in funzione
anticinese. Inizialmente l'operazione in Afganistan dopo l'11 settembre
è stata coerente con questa visione, soprattutto per quanto riguarda
l'opposizione alla crescita della Cina come potenza regionale. I
rapporti russo-americani, però, hanno avuto un significativo mutamento
nel corso dell'anno seguito all'11 settembre. In primo luogo sono mutati
i rapporti tra le compagnie petrolifere anglo-americane presenti
nell'area (Chevron-Texaco, Shell) e i due giganti russi, Lukoil e Jukos,
oggi orientati a una stretta collaborazione basata sul riequilibrio
degli interessi economici dei due paesi, pagato dalla Russia con
l'accettazione della propria marginalità sul piano geopolitica globale.


La Russia, comunque, ha portato a casa alcuni importanti risultati per
quanto riguarda la questione degli oleodotti: la realizzazione
dell'oleodotto Tengiz (in Kazakistan) - Novorossijsk (porto russo sul
Mar Nero) grazie all'impegno di un consorzio internazionale, la
modernizzazione (svolta in condominio con le compagnie angloamericane)
della rete energetica dei paesi ex sovietici dell'Asia Centrale, la
spartizione delle piattaforme petrolifere con Azerbaigian e Kazakistan e
la costruzione del gasdotto sottomarino Bluestream che congiunge Russia
e Turchia attraverso il Mar Nero. Costruzione quest'ultima svolta
dall'Eni. Inoltre la Russia è rientrata nel sistema di trasporti
petroliferi che toccano l'Adriatico (dal quale era stata espulsa con la
guerra del Kosovo e la successiva caduta di Milosevic) grazie
all'accordo con la Croazia che permette l'aggancio del circuito
petrolifero Russia-Europa con quello che da Belgrado porta a Zagabria e
da lì all'Italia.

Gli americani, per la loro parte, hanno ottenuto la partecipazione russa
(e quindi la non opposizione di Mosca) alla costruzione del
megaoleodotto Baku (nell'Azerbaigian) - Ceyhan (porto turco sul
Mediterraneo. Se il "gioco dei tre mari" cambia le sue carte,
trasformando l'avversario di ieri (debitamente ridimensionato) in
alleato, non cambia però il nome del maggior beneficiario dell'area,
quella Turchia che vede ampliarsi il suo ruolo nevralgico come custode
degli oleodotti principali (e di molti di quelli in costruzione) della
regione.

In questo modo gli americani hanno raggiunto il primo dei loro
obiettivi, stabilizzando il sistema dei tre mari, convogliando la gran
parte delle risorse energetiche dell'area verso il principale alleato
mediorientale: la Turchia. La sicurezza americana all'interno di questo
settore del "gioco" è tale che a marzo di quest'anno anche il gas
iraniano ha ricominciato a fluire verso la Grecia tramite la Turchia. Il
risultato di stabilizzazione è stato tale che l'intera politica
energetica americana in Medio Oriente può essere descritta in questo
slogan: "far confluire il greggio e il gas del Medio oriente verso il
mediterraneo, evitando a ogni costo che si diriga verso il Golfo
Persico". Ritornando alla principale questione di quest'articolo, la
prossima guerra in Iraq, bisogna ricordare che l'intero sistema di
trasporto energetico di questo paese è direzionato sia verso il
Mediterraneo che verso il Golfo; in coerenza con la politica dei tre
mari quando si trattò di decidere quale dovesse essere l'oleodotto da
utilizzare per far fluire il petrolio necessario all'attivazione del
programma Oil for Food gli americani fecero pesanti pressioni fino ad
ottenere la scelta della tratta Kirkuk-Ceyhan a scapito di quella
Bassora-Fao (porto sul Golfo Persico).

Giacomo Catrame

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Da "Umanità Nova" n. 2 del 19 gennaio 2003

Operazione Babilonia/2
Il petrolio come arma politica
Pubblichiamo la seconda parte del lungo saggio di Giacomo Catrame
dedicato al contesto geopolitico in cui si inserisce la guerra che gli
Stati Uniti si accingono a scatenare contro l'Iraq. La prima parte
"Operazione Babilonia/1. Guerra all'Iraq o all'Arabia Saudita?" è uscita
sul numero 43 del 2002. La terza, ed ultima, parte, verrà proposta sul
prossimo numero di UN.


IL PETROLIO COME ARMA POLITICA

Il petrolio iracheno, quindi, assume agli occhi di Washington (e di
Londra) la funzione di strumento di disarticolazione del cartello dei
maggiori paesi produttori di petrolio, nonché di mezzo di pressione nei
confronti degli altri tre membri del Consiglio di Sicurezza dell'ONU
dotati del potere di veto (Francia, Cina e Russia), le cui riserve sono
state bypassate (pur permettendo loro di salvare la faccia)
minacciandone l'esclusione dal mercato del greggio mesopotamico. È già
stata data comunicazione ufficiale della formazione di un consorzio
petrolifero guidato dall'Exxon-Mobil e dalla Chevron-Texaco (e con la
sicura partecipazione dell'anglo-olandese Shell) che nel dopo Saddam
gestirà le quote di produzione e le postazioni più interessanti del
paese. Queste postazioni sono le stesse il cui sfruttamento russi,
francesi e cinesi (oltre che italiani, vietnamiti, algerini e indiani)
hanno trattato con Saddam in questi anni in vista della fine delle
sanzioni. In particolare i russi hanno centrato la loro attenzione su
tre giacimenti particolarmente promettenti situati nell'Iraq meridionale
e garantiti da un maxiaccordo per 40 miliardi di dollari, mentre i
francesi di TotalFinaElf avevano raggiunto un accordo per lo
sfruttamento del giacimento di Magnun situato al confine con l'Iran e
accreditato di una potenzialità di 30 miliardi di barili. I cinesi,
infine hanno avviato ricerche e accordi per lo sfruttamento dei
giacimenti ancora poco sfruttati del deserto occidentale. Gli italiani,
gli indiani, gli algerini e i vietnamiti (e dietro a loro sembra anche i
tedeschi) si sono per ora limitati ad accordarsi per future ricerche
nella stessa area dove avrebbero dovuto operare i cinesi. Lo stesso
programma Oil for Food è entrato clamorosamente nel gioco ad
impadronirsi del petrolio iracheno. Questo non solo a proposito del
percorso dell'oleodotto prescelto per il trasporto del greggio,
decisione che come abbiamo visto ha favorito la Turchia e il suo ruolo
nell'area. Questo ruolo e i finanziamenti ricevuti dall'ONU per
svolgerlo ha permesso ad Ankara di iniziare prospezioni petrolifere nel
nord dell'Iraq (che occupa militarmente) d'intesa con il Partito
Democratico del Kurdistan di Barzani che amministra l'area al confine
con il paese di Ataturk; altre prospezioni, sempre con gli stessi fondi,
sono state avviate d'intesa con lo stesso Saddam nel sud Iraq a
maggioranza sciita. Tutti questi movimenti spiegano bene la riluttanza
dei turchi a prendere parte alla guerra che si avvicina senza avere
avuto rassicurazioni certe sul futuro dei propri investimenti
petroliferi, anche se occorre sottolineare come essi siano avvenuti non
in contrapposizione con gli interessi delle compagnie petrolifere USA ma
in piena concordia con loro che in questo modo si sono assicurate una
riserva di un milione di barili al giorno utile a calmierare il prezzo
del greggio in caso di forzature da parte dei paesi OPEC.

In generale il sistema energetico iracheno si presenta come ben più
interessante di quanto non si pensasse alla fine della prima Guerra del
Golfo, sia per le riserve accertate di petrolio (112 miliardi di barili,
l'11% di quelle mondiali), sia per quelle possibili che si pensa siano
almeno il triplo. Baghdad si affermerebbe in questo caso come il primo
paese produttore del mondo e il primo fornitore di Europa e Asia, e
potrebbe decuplicare l'attuale produzione massima potenziale stimata in
2,8 milioni di barili al giorno. Oltre al petrolio non si deve
dimenticare che le più recenti stime indicano che l'Iraq potrebbe
decuplicare in dieci anni la sua produzione di gas (attualmente ferma a
soli 160 milioni di metri cubi al giorno) grazie ai giacimenti appena
scoperti nel nord est del paese, mentre si calcola che la produzione di
gpl (gas petrolio liquido) dovrebbe portarsi a 3,8 milioni di tonnellate
annue. In qualche misura, quindi, un vero e proprio paese del Bengodi
del capitalismo petroliero.

Tutto questo rende comprensibile non solo l'operazione anglo americana
volta al controllo totale delle risorse del paese, ma anche gli scontri
sottotraccia tra i molti beneficiari di questo piano, tra loro in
rapporto di collaborazione-competizione ma totalmente infeudati agli
Stati uniti, dalla cui benevolenza dipende la loro partecipazione a
questo grande business. I turchi non vogliono perdere la loro posizione
di privilegio nel controllo del tracciato gas-petrolifero Iraq-Europa
via porto di Ceyhan, e sono coscienti che eventuali turbolenze nella
zona curda potrebbero convincere gli americani (una volta che essi
fossero definitivamente padroni del paese) a utilizzare la
bidirezionalità del sistema di oleodotti e gasdotti iracheni per
spostare il flusso verso il Golfo. Per Ankara, quindi, diventa
essenziale garantirsi buoni rapporti con i curdi iracheni senza peraltro
mollare di un'unghia nell'attività di repressione e di genocidio
culturale dei curdi di casa propria. I curdi iracheni, sia quelli del
Partito Democratico del Kurdistan (Barzani), sia quelli dell'Unione
Patriottica del Kurdistan (Talabani) sono coscienti delle possibilità
che una guerra può loro aprire e mirano alla diretta gestione del
greggio presente sul loro territorio e non solo più ad ottenere tasse di
transito e quote di produzione. La pace tra i due partiti curdi e la
formazione di un loro parlamento sembra rispondere alla necessità di
rendersi credibili in vista del futuro conflitto con la Turchia per la
gestione del petrolio della zona. Inoltre Ankara e i curdi iracheni sono
in competizione per la futura gestione dell'area di Kirkuk, situata nel
nord dell'Iraq ma fuori dalla zona sotto controllo curdo.

La Siria, infine è anch'essa interessata al proseguimento della politica
di trasporto del petrolio inaugurata dal programma Oil for Food che,
come abbiamo visto ha privilegiato la direzione Mediterraneo rispetto a
quella del Golfo. In questi anni, infatti, i siriani hanno ottenuto
l'implicito assenso americano alla gestione di ampie quote di petrolio
iracheno di contrabbando trasportato dall'oleodotto Kirkuk-Baniyas
(porto siriano) e i loro tentativi di non uscire dal gioco oggi si
concentrano sul rendere ufficiale questo flusso; obiettivo raggiungibile
solo con l'accordo degli Stati uniti, e questo dato spiega meglio di
mille analisi il voto favorevole della Siria in sede di Consiglio di
Sicurezza dell'ONU alla risoluzione-capestro sulle ispezioni in Iraq.

Come api sul miele tutti gli attori che possono guadagnare qualcosa (o
confermare i risultati ottenuti) dalla fine del regime di Saddam hanno
iniziato la corsa al miglior posizionamento nel futuro ordine iracheno.
Per quanto riguarda gli USA, però, l'obiettivo è ben più ambizioso del
semplice controllo del petrolio del paese mesopotamico; esso, anzi, è il
tramite per l'obiettivo vero e proprio: l'Iraq filoamericano uscirà
dall'OPEC, affrancandosi dagli obblighi di quota, affermandosi come
alternativa petrolifera all'Arabia Saudita (e, en passant, al Venezuela,
all'Iran e magari un domani a una Russia meno sdraiata sulle posizioni
americane). La conseguenza sul breve periodo sarà probabilmente quella
di portare il prezzo del barile a 15-16 dollari, e sul medio periodo a 9
o dieci dollari. Una colossale riduzione del reddito e dell'influenza
politico-economico dei paesi produttori e una gigantesca iniezione di
liquidità dovuta a risparmio per l'economia americana, la cui dipendenza
dal greggio non solo non verrà messa in discussione ma, anzi, alimentata
da questi sviluppi. Sviluppi che metteranno viceversa in difficoltà le
politiche europee volte alla differenziazione energetica e alla maggiore
dipendenza dal gas, e quelle cinesi tese alla ricerca di fonti
petrolifere indipendenti dal ferreo controllo americano.


ARABIA E RUSSIA: DUE FRONTI DELLA GUERRA ALL'OPEC

Le ragioni profonde della rottura non pubblicizzata tra gli USA e
l'Arabia Saudita vanno ricercate nella politica energetica di
quest'ultima. Secondo le proiezioni sull'aumento della domanda USA di
petrolio la dipendenza di questi ultimi dal greggio OPEC passerà entro
il 2002 da 5,4 a 9,7 milioni di barili al giorno. Riyad è in testa alla
classifica dei fornitori USA e quindi vedrebbe aumentare di molto le
proprie vendite agli Stati Uniti. Quasi la metà dei 4,3 milioni di
barili al giorno che gli USA consumeranno in più dovrebbe infatti avere
origini saudite.

L'Arabia Saudita, però, non ha fatto nulla per incamminarsi su questa
strada, l'aumento di capacità produttive è stato modesto: da 8,8 a 9,4
milioni di barili al giorno, di cui soltanto 7,5 di produzione
effettiva. In questi anni l'Aramco (la compagnia petrolifera saudita)
non ha investito a sufficienza per rispondere alla crescita preventivata
della domanda americana. Questo fondamentalmente per mantenere il più
alto possibile il prezzo del barile.

Gli americani richiedono ai sauditi di portare per il 2010 la loro
capacità produttiva a 14 milioni di barili al giorno (riserve incluse) e
per ottenere questo sono giunti a offrire a Riyad di gestire
direttamente la ricerca e la produzione del petrolio in Arabia Saudita.
In altre parole, di fronte alla freddezza saudita nel rispondere alle
richieste americane di aumentare la produzione, gli Stati Uniti
propongono a Riyad di passare dalla commercializzazione del prodotto
saudita al controllo del territorio del regno mediorientale. Controllo
che sarebbe garantito militarmente dai soldati americani presenti in
Arabia. Washington di fatto ha chiesto a Riyad di accettare
amichevolmente che gli Stati Uniti facciano fare al loro paese la stessa
fine dell'Iraq. Solo senza bisogno di una guerra.

Di fronte a questa offensiva americana che a tratti diventa franca
minaccia, la casa regnante dei Saud ha provato a reagire utilizzando
quattro armi: da un lato il finanziamento dei movimenti wahabiti armati
in Asia Centrale e Caucaso, dall'altro l'appoggio diplomatico e
spettacolare alla causa palestinese (proposta del principe ereditario
'Abdallah, subito appoggiata dal pagliaccio nostrano Berlusconi e
immediatamente passata in cavalleria), da un lato minacce riguardanti la
diminuzione della produzione in caso di conflitto, dall'altro proposte
di utilizzare la propria eccedenza petrolifera (dai 2 ai 2,5 milioni di
barili al giorno) per evitare un'impennata del prezzo in caso di
conflitto prolungato. Anche Riyad come Washington cerca di usare insieme
bastone e carota, ma il gioco saudita è molto più difficile e rischioso,
e la stessa famiglia ha oggi visibilmente paura di una sua
defenestrazione dal trono arabo soprattutto dopo che a Londra e negli
ambienti oltranzisti di Washington si è iniziato a parlare di
un'eventuale sostituzione dell'attuale famiglia regnante con quella
hashemita, un tempo custode dei luoghi sacri dell'Islam e oggi confinata
al trono di Giordania. La sensazione di isolamento deve essere davvero
forte nei palazzi dei Saud se, per la prima volta dalla caduta dello
Shah, si sono avuti colloqui positivi tra i ministri degli Esteri arabo
e iraniano.

Il primo fronte della "Guerra all'OPEC", quello arabo, in sintesi può
essere descritto così: Washington ha bisogno per rilanciare un'economia
in recessione di aumentare notevolmente il consumo di petrolio e ridurne
notevolmente il costo; nello stesso tempo allo scopo di evitare che dei
potenziali futuri concorrenti possano ottenere l'accesso privilegiato
alle risorse energetiche fondamentali ha necessità di ottenere il
controllo dei principali giacimenti di gas e petrolio tra il Medio
Oriente e l'Asia Centrale. Per ottenere questi obiettivi deve piegare
l'OPEC ottenendo i prezzi più bassi possibili e, insieme, deve ottenere
il controllo di uno dei due paesi che dispongono di riserve tali da
condizionare fortemente il prezzo del petrolio (l'Iraq) e piegare
l'altro ad accettare il proprio protettorato (l'Arabia Saudita) con le
buone o con le cattive.

Il secondo fronte della guerra all'OPEC è rappresentato dalla Russia nei
confronti della quale, come abbiamo visto, gli Stati Uniti hanno
compiuto una svolta decisa nel senso del miglioramento dei rapporti.
L'obiettivo di questo riavvicinamento americano è la volontà di
sfruttare la ripresa petrolifera russa per creare approvvigionamenti
alternativi che consentano loro di combattere meglio la guerra dei
prezzi. L'interesse russo nell'accompagnarsi agli USA nella guerra
all'OPEC è rappresentato dalla prospettiva di rastrellare i
finanziamenti e il know-how necessario per lo sviluppo dei giacimenti
siberiani e dell'isola di Sahalin. I capitali e le capacità tecniche
necessarie per queste operazioni sono reperibili solo tra le
corporations americane le quali, come abbiamo visto hanno tutto
l'interesse a finanziare le trivellazioni al fine di disporre di
ulteriori alternative al greggio saudita.

Al momento, però, questo secondo fronte risulta ancora un'incognita dal
momento che le ricerche russo-americane sui nuovi giacimenti sono appena
all'inizio e la Russia riesce ad eccedere di appena un milione di barili
al giorno la quota assegnatale dall'OPEC. È evidente che i russi sono
disposti a seguire gli Stati Uniti nella guerra per l'abbassamento dei
prezzi, ma è altrettanto evidente che in questo momento non sono in
grado di assestare ai paesi OPEC un colpo decisivo.

In compenso la Russia è interessata a salvaguardare i suoi interessi in
Iraq che non riguardano tanto il regime di Saddam quanto la possibilità
di contare sul flusso di petrolio iracheno tramite la Siria e di trarre
profitto dagli investimenti fatti finora sul sottosuolo del paese
mediorientale. Una convergenza con Washington su questi terreni non è da
escludere ma ad oggi non è nemmeno scontata, dal momento che la volontà
americana è quella di evitare intromissioni nella gestione del greggio
del Golfo.


IL QUARTO MARE

Ultimamente nel dibattito geopolitica si è iniziato a definire "Quarto
mare" l'area dell'Asia Centrale particolarmente ricca di materie prime
energetiche e teatro delle ripresa del "Grande gioco" tra potenze.
Quest'area è da tempo teatro dell'interferenza americana. In un primo
momento, durante l'invasione sovietica dell'Afganistan, gli Stati Uniti
hanno agito in collaborazione con sauditi e pakistani. In quel momento
la diffusione dell'islamismo wahabita era appoggiata da Washington dal
momento che gli americani erano convinti che l'ampliamento della sfera
di influenza dei Saud andasse a tutto vantaggio della strategia di
controllo energetico USA. In un secondo momento, come sappiamo,
l'insorgere di correnti antiamericane all'interno della galassia
wahabita estremista ha convinto gli americani a dare il via a un'azione
diretta di controllo dell'area scontrandosi con gli ex alleati.
L'attentato alle Twin Towers e la guerra afgana (che, giova dirlo,
continua nell'assordante silenzio dei media) sono solo i risultati più
evidenti di questa battaglia che ha come posta in palio il controllo
delle risorse energetiche mondiali e, quindi, i rapporti di forza tra la
superpotenza americana e il resto del mondo.

La consistenza esatta delle risorse del "Quarto mare" è tuttora poco
conosciuta. Le cifre ufficiali sulle riserve di greggio oscillano tra i
7 e gli 8 miliardi di tonnellate ma, in realtà, le ultime scoperte
permettono di pensare che questi valori siano troppo bassi. Inoltre la
possibile unione in solo flusso di greggio delle risorse dell'area con
quelle del Caspio si arriverebbe a superare i 35 miliardi di tonnellate.
Le riserve di gas sono ancora più importanti contando almeno su 8000
metri cubi.

Il collegamento Caspio-Caucaso con il Quarto mare viene a configurarsi
come la grande riserva energetica dell'Eurasia.

Il problema americano nell'area è sintetizzabile in questo: il
collegamento dei tre mari più uno risolve la questione di far
raggiungere l'Europa a queste risorse ma non quella di ottenere lo
stesso risultato con l'Asia del sud est.. Quest'ultima area, infatti,
può essere raggiunta utilmente solo passando per la Russia o per l'Iran.
Non a caso gli Stati Uniti hanno inserito l'Iran nell'ormai famoso "Asse
de male" e operano scopertamente per favorire un cambio di regime. Allo
stesso tempo gli americani ricercano in quest'area la massima
collaborazione dei russi ai quali hanno aperto i consorzi che si
apprestano a sfruttare i risultati di questo business. Esempi lampanti
in questo senso son l'oleodotto Tengiz (in Kazakistan)- Novorossijsk (in
Russia) o quello famoso Baku (in Azerbaigian) - Ceyhan (in Turchia), in
via di realizzazione con la partecipazione di americani, russi, turchi,
arabi, giapponesi e italiani. In particolare per l'Italia sono coinvolte
l'Agip e la Saipem che lavorano la prima alle prospezioni, la seconda
alla fornitura di tecnologie di trasporto.

Giacomo Catrame