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    Predefinito Parmigianino: l'alchimia come arte

    Parmigianino, l'artista rapito dall'alchimia

    L'8 febbraio si inaugurano due mostre per celebrare i cinquecento anni dalla nascita di Francesco Mazzola. La prima a Parma. La seconda, a Casalmaggiore, illustra l'amore dell'artista per le pratiche alchemiche

    di Laura Piccioni

    CASALMAGGIORE (CR) – Esattamente cinquecento anni fa nasceva a Parma Francesco Mazzola, in arte Parmigianino. Un artista raffinato che, rifiutata la lezione classicistica del Bello che permeò la pittura italiana agli inizi del ‘500, indirizzò la sua arte verso la nascente “Maniera”. Un fare pittorico dagli esiti sorprendenti che ebbe in Parmigianino proprio uno dei suoi massimi interpreti. E proprio al Mazzola, ai cinquecento anni dalla sua nascita, è improntata parte della prossima stagione espositiva italiana: mentre Parma, città natale del pittore, celebra il suo illustre figlio con una rassegna-kolossal, Casalmaggiore presenterà l’ultima fase della sua vita con la mostra “Parmigianino e il Manierismo europeo – La pratica dell’alchimia”.

    Un artista come Parmigianino (Parma 1503- Casalmaggiore 1540), la cui opera non ha nulla da invidiare a molti astri del firmamento artistico cinquecentesco, è stato tuttavia “trascurato” da gran parte della critica per molto tempo. Molteplici sono le ragioni di questo ostracismo storico. Certo sul Mazzola, ma anche su molti suoi “compagni di Maniera”, pesarono i giudizi in primis del Vasari (Arezzo 1511 – Firenze 1574), l’autore de “Vite dè più eccellenti architetti, scultori e pittori”. Al di là delle querelle storico-artistiche, proprio nell’opera del biografo-pittore aretino si trovano anche indizi sulla predilezione del Parmigianino per le pratiche alchemiche. Un capitolo importante nella vita del Mazzola, ai più sconosciuto, che ora ben viene ricostruito dalla mostra di Casalmaggiore

    La mostra – Sotto i riflettori gli ultimi mesi di vita dell’artista. Un periodo in cui il Parmigianino, attratto dall’alchimia, arrivò addirittura a trascurare gli impegni presi per la decorazione della chiesa di Santa Maria della Steccata a Parma. Un’inadempienza che avrebbe dovuto scontare con una richiesta di carcerazione. Una condanna che tuttavia riuscì ad evitare con la fuga a Casalmaggiore, dove morì dopo pochi mesi (secondo alcuni sostengono vittima proprio dei vapori nocivi prodotti dagli esperimenti alchemici).

    Il percorso espositivo si articola in tre sezioni: da una prima parte in cui vengono analizzati la componente alchemica e i rapporti con i committenti e l'ambiente culturale parmense ad una seconda che mette in luce il linguaggio alchemico nel XVI secolo attraverso manoscritti, libri antichi e incisioni. L’ultima parte, che ricostruisce anche il laboratorio alchemico, intende presentare in che modo l'interesse per l'alchimia si manifestò nella produzione artistica del Cinque e Seicento, anche a livello europeo. In tutto vengono esposti un centinaio di pezzi tra incisioni, bronzetti, dipinti del Parmigianino e altri autori dell’epoca

    Parmigianino e il Manierismo europeo:
    La pratica dell’alchimia
    Casalmaggiore, Centro culturale Santa Chiara,
    via Formis 1
    8 febbraio - 15 maggio 2003
    Curatrice della mostra: Sylvia Ferino-Pagden

    Dal sito www.ilnuovo.it
    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 31-01-14 alle 23:34

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    Andrea De Pascalis

    IL PARMIGIANINO E L'ALCHIMIA

    Intorno ai rapporti di Francesco Mazzola detto il Parmigianino (1503\1540) con la scienza alchemica, desunti da attendibili fonti storiche e per lungo tempo dimenticati, da alcuni anni si è molto detto e scritto. Il breve saggio di Andrea De Pascalis vuole riassumere i punti principali a favore e contro l’ipotesi di un’interpretazione alchemica delle opere del Parmigianino

    1. Le fonti
    Ne Le Vite, edizione del 1550, Vasari attribuisce al Parmigianino un interesse così forte e dissennato per l’alchimia da averlo condotto alla rovina:“Ma il cervello, che aveva a continovi ghiribizzi di strane fantasie, lo tirava fuor de l’arte: potendo egli guadagnare quello oro, che egli stesso avrebbe voluto: con quello che la natura nel dipignere, e’l suo genio gli avevano insegnato. Et volse con quello, che non potè mai imparare, perdere la spesa e il tempo, et farsi danno alla propria vita. Et questo fu ch’egli stillando cercava l’archimia dell’oro, et non si accorgeva lo stolto, ch’aveva l’archimia nel far le figure; le quali con pochi imbratamenti di colori, senza spesa, traggono de le borse altrui le centinaia de gli scudi. Ma egli in questa cosa invanito, et perdutovi il cervello, sempre fu povero; e tal cosa gli fe’ perdere tempo grandissimo, et odiarlo da infiniti, che più per il suo danno, che per il loro bisogno, di ciò si dolevano...”
    L’interesse del Parmigianino per l’alchimia è collocato da Vasari in un’epoca ben precisa della vita del pittore, quella più estrema: “Poi si tolse a fare alla Madonna della Steccata una opera grandissima a fresco...In questo tempo si diede all’alchimia, et pensando in breve arricchirne, tentava di congelare il Mercurio...”. Il lavoro alchemico avrebbe provocato il dissesto economico e la rovina mentale dell’artista, che sempre più trascurava i pennelli per dedicarsi alle manipolazioni alchemiche: “Perché tenendo egli di molti fornelli et spese, non poteva riscuotere tanto dell’opera, quanto in tal cosa consumava. La qual pazzia fu cagione, ch’egli lasciato per dilettazione di tal novella, la utilità e il nome dell’arte propria, per la finta et vana, in malissimo disordine della vita e dell’animo si condusse”.

    Presto l’interesse per l’alchimia divenne così esclusivo da impedire di concludere il lavoro alla Steccata, incorrendo nelle ire dei committenti, che si rivolsero alla giustizia: “Là onde egli non potendo resistere, una notte si partì di Parma; et con alcuni suoi amici si fuggì a San Secondo; et quivi incognito dimorò molti mesi, di continuo alla alchimia attendendo. Et perciò aveva preso aria di mezzo stolto; et già la barba e i capelli cresciutigli, aveva più viso d’uomo salvatico, che di persona gentile come egli era”.
    Sempre secondo la testimonianza di Vasari, l’alchimia fu indirettamente la causa della morte dell’artista, poiché, essendosi il Parmigianino riavvicinato a Parma, i committenti lo fecero imprigionare, costringendolo alla promessa di dar fine all’opera. “Ma fu tanto lo sdegno che di tal cattura prese, che accorandosi di dolore, dopo alcuni mesi si morì d’anni XXXI...”.

    L’edizione 1568 de Le Vite tratteggia in modo più dettagliato le condizioni del Parmigianino alle prese con la febbre per l’alchimia: “Intanto cominciò Francesco a dismettere l’opera della Steccata, o almeno a fare tanto adagio, che si conosceva che v’andava di male gambe; e questo avveniva, perché avendo cominciato a studiare le cose dell’alchimia, aveva tralasciato del tutto le cose della pittura, pensando di dover tosto arricchire, congelando mercurio;...e non avendo altra entrata, e pur bisognandogli anco vivere, si veniva così consumando con questi suoi fornelli a poco a poco...”. I
    In questa versione de Le Vite il Parmigianino, abbandonata la Steccata dopo la lite con i committenti, fuggì a Casal Maggiore “dove uscitogli alquanto di capo l’alchimie, fece per la chiesa di Santo Stefano, in una tavola la nostra Donna in aria, e da basso San Giovanbattista e Santo Stefano...”. Fu una breve tregua, poiché “Francesco, finalmente, avendo per sempre l’animo a quella sua alchimia, come gli altri che le impazzano dietro una volta, ed essendo di delicato e gentile, fatto con la barba e chiome lunghe e malconce, quasi un uomo salvatico ed un altro da quello che era stato, fu assalito, essendo mal condotto e fatto malinconico e strano, da una febbre grave e da un flusso crudele, che lo fecero in pochi giorni passare a miglior vita...”.
    A condurre l’artista alla tomba non sarebbe stato dunque il dispiacere per l’essere stato condotto in prigione, ma una malattia caratterizzata da malinconia e febbre.


    2. La fine del Parmigianino: testimonianza storica o stereotipo letterario?
    La testimonianza del Vasari non è accettata da tutti. D’altro canto, la tradizione del Parmigianino alchimista tramandataci da Vasari non non era unanime, se appena sette anni dopo la prima edizione de Le Vite, in Dialogo della pittura intitolato l’Aretino (Venezia 1557), L. Dolce scriveva che “Il Parmigianino fu incolpato a torto ch’egli attendesse all’alchimia...”. M. Fagiolo Dell’Arco e altri autori prima di lui rifiutano la versione del Dolce ritenendo che essa nascesse da un atteggiamento moralistico: a loro avviso, L. Dolce condivideva l’opinione di quanti nel suo tempo consideravano l’alchimia un’arte eticamente riprovevole, e smentiva di proposito la fama alchimistica del Parmigianino per non screditare la figura dell’artista. E’ anche vero che la versione di Vasari è avvalorata da un’altra attendibile fonte quasi coeva, Edoari da Herba, che ricorda il Parmigianino come “peritissimo alchimista”.
    Se consideriamo l’effettiva posizione dell’alchimia nella società europea del XVI secolo, troviamo che le motivazioni addotte per rifiutare la testimonianza di L. Dolce sono labili. L’alchimia non fu mai considerata arte eticamente illecita, salvo nei casi in cui essa fu piegata alla falsificazione dei metalli a scopo di lucro. Nel XIV e XV secolo la questione della liceità dell’alchimia era stata ampiamente soppesata da teologi e giuristi: i primi tendevano a ritenere l’alchimia una scienza falsa ma non magica o diabolica (tale era la posizione espressa, ad esempio, nel 1486-1487 nel manuale inquisitoriale Malleus Maleficarum di H. Institor e J. Sprenger); i secondi si schierano pressoché unanimemente per la liceità dell’alchimia, al punto che sul finire del XV secolo Hyeronimus de Zanetinis prendeva atto dell’esistenza di una tradizione giuridica di due secoli a favore dell’alchimia.
    D’altro canto, per gli stessi motivi la testimonianza del Vasari sull’interesse del Parmigianino per l’alchimia non può essere rifiutata a priori. I rapporti tra pittura e alchimia nel XV/XVI secolo sono stati ormai ampiamente dimostrati. Pittori alchimisti furono van Eyck e Beccafumi. E di Cosimo Rosselli (1439-1507) lo stesso Vasari scrive che “La sua passione per l’alchimia fu causa...che lo condusse ad un’estrema povertà”. Semmai questa seconda testimonianza del Vasari, riferita a Rosselli e anch’essa centrata sull’interesse per l’alchimia come fattore che conduce l’artista alla rovina, dovrebbe costringerci a chiederci quanto siano attendibili i dettagli vasariani sulla fine del Parmigianino. Dai brani sopra citati, dal loro tono, appare chiaro che Vasari ritiene l’alchimia una scienza illusoria.
    Nella cultura europea del Medioevo e del Rinascimento l’alchimia fu accolta con sentimenti contrastanti. Se da un lato l’alchimia fa studiata o praticata anche da principi e re, dall’altro essa non riuscì a entrare nelle università, dove pure era accolta e insegnata l’astrologia. Come si già detto, i teologi tendevano a considerare l’alchimia una falsa scienza, in ciò seguendo il giudizio di Tommaso d’Aquino, per il quale l’alchimia era una scienza teoricamente possibile ma i cui procedimenti di imitazione della natura molto difficilmente potevano essere realizzati in laboratorio. Sulla liceità dell’alchimia non disputavano solo teologi e giuristi. Anche eruditi e uomini di scienza polemizzavano spesso se l’alchimia fosse scienza vera o falsa, e su questo problema scrissero dei trattati. Il più noto di questi testi era la Pretiosa margarita novella, opera scritta nel 1330 circa dal medico lombardo Pietro Bono e ancora molto nota all’epoca del Parmigianino, tanto da essere stampata a Venezia nel 1546. E nel 1544 fu scritto a Firenze Questione sull’alchimia di Benedetto Varchi, che discettava se l’alchimia fosse “vera e lodevole, o falsa e biasimevole”. I dubbi sull’alchimia erano stati accolti da figure di spicco della cultura europea del XIV-XVI secolo, ispirando un modello letterario che raffigurava l’aspirante alchimista come un disgraziato che va incontro alla rovina personale e sociale.Nel De remediis utriusque fortunae, del 1366 circa, Francesco Petrarca scriveva: «Individui ricchissimi si consumano per tale futilità. E mentre si sforzano di diventare più ricchi, dedicandosi a questa brutta faccenda, gettano via malamente le ricchezze guadagnate bene. E infine, avendo speso così i loro averi, viene loro a mancare perfino quanto è necessario ai più elementari bisogni. Alcuni, evitando la conversazione degli altri cittadini, se ne stanno in disparte, angosciati e addolorati, avendo preso l'abitudine di non pensare ad altro che ai mantici, alle pinze e ai carboni, e di non frequentare altri che non appartengano alla stessa eretica consorteria; e quasi diventano uomini selvatici. Alcuni, avendo smarrito dapprima la luce della ragione, hanno poi perso anche la luce degli occhi in questo esercizio». Per Petrarca la pratica dell'Arte conduce al disordine della vita individuale e familiare. Egli così avverte l’aspirante alchimista: «La tua casa si riempirà di ospiti strani e di apparecchi bizzarri. Si riempirà di mangioni e di beoni... di bugiardi, di impostori e di soffiatori... In ogni angolo della casa vi saranno bacinelle, fiale e bocce piene di acqua fetida, di erbe sconosciute, di strani sali, solfo, alambicchi e fornelli....Vi saranno affanni inutili, stoltizia, squallore del viso e caliggine degli occhi...Condurrai la tua vita con vergogna e con biasimo, lavorando di notte, nascondendoti come i ladri».
    Nell'Elogio della follia (1511) di Erasmo da Rotterdam gli alchimisti sono: «Coloro che con nuove e misteriose arti cercano di trasformare la specie naturale delle cose e vanno a caccia per terra e per mare di una misteriosa quintessenza. Questa dolce speranza li domina tanto che non retrocedono davanti ad alcuna fatica né spesa, e con meravigliosa inventiva escogitano ogni volta qualcos'altro, e, se s'ingannano, godono persino della delusione, finché, sfumato tutto il loro avere, non hanno più neanche il necessario per costruirsi una stufetta». D’altro canto, queste raffigurazioni letterarie dell’alchimista corrispondevano ad una realtà precisa. Nel De secretissimo philosophico opere chemico, attribuito all’alchimista tedesco Bernardo di Treves e certamente scritto nella seconda metà del XV secolo, l’autore descrive la vicenda della propria ricerca alchimistica come un ininterrotto dilapidare per decenni le sostanze di famiglia in inutili esperimenti. Il presunto Bernardo di Treves descrive l’alchimia dell’epoca come una specie di follia collettiva che aveva investito l’Europa: “Ho visto molti uomini, anzi infiniti, che si affaticavano in queste amalgamazioni e nelle moltiplicazioni al bianco e al rosso, con tutte le materie immaginabili...”. Ad un certo punto la vergogna del fallimento è tale che: “Per la qualcosa, non potendo quasi né bere né mangiare, diventai così magro che tutti pensavano fossi stato intossicato da qualche veleno...”.
    Parmigianino apparteneva realmente alla schiera degli “infiniti” che “congelavano il mercurio” fino all’autodistruzione fisica o il Vasari volle soltanto rappresentare la morte dell’artista - in realtà dovuta a qualche malanno ignoto - secondo lo stereotipo letterario sull’alchimia così in voga nel suo tempo? Alla luce degli elementi disponibili, entrambe le ipotesi sembrano possibili.


    3. Sul simbolismo di alcune opere
    Chi ha ricercato tracce di simbolismo alchemico nelle opere del Parmigianino si è soffermato soprattutto sul “Ritratto del conte Sanvitale” (1524), sull’affresco ispirato al mito di Atteone a Fontanellato (1524) e sulla decorazione incompiuta della Chiesa di S. Maria della Steccata, affidata al pittore nel 1531.
    Bisogna notare, anzitutto, che se si presta fede a Vasari le prime due opere furono eseguite alcuni anni prima che il pittore cominciasse ad interessarsi all’alchimia.

    Il ritratto Sanvitale - Comunque, ad attirare l’attenzione generale di quanti hanno cercato i segni del simbolismo alchemico anche nelle opere precedenti gli anni dell’interesse alchemico del Parmigianino è stato soprattutto il numero 72 raffigurato nel medaglione posto nella mano destra del conte Sanvitale. Per Fagiolo Dell’Arco esso avrebbe un chiaro significato ermetico, poiché - in base alle corrispondenze numeri/pianeti/metalli - il 2 corrisponde a Giove e il 7 alla Luna, il che equivarrebbe ad una coniunctio (la congiunzione tra gli opposti è uno dei capisaldi delle pratiche alchemiche).
    Ma l’autentica congiunzione di cui parlano gli alchimisti è quella tra Re e Regina, tra principio maschile e femminile, ossia tra Solfo e Mercurio, simbolicamente raffigurato in tutta l’iconografia alchemica come unione tra Sole e Luna, e non tra Giove e Luna. D’altro canto, le corrispondenze tra numeri e pianeti variava quasi da autore ad autore di alchimia. E infatti per Van Lennep, che evidentemente attinge a fonte diversa da Fagiolo dell’Arco, il 7 è il numero di Saturno e il 2 quello di Giove.
    Per C. Mutti addirittura il 72 corrisponde all’unità nel tutto. Se proprio avesse senso cercare un significato al 72 in chiave di simbolismo alchemico, si dovrebbe dire più semplicemente che il 7 è il numero dei metalli e dei pianeti e che 2 è il numero dei due princìpi costituitivi della materia metallica al tempo del Parmigianino (Solfo e Mercurio, poiché il terzo principio, come già detto, fu introdotto solo da Paracelso).


    L’affresco del mito di Atteone - Quanto al mito di Atteone, per Fagiolo dell’Arco si tratta anch’esso di un simbolo della congiunzione. Mutti e Van Lennep vi vedono una rappresentazione del “furore eroico”, poiché tale era il significato ermetico attribuito a questo mito da Giordano Bruno. Bruno visse dopo Parmigianino e come filosofo ermetico non era minimamente interessato all’alchimia, anzi nella sua commedia Il candelaio mise alla berlina le ricerche alchemiche: ciò dimostra una volta di più che nel Rinascimento filosofia e magia ermetica non coincidevano con le teorie alchemiche, e l’interesse per l’alchimia non coincideva necessariamente con l’interesse per la magia ermetica e viceversa.
    E’ pur vero che gli alchimisti usavano attribuire significati alchemici ai miti dell’antichità. Quest’uso fu molto in voga nel XVII e XVIII secolo, ma i suoi presupposti risalgono a molto prima. In De Alchemia dialogi duo (1548) l’italiano Giovanni Bracesco già forniva i significati alchemici di una serie di miti e di personaggi della mitologia greca, tra i quali non figura comunque il mito di Atteone.
    In realtà le miniature dei manoscritti alchemici dimostrano come il simbolismo alchemico tra XIV e XV secolo avesse connotazioni diverse da quelle mitologiche. E anche l’esame dei manoscritti alchemici circolanti in Italia fatta da Giovanni Carbonelli mostra immagini che fanno riferimento piuttosto ad aquile, draghi, alberi, sole, luna, stelle ed altri simboli non mitologici.
    E’ ben vero che - come sostiene Fagiolo dell’Arco - la metamorfosi di Atteone potrebbe voler significare la metamorfosi della materia e dell’operatore stesso così cara all’alchimia, ma è impossibile dimostrare che questo fosse il significato profondo dell’affresco. D’altro canto, ne La metamorfosi di Atteone il dettaglio delle donne al bagno ricorda piuttosto, anche sotto l’aspetto formale, un dettaglio di una delle 22 miniature dello Splendor Solis, testo di alchimia del XVI secolo (la copia più antica è del 1532-1535), in cui le bianche figure femminili che si bagnano in una vasca simboleggiano piuttosto il bagno di Diana ossia l’albedo (processo di imbiancamento).
    Semmai si insistesse a ricercare significato alchemico in quest’affresco, il senso occulto dell’opera sarebbe questo, essendo il bagno di Diana un simbolo ben noto all’alchimia dell’epoca del Parmigianino.




    Tre particolari dagli affreschi della saletta di
    Diana e Atteone nella Rocca di Fontanellato

    La Steccata (Particolare “Vergini stolte”) - Risalendo ad un periodo successivo all’approccio di Parmigianino all’alchimia, l’affresco della Steccata dovrebbe essere l’opera dell’artista nella quale ricercare con più attenzione tracce del simbolismo alchemico. In realtà nell’opera non appare nulla di così evidente. Esistono tuttavia alcuni elementi sui quali conviene soffermarsi. L’insieme costituito dalla tre vergini stolte e le tre vergini savie è caratterizzato dal fatto che le sei vergini sono tutte raffigurate con un’anfora sul capo. Il modello iconografico della fanciulla che reca un’anfora sul capo non è sconosciuto all’alchimia.
    Nel caso delle immagini alchemiche, però, l’elemento centrale è costituito non dalle figure femminili ma in ciò che si intravede nei vasi semitrasparenti che recano sul capo. Questa caratteristica della trasparenza manca nell’affresco della Steccata, così come nelle sei figure e nei sei vasi manca qualsiasi altro dettaglio che faccia pensare all’alchimia.
    Ai lati delle sei vergini sono, a coppie, le figure a grisaille di Adamo ed Eva e quelle di Mosè ed Aronne. Proprio la figura di Aronne mostra un simbolismo ricorrente nell’iconografia alchemica: il serpente attorcigliato al bastone, combinazione che caratterizza il caduceo ermetico. Nella figura della Steccata il simbolo sta chiaramente a ricordare l’episodio biblico di Levitico XXI: 4-9, in cui Mosè fa fabbricare un serpente di bronzo che poi pone su un’asta per salvare gli Ebrei assaliti da serpenti velenosi. Ma nell’iconografia alchemica il serpente trafitto o arrotolato su un’asta sta a significare la fissazione del Mercurio. In modo tale è presentato, ad esempio, nel Le livre des figures hiéroglyphiques che dovrebbe risalire al XV secolo. E’ altresì vero che questo simbolo ricorreva nell’iconografia cristiana come simbolo del Cristo, e della promessa di vita eterna. Sfugge invece, ai sensi dell’iconografia alchemica, il collegamento tra i quattro personaggi (Adamo ed Eva, Mosè ed Aronne). Se Adamo ed Eva possono rappresentare la coppia maschile-femminile, o Solfo-Mercurio, non si trovano precedenti per la simultanea raffigurazione di Mosè ed Aronne.
    In Fagiolo Dell’Arco si attribuiscono valenze alchemiche ad altri particolari dell’affresco, quali le colombe e i granchi. In effetti la colomba è frequente simbolo dell’”albedo”, mentre il granchio è segno alchimistico citato in dizionari di alchimia. Esso è raffigurato anche in una miniatura dell’Aurora consurgens (inizio XV secolo). Ma questi due simboli, isolati da un contesto, non rivestono alcun significato.

    La Madonna dal collo lungo - Anche a questo dipinto sono state attribuite valenze alchemiche (Fagiolo Dell’Arco, Mutti). Questa raffigurazione della Vergine starebbe a simboleggiare il vaso alchemico, in genere rappresentato in forma ovoidale (da cui Uovo filosofale) o in forma di vaso dal collo fortemente allungato (vedi, ad esempio, le miniature dello Splendor Solis precedentemente citate).
    Ed è anche vero che il simbolismo dell’alchimia latina prese assai presto ispirazione da quello cristiano, stabilendo tra l’altro il parallelismo tra il Cristo nato dalla Vergine Maria e la Pietra Filosofale nata dall’Acqua Mercuriale. Ma il parallelismo tra il vaso alchemico e la matrice di una divinità femminile è molto più antico, poiché già nell’alchimia ellenistica si era stabilito il parallelismo tra il vaso alchemico e l’utero di Iside. All’alchimia ellenistica appartiene l’espressione “La terra vergine (il Lapis) sarà trovata nella vagina della vergine”.
    Ma anche in questo caso gli indizi sono troppo labili per attribuire all’opera un sicuro significato alchemico nel senso indicato da Dell’Arco: e cioè che la Vergine dal collo lungo, matrice del Figlio, raffigura il vaso alchemico in cui prende forma la Pietra Filosofale.
    Per le motivazioni sopra esposte (l’attestato parallelismo tra Vergine Maria e vaso alchemico in molta dell’alchimia latina) si tratta di una interpretazione valida in linea teorica ma che avrebbe bisogno di ulteriori prove a sostegno.



    4. Il Parmigianino incisore
    Vi sono dunque pochi indizi che consentano di interpretare le opere del Parmigianino in chiave di significati alchemici. Si può concordare con Van Lennep che le tracce del Parmigianino alchimista debbano piuttosto essere ricercate nelle tecniche di incisione che egli adottò.
    Scrivendo dello xilografo Ugo da Carpi, il Vasari afferma: “Non sarebbe troppo lodare l’invenzione dell’incisione con acquaforte....Francesco Mazzuoli incide così una piccola folla di graziosi soggetti....”. L’uso dell’acquaforte, la cui preparazione presupponeva conoscenze “chimiche”, era certamente una novità all’epoca del Parmigianino. Egli la apprese realmente da Ugo da Carpi, come sostiene Vasari?
    L’argomento è stato approfondito da Van Lennep, che ha dimostrato che la tecnica di incisione con acquaforte è nata in Germania all’inizio del 1500 e di lì è stata importata in Italia da Marc’Antonio Raimondi, di cui si conserva una stampa di ispirazione alchemica, che raffigura tre personaggi accanto a un alambicco.
    Raimondi avrebbe rivelato il procedimento al Parmigianino e alla sua cerchia, che ne fece uso a partire dal 1530, data che coincide con quella indicata dal Vasari come inizio dell’avventura alchemica del Parmigianino. Lo stesso Van Lennep ha minuziosamente illustrato l’apporto dato dagli alchimisti alla scoperta e alla messa a punto delle tecniche chimiche poi impiegate per la preparazione dell’acido nitrico e successivamente dell’ aqua fortis.
    E’ possibile perciò che abbia ragione il Van Lennep nell’ipotizzare che fu proprio la manipolazione degli acidi e delle altre sostanze chimiche impiegate per le incisioni a volgere l’attenzione del Parmigianino verso l’alchimia. Ma come sottolineato in precedenza, bisogna considerare quanto fosse forte all’epoca l’interesse per l’alchimia, scienza alla moda. Per cui potrebbe essere plausibile anche il contrario: e cioè che l’abilità del Parmigianino nella tecnica dell’acquaforte sia stata non la causa ma l’effetto delle sue conoscenze alchemiche.

    Ultima modifica di Tomás de Torquemada; 31-01-14 alle 23:46

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    IL "COMMEDIOGRAFO" SGARBI RENDE ONORE AL PARMIGIANINO

    Un atto unico, Dell’arte e della morte, appena terminato e pronto al debutto nella Chiesa Magistrale di Santa Maria della Steccata, a Parma, mercoledì 23 aprile.
    Il sottotitolo dello spettacolo – Gli ultimi giorni del Parmigianino – rivela il senso del progetto: rendere giustizia postuma al genio del pittore Francesco Mazzola, di cui ricorrono i cinque secoli dalla nascita (e del cui “Comitato nazionale per le Celebrazioni” Sgarbi è presidente).
    Giorgio Vasari ci ha raccontato che il Parmigianino morì per avvelenamento di mercurio, che negli ultimi tempi ingeriva perché dedito all’alchimia. – spiega il critico – L’affermazione avvalora la tesi del Vasari, secondo il quale il Parmigianino avrebbe dovuto lasciar perdere le pratiche alchimistiche per dedicarsi completamente alla pittura, ricavandone risultati migliori di quelli che ottenne. Questo atto unico nasce quindi per dire che Vasari aveva torto. La pittura era l’alchimia di Francesco Mazzola, la sua visione del mondo. Vasari era come quelli che sostengono che nella vita si debba fare una cosa sola, per farla bene. Io dico che si può fare bene tutto, e l’opera del Parmigianino lo conferma.
    E’ colpa di ciò che Sgarbi chiama “shock teatrale” se questa pagina di revisionismo artistico non è confinata in un saggio, ma è diventata drammaturgia. Quando ho visitato la Chiesa della Steccata, ho visto la possibilità fisica di farne teatro di questa storia. – prosegue – Parmigianino vi spese gli ultimi nove anni della sua vita, litigò con i fabbricieri per ragioni di compenso e fu fatto incarcerare per inadempienze contrattuali. E gli ultimi mesi, gli ultimi giorni trascorsi dal Parmigianino tra le impalcature di questa chiesa devono essere stati accompagnati da gravi pensieri e da un profondo tormento. Il luogo ideale, insomma, per prendere le sue difese.

    Stralcio di un articolo di Igor Principe su Il Giornale del 17 aprile 2003



    Il sottarco decorato dal Parmigianino in S. Maria della Steccata

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    ... L'opera della Steccata, intrisa di ermetismi, è quella che più di ogni altra ha alimentato il mito di un Parmigianino lunatico e stravagante, dedito ai procedimenti dell'alchimia. E non sembrano esservi dubbi sugli interessi esoterici dell’artista. Al di sotto delle monumentali figure femminili, sei Vergini, lungo il cornicione sovrastante le cantorie della Steccata, Parmigianino ha dipinto anche sei vasi nei quali per due volte il contenuto è del materiale nero, per due volte bianco e per due volte di un rosso incandescente, che, secondo gli ultimi studi di Elisabetta Fadda, trovano corrispondenza nella fasi del processo di distillazione dell'elisir di lunga vita illustrato nel De Alchemia dialoghi duo.

    E' il segno eloquente di una ricerca che secondo il Vasari, portò l'artista a "dismettere l'opera della Steccata... pensando di dover tosto arricchire congelando il mercurio... per che stillandosi il cervello, non con pensare belle invenzioni, né con pennelli o mestiche, perdeva tutto il giorno in tremenar carboni, legne, bocce di vetro...". Il Parmigianino aveva firmato un contratto con i fabbricieri della Steccata il 10 maggio del 1531 impegnandosi a concludere gli affreschi aventi per tema un'Incoronazione della Vergine in diciotto mesi. Non finirono mai. Nel 1539 fu addirittura imprigionato per inadempienza e poi costretto alla fuga per una vicenda che in realtà non è da addebitare al fuoco alchemico ma ai fabbricieri della chiesa, alle loro errate scelte durante la costruzione, come ha spiegato un saggio di Eugenio Battisti. Fu colpa loro se il meraviglioso affresco che ancor oggi abbaglia per la sua bellezza non fu portato a compimento...

    Da La Repubblica dell'otto febbraio 2003


    Vergini stolte (particolare del sottarco)


    Vergini savie (particolare del sottarco)

  5. #5
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    STECCATA, APPLAUSI PER SGARBI E PARMIGIANINO

    Neppure un'ora con il naso all'insù, ma tutti "stregati" dai dialoghi tra le Vergini del Parmigianino: gli ultimi giorni del pittore hanno commosso, coinvolto, convinto...

    Approfittando di un'ambientazione suggestiva e ricca di significato che solo la Chiesa della Steccata può offrire, sotto lo sguardo delle figure magistralmente nate dalla mano dell'artista e uniche custodi della verità del suo genio, le magie teatrali di Vittorio Sgarbi hanno colto nel segno. Francesco Mazzola, per mano del critico d'arte, ha così potuto rispondere personalmente delle accuse che gli erano state mosse.

    Essenziale l'azione. Ma la staticità delle tre figure, Parmigianino (Massimo Popolizio), il suo accusatore Vasari (Umberto Orsini) e la bellissima Antea (Sabrina Colle), sua ispiratrice e simbolo della passione, non ha tolto nulla all'interesse. È l'opera stessa la vera alchimia di Parmigianino: questo ha suggerito lo spettacolo ideato e scritto da Vittorio Sgarbi.

    Questi affreschi causarono al Parmigianino l'accusa di alchimia, anche perchè il pittore utilizzò, per portarli a compimento, 8.896 fogli d'oro, ha spiegato Sgarbi. In effetti, i fabbricieri della Staccata avanzarono il dubbio che non tutto l’oro fornito fosse stato usato per decorare il soffitto della chiesa... E il Vasari si fece portavoce dei sospettosi e dei moralisti (ehm... quasi un Marco Travaglio dell’epoca... ). “Bugiardo!”, dice Sgarbi. “Bugiardo, bugiardone!”, insiste Massimo Popolizio, l’attore che impersona Parmigianino: gli 8.900 fogli d’oro sono tutti lassù, applicati sui rosoni del soffitto. Per averne la prova basta inerpicarsi su quelle impalcature alte dodici metri, dove il Parmigianino trascorse nove anni della sua vita, e ricostruite per la rappresentazione.

    E così, Vittorio Sgarbi raccoglie la giusta dose di applausi anche per colui che morì solo, e inviso, laggiù a Casalmaggiore.

    Liberamente tratto da Il Giornale e La Gazzetta di Parma di oggi...

  6. #6
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    Recentemente ho visitato la rocca di Fontanellato nei pressi di Parma, nota in particolare per la saletta affrescata dal giovane Francesco Mazzola, il Parmigianino, nel 1524.
    L'opera fu commissionata al Parmigianino dal conte Sanvitale, che volle con questo dono lenire il dolore della moglie Paola Gonzaga, cui era mancato un figlio ancora in fasce. In una piccola e buia saletta Paola si ritirava abbandonandosi a tristi meditazioni.
    Il Parmigianino la ritrae nel gesto di indicare le scene della metamorfosi di Atteone , "reo" di aver visto la nudità della silvestre Diana, scoperta del giovane a lavarsi con le sue ancelle, e per ciò solo tramutato in cervo.
    Atteone è qui rappresentato in sembianze di donna, quasi a voler proiettare il suo dramma su quello della nobile dama.

    La spiegazione lacrimevole e melodrammatica del ciclo di affreschi non mi convince, e voglio esporre i miei dubbi in questo tread, consacrato alle passioni alchimistiche del nostro artista.
    In un testo ermetico di Filalete è detto:"Beati gli Atteoni che giungono a vedere la loro Diana tutta ignuda". Diana, la cui pelle è candida, ci riporta alla fase dell'opus alchimicum detta albedo, che culmina con la realizzazione del corpo di luce, che, ricorda Evola "i Maestri ermetici chiamano la loro Diana.
    Come si spiega allora il destino apparentemente infausto di Atteone, mutato in cervo di fronte ad una così beatifica visione? Secondo la critica ufficiale l'ingiustizia di Diana è quella della natura, che senza ragione intelligibile è ugualmente crudele con i giusti e con i colpevoli. La Natura volle prendersi il figlioletto innocente di Paola Gonzaga come Diana punisce arbitrariamente l'ignaro Atteone.
    Ma il cervo, ho letto in numerosi testi di simbolismo, è tutt'altro che una figurazione della morte, essendo esso stesso animale solare, addirittura assurto nel Medioevo a emblema cristico. Le corna del cervo, presso i Camuni e altri antichi abitanti dell'Europa, sono raggi del sole e l'animale è associato alla regalità.
    Altro animale solare e imperiale è il levriere, il veltro dantesco, che nella saletta compare più volte, prima al seguito del giovane cacciatore, poi nell'atto di sbranare lo stesso trasmutato in cervo e reso irriconoscibile ai suoi stessi cani.
    Ora, proprio al di sopra del cruento e quasi "sciamanico" banchetto, nello spazio fra due lunette, è affrescato il bimbo morto, con una collana funerea, che con una manina indica la madre, recando nell'altra un ramoscello verde. E' stretto da una figura che non so identificare, sorta di amorino dallo sguardo ambiguo, non umano. Pocco più sotto un melograno, ultimo simbolo che voglio qui prendere in considerazione. Il melograno, rosso e succoso frutto autunnale, è stato considerato dagli orfici un simbolo della vita eterna (consiglio al riguardo un libro di Bachofen recentemente dato alle stampe da BUR), l'autunno essendo d'altronde l'ultima e la più "elevata" delle stagioni-fasi alchemiche. Forse il sacrificio del cervo potrebbe evocare l'opera al rosso o comunque si potrebbe intendere quale rito necessario per accedere allo stato superiore e celeste, il cui emblema è l'aureo melograno, finalmente liberato dalla cure di questo mondo e compimento della Grande Opera.







  7. #7
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    In Origine Postato da Senatore
    La spiegazione lacrimevole e melodrammatica del ciclo di affreschi non mi convince, e voglio esporre i miei dubbi in questo tread, consacrato alle passioni alchimistiche del nostro artista.
    Infatti la spiegazione sembra troppo semplicistica e c’è chi sostiene che la saletta di Fontanellato fosse uno spazio sacro, simile a quello dei santuari eleusini, dedicato alla trasmissione delle conoscenze più elevate.

    Del resto (secondo quanto ho letto sul sito www.zenit-it.com,) l'ipotesi che gli affreschi fossero stati commissionati per ricordare la morte del figlio di Paola Gonzaga e Galeazzo Sanvitale potrebbe avere una motivazione squisitamente alchemica: qui come a Eleusi, forse, si ricordava alla luce delle torce la “separazione tra la madre e il figlio”, e si prometteva l’immortalità agli esseri sofferenti. E il bambino tra le braccia di un’adolescente (l'"amorino dallo sguardo ambiguo, non umano"…), affrescato proprio sopra la lunetta dove il cervo viene sbranato dai cani, va probabilmente davvero identificato con il neonato Sanvitale: un filo di granate al collo e un ramo di ciliegio tra le mani, simboli tradizionalmente legati alla morte di Cristo, sembrerebbero confermare la sua morte ingiusta e prematura.

    Comunque, caro Senatore, per una felice coincidenza, proprio ieri sera ho preparato (preparato, magari… diciamo che, molto più modestamente, ho cercato, salvato e inserito le immagini…) un intervento sulla splendida saletta di Fontanellato. Magari un po' lunghetto ma, a mio parere, molto interessante.

  8. #8
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    Gratianus

    PARMIGIANINO A FONTANELLATO

    [...] Chi si recasse a Fontanellato, piccola cittadella agricola vicino a Parma, potrebbe visitare la Rocca di Sanvitale nella quale, in una piccola stanza, è steso l’affresco commissionato nel 1523 dal Conte Galeazzo Sanvitale al Parmigianino. In questo spazio limitato, lungo le pareti e il soffitto è raccontata la tragica vicenda mitologica di Atteone trasformato in cervo e poi divorato dai suoi stessi cani, per aver sorpreso casualmente Diana-Artemide al bagno.

    Alla base degli affreschi una scritta indirizzata a Diana afferma: “Di’, o Dea, se è la sorte che ha condotto qui il misero Atteone, perché lo dai in pasto ai cani? Solo per una colpa è lecito che i mortali subiscano pene: una simile ira non si addice alle dee” (Ad Dianam / Dic dea si miserum sors huc Acteona duxit a te cur canibus / traditur esca suis /non nisi mortales aliquo / pro crimine penas ferre licet: talis nec decet ira / deas).
    Questo rimprovero fatto alla dea non vuole forse attirare l’attenzione sulla superbia e sull’orgoglio degli uomini che non essendo stati ancora toccati dalla luce della verità pretendono di giudicare ciò che non conoscono?
    Il ciclo di figure inizia con la rappresentazione di Paola Gonzaga che con la mano sinistra tiene tra l’indice e il pollice due spighe di grano, mentre la destra, con l’indice teso, indica un vaso greco a due anse contenente vino. Lo sguardo è rivolto verso il visitatore mentre le labbra accennano un sorriso malizioso, forse per indicare l’insegnamento che in silenzio si dona a chi ha occhi attenti e la mente allenata dallo studio dei classici ermetici. La figura ci ricorda Demetra e Dionisio i culti dei quali sono molto simili.

    Il racconto continua. Due cacciatori inseguono una ninfa: quello in primo piano è Atteone che sta per afferrare con la sinistra la fuggitiva, mentre nella destra tiene stretto un arco nella sua parte superiore. Sulle spalle ha un manto verde e attorno alla vita uno violetto. Il cacciatore in secondo piano, che ha un manto rosa sulle spalle, guarda i due levrieri bianchi legati con una cordicella alla sua mano destra. I collari dei levrieri sono uno rosso e l’altro azzurro. Anche la ninfa, che ha un manto rosso sulle spalle, una veste bianca ed una cintura in tessuto verde, alla quale è legato un corno, guarda i suoi inseguitori: tiene con il polso sinistro, una cordicella dorata alla quale è legato un levriero bianco, a un passo avanti a lei, che ha un collare sul quale spicca una conchiglia.

    Abbiamo qui alcune indicazioni operative utili. I cani sono tre, due da una parte e uno dall’altra e ci indicano i rapporti necessari nella preparazione della prima materia. Anche i collari ci forniscono una preziosa informazione, utile alla preparazione delle materie che dovranno unirsi.
    I levrieri (particolare) sono fermi, tranquilli, hanno le orecchie abbassate e sembra che non partecipino alla dinamica centrale dell’inseguimento. Ad essi il pittore ha dedicato la prima e la quarta lunetta, uno spazio decisamente maggiore rispetto a quello dedicato ai tre personaggi che vengono dipinti nelle due lunette centrali. È evidente il desiderio del Mazzola di attirare l’attenzione del visitatore con quella apparente contraddizione di calma contrapposta alla dinamica centrale. Staticità e calma ci indicano come il metodo sia unico. I cani, che rappresentano simbolicamente l’eterna fedeltà, qui ci suggeriscono che il metodo non solo è uno ma non perfezionabile nel tempo. La dinamica centrale dell’inseguimento ci indica come le due materie, che in questo caso sono all’inizio dell’opera, siano suscettibili di continue future trasformazioni, e che, essendo di natura contraria, maschile e femminile, quando vengono strettamente in contatto, sviluppano una elevata “agitazione”, tipica delle tempeste di cui parlano gli antichi filosofi.

    Passiamo alla parete successiva, dove il racconto si sviluppa all’interno di tre lunette. Vediamo Diana nuda al centro, immersa nell’acqua sino alle cosce, mentre osserva Atteone che inizia a trasformarsi. È evidente dalle palme delle mani rivolte verso l’alto che Diana ha spruzzato Atteone con l’acqua in cui è immersa. Alle spalle di Diana due ninfe fanno il bagno
    Atteone non ha più la barba né le braccia e le spalle virili. Ora, con la testa di cervo, e l’arco nella destra, ha le braccia e le mani chiare e delicate, le vesti bianche, il mantello rosso, e un nastro verde, che sostiene un corno, ai fianchi. Atteone è divenuto la ninfa che inseguiva: l’amante si è trasformato nell’amata.
    La prima materia ha iniziato a trasformarsi grazie all’intervento di Diana, che l’ha spruzzata con l’acqua nella quale è essa stessa immersa. Ma questa metamorfosi è appena all’inizio. Anche qui il pittore e l’ideatore dell’affresco hanno voluto aiutarci indicandoci il percorso che la materia deve ancora compiere. Infatti alle spalle di Diana le due ninfe ci indicano che l’operazione precedente, quella con l’acqua lunare, deve essere ripetuta ancora due volte.
    Presto Atteone si trasformerà completamente in cervo. Quando la putrefazione si sarà realizzata la materia sarà pronta per l’ultima trasformazione.

    Il racconto mitologico sta per giungere al termine. Nelle successive quattro lunette, ciò che gli uomini considerano profondamente ingiusto sta per accadere: Atteone morirà sbranato dai suoi stessi cani per una colpa casuale, non volontaria.
    Lo sdegno appartiene senza dubbio a coloro che non hanno alcuna conoscenza ermetica, mentre l’iniziato approverà quella morte, che considera gloriosa e necessaria per il completamento della Grande Opera. Gli antichi filosofi hanno rappresentato questa delicata operazione con il serpente che divora se stesso.


    Al centro della parete un suonatore di corno osserva il cervo sbranato da tre levrieri bianchi: quello in primo piano ha il collare ornato da una doppia conchiglia. Nella quarta lunetta guardando a destra un vecchio con una fluente barba e con il capo coperto dal berretto frigio parla ad un giovane che è al suo fianco.
    La prima scena appare drammatica, ma sembra che non sia vissuta così dai soggetti in questione. Il cervo è calmo e sereno: accetta questa fine cruenta. I tre levrieri hanno iniziato la loro azione senza acrimonia né ferocia. Se poi osserviamo con attenzione i quattro animali, con sorpresa scopriamo che il cervo Atteone e i cani hanno gli stessi occhi malinconici e fedeli. Non solo, il suonatore di corno, che osserva la scena, non è per nulla spaventato e accompagna con la musica gli ultimi istanti di vita del cervo. Questa non è una rappresentazione di morte, ma al contrario di vita.

    L’immagine dell’ultima lunetta, la quattordicesima, non ha bisogno di commenti. È risaputo che il berretto frigio è il simbolo dell’adeptato cioè di coloro che sono giunti al termine della Grande Opera. Il giovane con il viso attento ma un po’ perplesso sta osservando l’anziano Filosofo che gli sta trasmettendo, da bocca a orecchio, come è nella tradizione, l’insegnamento più prezioso della scienza ermetica: la parola perduta.
    Ora se spostiamo lo sguardo un poco più in alto, al centro della parete, tra le due lunette, vediamo un neonato tra le braccia di una adolescente. Il bimbo – quello a cui sarebbe stato dedicato il tempio – è il risultato di ciò che è accaduto poco più sotto. Lo sguardo intenso della graziosa adolescente, che sostiene il neonato, e il sorriso accennato sulle sue labbra, rivolti al visitatore, vogliono rassicurarci che tutto è giusto, tutto è perfetto, che dalle tenebre è sorta la luce.

    Volgiamo ora lo sguardo verso l’alto. All’apice di ogni lunetta in cui sono stati dipinti i personaggi del racconto, alcune finestre circolari lasciano intravedere parti di cielo: in totale sono quattordici, il doppio di sette. Inseriti tra le lunette, putti esili e delicati giocano: tra le mani hanno melograni, foglie di palma e uva. Più in alto, tutto attorno, un pergolato di pampini termina all’apice con una siepe aerea di forma ottagonale ricca di rose bianche, e al centro delle quali, nel soffitto è stato incastonato uno specchio (intorno al quale – aggiungo io - corre la scritta "Respice finem").

    Il visitatore è sorpreso da questo particolare gazebo, che mostra un netto contrasto tra gli affreschi della fascia alta che sono dedicati alla letizia e quelli della fascia bassa dove si svolge il sacrificio di Atteone. Qui il cielo e la terra sono messi a confronto. In breve, la terra, il mondo in cui viviamo, è caratterizzata dalla separazione cioè la condanna subita dall’uomo per una colpa inconsapevole e il cielo è la terra promessa.

    Il Mazzola e il Sanvitale ci donano qui un altro insegnamento operativo di enorme valore. Collocando lo specchio al centro del soffitto ci vogliono indicare lo strumento ed il metodo operativo, che permetterà all’uomo di raggiungere la Gerusalemme Celeste.
    Lo specchio rappresenta la luna, la natura femminile, che si manifesta riflettendo i raggi del sole sul nostro mondo sublunare. Ne consegue che la terra, resa fertile da questa benefica “pioggia”, farà tornare in vita il seme, che mediante putrefazione, in seguito si svilupperà e fruttificherà. Senza la luna questo processo sarebbe impossibile. Essa infatti ci permette di entrare nel giardino chiuso del re, prima ammansendo il drago che lo sorveglia e poi ad uscirne con i frutti maturi, raccolti sui rami degli alberi.
    Ma non è ancora finito l’insegnamento che i due iniziati si sono proposti di darci. Lo specchio, visto nella sua funzione, riflette la realtà concreta della nostra quotidianità, e per questo non cessa di essere specchio riflettente, cioè non muta la sua natura, la sua funzione. Esso rimarrà sempre specchio e continuerà a riflettere ogni cosa senza che la sua natura ne sia minimamente alterata.
    Lascio ora il lettore alle riflessioni personali, così come avveniva nel passato, quando l’iniziando varcava la porta di quel tempio segreto al lume di candela e quando ne usciva, portando prigioniere nella sua mente le immagini dipinte sulle pareti e il riflesso della debole luce proveniente dall’alto. Ormai, iniziato alle conoscenze superiori, egli si allontanava in silenzio dal cuore della Rocca di Sanvitale, consapevole che era nato a nuova vita.



    Dal sito www.zen-it.com

  9. #9
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    Brava Silvia, sei quasi meglio di Sgarbi...


    Parmigianino a Fontanellato

    Destino infelice e strano quello di Francesco Mazzola detto il Parmigianino, pittore maledetto e tormentato da un'inquietudine di indole moderna, sottolineata con imbarazzo fin dalle fonti antiche. Il Vasari per primo, aprendo il capitolo del la passione del Parrnigianino per l'alchimia, pone le basi per un'interpretazione filosofica, "contenutistica", dell'opera del pittore. Ma rileggendo le pagine delle Vite, appare chiaro che egli limita questo aspetto all'attività tarda del Parmigianino, come una deviazione, un vizio, piuttosto che una vocazione.
    Parmigianino era bellissimo, di lineamenti quasi femminei, con un aspetto fisico infantile, come ci si presenta nel formidabile Autoritratto allo specchio del Kunsthistorisches Museum di Vienna. Una bellezza che vince la deformazione, quasi per una sfida intellettualistica. Parmigianino amava, gli inganni ottici, gli illusionismi visivi.
    Ed eccolo allora ritrarsi di fronte a uno specchio anamorfico, come quello che vediamo sul fondo degli Sposi Arnolfini di Van Eyck.
    Doveva divertirlo questo gioco verbale implicito nell'immagine del proprio volto visto come in una goccia d'acqua. Lo spazio s'incurva, la mano si allunga ed ingrandisce. Vasari descrive l'opera, ma sembra non meravigliarsi che, mentre tutto si piega, si curva, si deforma, il volto del pittore resti intatto e bellissimo: "Per investigare le sottigliezze dell'arte si mise un,giorno a ritrarre se stesso, guardandosi in uno. specchio da barbieri, di que'mezzo tondi: nel che fare vedendo quelle bizzarrie che fa la rotondità dello specchio nel girare che fanno le travi de' palchi, che torcono, e le porte e tutti gli edifizi che sfuggono stranamente, gli venne voglia di, contraffare per suo capriccio ogni cosa. (...) E perché tutte le cose che s'appressano allo specchio crescono, e quelle che si allontanano diminuiscono, vi fece una mano che disegnava un poco grande, con che mostrava lo specchio, tanto bella che pareva verissirna; e perché Francesco era di bellissima aria ed aveva il volto e l'aspetto grazioso molto, e piuttosto d'angelo che d'uomo, pareva la sua effigie in quella palla una cosa divina".(1)
    Mais où sont les neiges d'antan?
    La bellezza se ne va, e il Parmigianino, chiamato a lavorare a Santa Maria della Steccata, a Parma, si mostra svogliato, inizia e interrompe i lavori, chiede anticipi e non rispetta le scadenze, insomma alla Steccata "v' andava di male gambe; e questo avveniva, perché avendo cominciato a studiare le cose dell’ alchimia, aveva tralasciato del tutto le cose della pittura, pensando di dover tosto arricchire, congelando mercurio". (2)Parmigianino è in preda a scienza e magia; la pittura è un mestiere, l'alchimia è speculazione, intellettuale e materiale. "Perché stillandosi il cervello, non col pensare belle invenzioni, né colori i pennelli o mestiche, perdeva tutto il giorno in tramenare carboni, legno, bocce di vetro ed altre simili bazzicature, che gli facevano spendere più, in un giorno, che non guadagnava a lavorare una settimana alla cappella della Steccata"(3).
    Si trattava di una passione che lo travolgeva, consumandone la vita.[i] "Francesco, finalmente, avendo pur sempre l'animo nella sua alchimia, come gli altri che le impazzano dietro una volta, ed essendo di animo delicato e gentile, fatto con laa barba e chiome lunghe e malconce, quasi un uomo selvatico ed un altro da quello che era stato, fu assalito, essendo malcondotto e fatto malinconico e strano, da una febbre grave e da un flusso crudele, che lo fecero in pochi giorni passare a miglior vita".[(i](4)
    Anche per il teorico Giambattista Armenini l'alchimia è come una malattia che trasforma l'anima e corrompe il corpo cambiando la vita del Parmigianino: "Giovane di bello, et vivace ingegno, e tutto gentile, et cortese (…). Ma non contento di così largo favore caduto dal cielo, che vedendo per vizio dell'età prevalere alle virtù l'oro, gli entrò nel capo di voler attendere all'Alchimia, si lasciò corrompere di maniera a questa. pazzia, che si condusse a pessimo disordine della vita, et dell'honore, et di molto gratioso che egli era, divenne bizzarrissimo e quasi stolto".(5)
    Come nel Ritratto di Dorian Gray l'incantesimo dell'eterna giovinezza e bellezza viene spezzato e i tratti infantili del volto del Parmigianino si corrompono in un precoce degrado.
    E’ il passaggio dall'algido mondo delle idee al turgido mondo della materia. Ma quando avviene la conversione? O, se si vuole, quando comincia la sua perdizione? Per Maurizio Fagiolo dell'Arco, che ha dedicato all'artista un saggio inteso a dimostrare la costante alchemica del pensiero del Parmigianino e la sua centralità nella tradizione ermetica del Cinquecento (6), essa coincide con la stessa esperienza pittorica, come un metodo, uno stile, perché l'alchimia non è una semplice analisi chimica, una un sistema di pensiero. La sublimazione dei metalli e la ricerca dell'oro sono metafore di una sublimazione morale e di un'ascesi spirituale. L'alchimista non aspira alla ricchezza, ma al perfezionamento interiore dell'uomo. La pietra filosofale equivale alla luce, al sole, alla divinità creatrice.
    "Il processo alchemico passa attraverso diversi stadi: la, riunione tra gli elementi (coniunctio) a cui segue la coorte della materia iniziale (putrefactio) e infine l’anima si libera per risalire alla divinità (sublimatio): così nasce la pietra filosofale che è la perfetta unità, e in termini fisici loro (..). L'agente che opera la coniunctio e la trasmutazione è il fuoco: l'operazione si svolge nell'athanor, il fornello alchemico, che corrisponde anche al vas hermeticum.".(7)
    Il primo germe di questa ricerca può essere indicato nell'incontro con Galeazzo Sanvitale, il committente degli affreschi per la Rocca di Fontanellato. Il Sanvitale stringe fra le mani una medaglia sulla quale è inciso il numero 72; il Mutti avverte che il 72 è un numero ermetico che equivale alla scritta EN TO PAN al centro della circonferenza ermetica, è cioè il simbolo della solidarietà nella molteplicità, dell'unità del tutto:"Settantadue sono infattii gli attributi cabalistici dell'unità divina, settantadue sono gli angeli secondo il calcolo degli Assiri e dei Caldei, settantadue ii f ili del cordone sacro dei Alazdei, settantadue gli anni solari che formano un giorno del grande anno platonico, settantadue i saggi riuniti da Mosè, settantadue gli spiritii adunati da Tifone contro Osiride, settantadue i pioli che lo Zohar attribuisce alla scala vista da Giacobbe...".(8)
    Con questo lasciapassare, con questa moneta, entriamo, noi che crediamo ai soli valori formali della pittura, nella "stufa" di Fontanellato. Si tratta di una piccola sala rettangolare, di 1,35 per 3,50 metri, alta 3,90 metri, con quattordici lunette affrescate., dodici putti nel recinto di un pergolato che si apre verso il cielo al centro del quale è posto uno specchio tondo; i peducci delle lunette sono costituiti da quattordici teste a rilievo, come immobili maschere mortuarie. La cronologia dell'impresa va fissata al tempo del ritratto di Galeazzo Sanvitale, tra il 1523 e il 1524, prima del viaggio a Roma, in accordo con la critica più avveduta che ha respinto l'ipotesi di una datazione tarda. Il tema della decorazione è ispirato alle Metamorfosi di Ovidio, trattandosi della storia di Diana e Atteone. Ne leggiamo una parafrasi nel fregio continuo, a lettere dorate, che corre sotto gli affreschi: AD DIANAM DIC DEA SI MISERUM SORS HUC ACTEONA DUXIT A TE CUR CANIBUS TRADITUR ESCA SUIS? NON NISI MORTALES ALIQUO PRO CRIMINE PENAS FERRI LICET: TALIS NEC DECET IRA DEAS (A Diana. Di', o dea, perché, se è la sorte che ha condotto qui il misero Atteone, egli è da te dato in pasto ai suoi cani? Non per altro che per una colpa è lecito che i mortali subiscano una pena: un'ira tale non si addice alle dee).
    A questa considerazione suprema e impersonale, o divina, rivolta alla dea corrisponde in alto il monito morale, rivolto all'uomo, con la scritta RESPICE FINEM intorno allo specchio al centro del soffitto.
    La Ghidiglia Quintavalle osserva: "Questo specchio vero, al centro della volta della saletta, doveva riflettere invece, e senza deformazioni, la signora della Rocca, magari seduta in ricche vesti sulla savonarola che il Mazzola ha rappresentato nel ritratto di Galeazzo, ora a Napoli, o, forse, immersa nuda nella vasca, vis-à- vis di Diana con le ancelle. Quanto al motto Respice finem, è evidentemente un monito a seguire attentamente la cronaca del fatto crudele che ha un inizio così limpido e sereno nel cielo azzurro intorno al medaglione".(9)
    Ma non è abbastanza: lo specchio è anche il luogo del doppio, e quindi un invito ad identificarsi con il protagonista della storia, con Atteone, un sottile memento mori. Ma osserviamo le pitture, respice fabulam, respice picturam. Diana, con le ancelle al bagno, scorge Atteone con i suoi cacciatori mentre insegue una ninfa, e subito, con il gesto della mano, alza uno spruzzo d'acqua che trasforma Atteone impaurito in cervo. Lo vediamo mentre, tentando di difendersi dall'equoreo insulto, apparentemente innocuo, già ha la testa mutata in quella dell'animale. Più avanti, al suono del corno, interamente tramutato in cervo, viene dilaniato dai cani.
    Alchemicamente Diana rappresenta la Luna, ed è quindi il principio femminile, ed è anche il sesto grado del processo ermetico, rappresentato dall'argento; di qui i sei palchi delle corna di Atteone. L'interpretazione un po' forzosa proposta dal Fagiolo e dal Mutti è derivata dal Seligmann (10). A complemento di ciò soccorre Giordano Bruno, (11) per il quale Atteone è l'archetipo del cacciatore del divino, animato dagli eroici furori fino al punto di trasformarsi da cacciatore in preda, per una sorta di divino narcisismo. Atteone attraverso il sacrificio, aspira a diventare Apollo. La coniunctio desiderata avviene, attraverso la metamorfosi, nella stessa persona di Atteone, e la tensione verso Diana non avrà mai compimento, anche se la dea è nell'ambiente ideale per la coniunctio alchemica, l'acqua, regressus ad uterum, junghianamente ritorno all'oscura condizione iniziale.(12)
    Dunque la trasformazione di Atteone e l'immersione di Diana nell'acqua rappresentano due forme di partenogenesi. Così, se per la Ghidiglia Quintavalle (13) questo ambiente decorato doveva essere una stanza da bagno, più sottilmente per il Fagiolo essa "era destinata al balneum nuptiale di sponsus e sponsa”(14) Galeazzo Sanvitale e Paola Gonzaga. Certo un bagno cruento, la morte di una condizione e la trasformazione in un'altra. L'interpretazione è integralmente approfondita dal Mutti,(15) che affronta l'immagine apparentemente estranea alla storia, la figura femminile nella lunetta opposta a quella in cui compare Diana. Si tratta certamente di Paola Gonzaga: essa tiene nella mano sinistra una spiga, chiaro riferimento al mito di Demetra, alla morte e alla resurrezione: il seme dà frumento dopo essere stato immerso nella terra, come osserva Kerenyi: "è sempre il frumento ciò che scompare nella terra e ritorna, che nella sua aurea abbondanza viene falciato e tuttavia rimane seme pieno e sano, madre e figlia tutt'insieme"(16)
    Si aggiunga, in questa linea, e non è stato ancora osservato, che Demetra, madre di Artemide-Diana, tiene nella mano destra un vaso, che può essere coerentemente interpretato come l'athanor, o vas hermeticum. Naturalmente il vas, come osserva Jung, è "una specie di matrix (oppure uterus), dalla quale nascerà il filius philosophorum, la pietra miracolosa ".(17) Il logico corrispondente, quindi, dell'acqua in cui è immersa Diana. Questa interpretazione può giustamente chiudersi nello specchio al culmine del soffitto. Osserva il Mutti: "Ilcielo dipinto dal Parmigianino è quello che gli alchimisti chiamano cielo chiuso o cielo ermetico; lo specchio è lo specchio dell arte; la scritta “Respice finem” allude alla fine dell'opera alchemica, che poi coincide con l'inizio di essa”(18)
    Entrati in questa rete di interpretazioni alchemiche, alcune più persuasive, altre più forzate, appassionatici ad alcune, scettici su altre, e aperti anche a rettifiche e a chiose, abbiamo completamente perso di vista Parmigianino e la sua ariostesca e incantata felicità di narratore, che lo fece "nell'arte raro e nei costumi gentile e grazioso, come fu Raffaello". E inutile aggiungere alle tante intelligenti pagine critiche, dalla Fròhlich Bum (19)' al Copertini,(20) al Quintavalle,(21) al Freedberg,(22) Ie origini e le ragioni del suo stile, la sua combattuta discendenza dal Correggio, il ruolo incomparabile nella definizione della civiltà manieristica che ha da Fontanellato alla Steccata i suoi esempi più alti, come congegni predisposti per essere intesi a Fontainebleau e a Bassano, a Cremona e a Napoli, un nuovo linguaggio internazionale.(23) Eppure questo grande, alchemico, intellettuale era stato anche, a Fontanellato, "svelto, e leggiadro più d'un balarin, / agile (se pol dir) del vento al par"(24).

    (Vittorio Sgarbi, FMR, giugno 1983)


    I. Giorgio Vasari, Le Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze 1568. 2. Ibidem, passim.
    3. Ivi. 4. lui.
    5. G.B. Armenini, De' veri precetti della pittura, Ravenna 1587, p. 16.
    6. M. Fagiolo dell'Arco, Il Parmigianino. l n saggio sull'ermetismo del Cinquecento, Roma 1970. 7. Irti, pp. 21-22.
    8. C. Mutti, Pittura e alchimia. Il linguaggio ermetico del Parmigianino, l'arnia 1978, pp. 11-13. 9. A. Ghidiglia Quintavalle, Il boudoir di Paola Gon.zaga signora di Fontanellato, in "Paragone" 1967, p. 5.
    10. K. Seligmann, Lo specchio della magia, Firenze 1965, pp. 158-160.
    11. G. Bruno, De gli eroici furori, in G. Bruno, Dialoghi italiani, Firenze 1958, pp. 1123-1126. 12. C.G. Jung, Psicologia ed alchimia, ed. ital. Roma 1950, pp. 259-263.
    13. A. Ghidiglia Quintavalle, Gli affreschi giovanili del Parmigianino, Parma 1968. 14. M. Fagiolo dell'Arco. al). cii., pp. 39-40. 15. C. Mutti, op. cit., pp. 27-32. 16. C.G. Jung e K. Kerenyi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, ed. ital. Torino 1962, p. 173.
    17. C.G. Jung, op. cit., p. 259. 18. C. Mutti, op. cit., p. 29.
    19. L. Fròhlich Bum, Parmigianino un(] der Manierismus, Wien 1921.
    20. G. Copertini, Il Parmigianino, Parma 1932. 21. A.Quintavalle, Il Parmigianino, Milano 1948. 22. LS. Freedherg, Parmigianino, his Works and Paintings, Cani bridge 1950.
    23. Per un completo aggiornamento bibliografico si veda inoltre P. Rossi, L'opera completa del Parrnigiunino, Milano 1980. 24. M. Boschivi, La carta del navegar pitoresco. Venezia 1660.

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    “Non c’è un’alchimia fuori. L’alchimia è la pittura stessa. E questo grande pittore è riuscito nell’impresa disperata di rendere, attraverso la pittura, una nuova bellezza della donna. Le donne di Parmigianino sono non soltanto Madonne e non soltanto donne: sono un’identità assoluta, immateriale, che è proprio la trasformazione della materia, della pittura, del colore, dei pigmenti, in pura idea.
    Processo alchemico compiuto.”
    (V. Sgarbi)




    Questo bellissimo dipinto rappresenta una giovane donna elegante, graziosa, grandi occhi neri pieni di curiosità e malizia, vestita in maniera originale, come difficilmente si ritrova nelle altre tele del Cinquecento.
    Dalla spalla pende uno di quegli zibellini che furono per quasi tutto il secolo l'ornamento di gran voga e che la moda voleva si rendessero ancora più preziosi ornandone la testa con musetto e baffi d'oro e di argento lavorati, con pietre preziose al posto degli occhi; alle orecchie porta due orecchini pendenti di perle.

    E' Antea, bellissima e ricercatissima "cortigiana" della Roma rinascimentale.

    Il Parmigianino, racconta il Vasari, venutogli il desiderio di veder Roma, per le opere di Raffaello e di Michelangelo, giunse nell'Urbe ed ottenne l'ingresso in Vaticano. Subito gli arrise la fortuna: e dipinse quadri sacri e profani, Madonne e cortigiane, cardinali ed uomini d'arme.
    Sono anni nei quali miete successi e non solamente nel campo delle arti, ma anche in quello, ugualmente a lui gradito, dell’amore, e conosce l'Antea, allora all'apogeo del suo splendore, la ritrae, e ne diviene, con molta probabilità, l'amante.
    Tutti gli antichi inventari di casa Farnese, dal quale questo quadro proviene, (passato con gli altri beni, della casata, a re Carlo di Borbone, figlio dell'ultima Farnese andata sposa a re Filippo V di Spagna) lo indicano come il ritratto della celebre cortigiana.
    L'Aretino, che la conobbe personalmente la descrive così:
    " Dalle in mano un liuto, pare maestra del suono; dalle in mano il libro, somiglia ad una poetessa ; dalle in mano la spada, avresti giurato che ella fosse una capitana ; vederla ballare una cervietta ; odila cantare, un'angeletta; mirala giocare, non ti potrei dire ; e con certi suoi occhietti ardenti più di un non so che, ognuno cavava del sentimento e mangiando pareva che indorasse il cibo ".

    Una vera geisha del Rinascimento che, racconta sempre l’Aretino, era seguita per la strada da quattro o sei fantesche, e accompagnata da nobili, ambasciatori, soldati, avvocati, mercanti, banchieri e prelati che non disdegnavano di farle corteggio fino in chiesa.

    Ma la storia di Antea ha un finale drammatico e triste.
    Sopraggiunto, nel 1527 il sacco di Roma ad opera delle armi imperiali, il Parmigianino dovette lasciare l'Urbe e forse continuò a dipingerla in seguito nei volti di donne e madonne.
    Quanto ad Antea, l'Aretino, la ritrovò, anni dopo, a Roma, malandata, in una quasi completa miseria, il volto sfregiato da una cicatrice, ridotta, come quel cinico uomo la definisce, "come una cortigianuzza", e di precipizio in precipizio, la sua vita si concluse con una tragedia, perchè morì uccisa barbaramente l'8 luglio del 1547.



    Una copia tarda dell’Antea (1620, secondo Sgarbi) è stata acquistata insieme alla Villa San Martino dei Marchesi Casati, da Silvio Berlusconi e non di rado la si vede inquadrata alle sue spalle nelle cassette registrate dallo studio di Arcore, quello cosiddetto “della calza”.

 

 
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