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    GUERRA SENZA LIMITI



    “La guerra è una questione di vitale importanza per lo Stato,
    il terreno della vita o della morte; la strada della sopravvivenza
    o della distruzione. E’ necessario che essa venga profondamente studiata”.
    Sun Zu, “L’arte della guerra”

    “La guerra è comune a tutti gli esseri.
    Essa è la madre di tutte le cose”.
    Eraclito



    LA SITUAZIONE
    L’attacco alla superpotenza mondiale statunitense dell’11 settembre e la conseguente invasione dell’ Afghanistan, primo capitolo dell’operazione planetaria denominata enduring freedom, hanno aperto “ufficialmente” il nuovo secolo XXI° del Terzo Millennio.
    Un secolo quindi che, date le premesse, si annuncia foriero di guerre e disastri i quali promettono di far impallidire i fiumi di sangue e le stragi del Ventesimo secolo.
    Ma già alla fine del secolo appena trascorso il crollo dell’URSS, la fine del condominio bipolare russo-americano, la riunificazione tedesca, le guerre balcaniche, l’endemica crisi mediorientale, il risveglio della Cina e l’affacciarsi sulla politica internazionale di nuove potenze atomiche come India e Pakistan, avevano mutato completamente l’assetto del mondo uscito dalla II Guerra Mondiale e dagli accordi di Yalta.
    Mutamenti che hanno costretto politologi e polemologi, storici e geopolitici a rivedere e ridefinire le proprie categorie mentali ed interpretative in situazioni che sembrano ogni giorno di più sfuggire di mano ai cosiddetti “Potenti” della Terra, mentre le masse umane del Sud del mondo, oramai calcolate in miliardi, precipitano nel baratro della miseria, del sottosviluppo, della disperazione.
    L’11 settembre americano rappresenta, oltre tutto il resto, il segno incontrovertibile di come anche la parte privilegiata del pianeta, il Nord mondiale opulento, industrializzato e supertecnologico, non sia affatto immune dalla catastrofe che si annuncia all’orizzonte e della quale le nubi di polvere e calcinacci delle torri abbattute non rappresentano che l’avvisaglia di una tempesta globale da tempo annunciata e sempre sottovalutata.
    Uno degli aspetti più eclatanti ha riguardato l’apparente estrema facilità con cui un pugno di uomini, martiri volontari votati a sicura morte, ha potuto colpire il cuore della talassocrazia americana, il più potente, armato e apparentemente invulnerabile impero mai apparso sulla faccia della Terra.
    Anche in questo campo la crisi mediorientale, la guerra del popolo palestinese condotta contro l’occupazione sionista con gli uomini-bomba ha fatto scuola, dimostrando come il coraggio fino all’autoimmolazione possa mettere in crisi una superpotenza con armamento classico.
    Il fatto poi che lo scontro attuale non sia fra due potenze o due coalizioni di stati contrapposte, bensì opera di una semplice organizzazione (sempre dando credito alla versione ufficiale dei fatti) ha messo in crisi tante certezze, tante illusioni del passato; e questo in particolare nel campo degli “addetti ai lavori”, cioè gli strateghi, i militari, gli esperti di polemologia, per non parlare di storici ed intellettuali.
    Se al contrario non vogliamo accettare acriticamente quanto ci è stato ammannito finora su tutta la catena dei tragici eventi, allora a maggior ragione ci dovremmo interrogare e pre-occupare su cosa REALMENTE stia accadendo nel mondo, al di sopra delle nostre teste ma non delle nostre vite; essendone alla fine tutti coinvolti come oggetti inconsapevoli e strumenti ciechi della volontà di potenza e dominio di una ristretta élite di padroni occulti del destino globale.
    E’ una GUERRA SENZA LIMITI, né spaziali né temporali e neanche strumentali, quella che Bush e l’Amministrazione USA hanno dichiarato nel mondo, cavalcando la paura e l’isteria collettiva innescata dai dirottatori suicidi. Una guerra senza confini definiti, condotta al di fuori di ogni regola, calpestando ogni ultima parvenza di diritto internazionale; una guerra più “sporca” di tutte quelle che l’hanno preceduta, guerra totale alla popolazione civile (e questa non è certo una novità) che però fallisce gli obiettivi principali annunciati per conseguire invece quelli reali, economici e geostrategici.
    La demonizzazione dell’avversario portata al parossismo, la censura e la propaganda imposte praticamente a tutti i governi e i media, escluse rare significative eccezioni che saranno l’obiettivo degli attacchi futuri, i bombardamenti “mirati” e le “bombe intelligenti” che falcidiano popolazioni inermi (ovviamente sempre…per un tragico errore, un’imprevista fatalità), l’uso oramai ammesso pubblicamente quando non esaltato della tortura sui prigionieri, incatenati e umiliati come nelle antiche rappresentazioni su pietra o marmo che credevamo retaggio di tempi lontani, ci danno solo in parte la misura del mutamento in atto: di come sarà condotta la guerra di un domani che è già oggi e, forse, è quella di ieri e di sempre, senza più ipocrisie e rimozioni, infingimenti e riletture ad usum delphini.
    Di fronte a nuovi scenari internazionali anche “l’Arte della Guerra”, per usare il termine della celeberrima opera del cinese Sun Zu, dev’essere rimessa in discussione, nei suoi mezzi come nei fini, nei suoi limiti o meglio nella mancanza di ogni limite, essendo la guerra del futuro non solo totale per il numero delle persone coinvolte (praticamente tutti) e il territorio (l’intero pianeta e ora anche lo spazio esterno), ma anche per i mezzi e i campi che coinvolge: dalla tecnica alla biologia, dai media alla religione, dall’informatica alla finanza e così via.
    Praticamente non esiste campo dell’interesse umano che non ne venga coinvolto.
    Non ci sono e non ci saranno mai più “isole felici”, campi neutri e neutrali che possano evitare il coinvolgimento nello scontro planetario di forze, palesi ed occulte, appena iniziato col nuovo secolo e millennio.
    La stessa distinzione semplicemente temporale di Von Clausewitz tra politica e guerra quale “suo proseguimento con altri mezzi” perde di spessore, di consistenza considerando l’intreccio, la fusione tra guerra e politica, oramai inconfondibili l’una dall’altra.
    Una GUERRA/POLITICA che si fonde sempre più con la religione, l’etica, l’assolutismo dottrinario.
    Dunque guerra ideologica e di “visioni del mondo” contrapposte, irriducibili, irriducibilmente antagoniste ed autoescludentesi l’un l’altra.
    Filosoficamente potremmo arrivare a confermare oggi più che mai l’intuizione di Eraclito definendo la guerra la madre e matrice di tutte le cose; essa si capovolge quindi nel suo contrario divenendo base stessa della vita nel momento in cui la toglie.
    Secondo gli autori del libro di cui passiamo a trattare si potrebbe avere in futuro il paradosso di una “guerra senza vittime, senza spargimento di sangue”.
    Ma è altrettanto vero che la potenza micidiale degli armamenti moderni è tale da poter annientare in brevissimo volger di tempo miliardi di esseri, fino all’annichilimento totale della vita terrestre, come oggi la conosciamo.
    Una “sottile linea rossa” divide le future possibilità sugli esiti della guerra moderna: guerra “virtuale”, asettica, senza che sia versata una goccia di sangue o guerra d’annientamento totale del genere umano medesimo.
    Per il momento corriamo sul filo tagliente di una lama sottile come un capello tesa sull’abisso del Nulla: tra guerre “classiche”, attentati terroristici, fredda tecnologia senza passioni e truculenti genocidi senza remore e regole, quali né il mondo animale né i nostri antenati ancestrali mai conobbero o neanche immaginarono.

    IL TESTO
    “GUERRA SENZA LIMITI” è appunto il titolo del libro di due autori cinesi completamente sconosciuti fino ieri al grande pubblico, noti soltanto agli esperti di polemologia: Qiao Liang e Wang Xiangsui, Colonnelli Superiori dell’Aeronautica Militare cinese, un grado a metà fra Colonnello e Generale. Particolare rilevante, i due appartengono ai Dipartimenti Politici dei Comandi superiori.
    Sono in pratica Commissari Politici addestrati al controllo ed alla propaganda presso gli alti comandi militari della Repubblica Popolare Cinese. Esperti quindi di tecniche militari e di dottrina politica, di strategia e storia, con solide basi filosofiche e di cultura classica, sia cinese che occidentale.
    Il sottotitolo del libro, ora parzialmente pubblicato anche in italiano dalla Libreria Editrice Goriziana (Corso Verdi 67 – Gorizia. Http://www.leg.it/ e-mail: leg@leg.it ) nella sezione "Le Guerre”, è quanto mai chiarificatore del contenuto: “L’ARTE DELLA GUERRA ASIMMETRICA FRA TERRORISMO E GLOBALIZZAZIONE”!
    Altro elemento molto significante è rappresentato dal nome del curatore italiano, il Generale Fabio Mini.
    Il Ten. Gen. Fabio Mini non è un gallonato qualsiasi dell’esercito da operetta nel paese dei “fichi d’India”;
    è infatti il Capo di Stato Maggiore del Comando Forze Alleate del Sud Europa.
    Quindi un uomo degli americani che parla e scrive in funzione del ruolo che ricopre.
    Laureato in Scienze Strategiche, con specializzazione in Scienze Umanistiche, è anche esperto di questioni cinesi.
    Ha scritto a sua volta “Comandare e comunicare” e “L’altra strategia”, ma soprattutto è collaboratore di varie riviste come la “Rivista Militare”, “Panorama Difesa” e la rivista di geopolitica “Limes” con la sua filiazione in inglese “Heartland”, voci della visione geopolitica mondialista e filo occidentalista.
    In particolare si distinse sull’ultimo “Quaderno speciale” di Limes (“Le spade dell’Islam”) con un articolo dal titolo “Perché combattiamo ancora”, inneggiante all’intervento USA in Afghanistan e nel resto del mondo: “Se avevamo bisogno di un attacco terroristico di proporzioni immani e di una guerra bizzarra e asimmetrica [!] per acquistare coscienza del mondo a-lineare in cui viviamo, i cinquemila di New York [già ridottisi a meno di tremila- nota mia] non sono morti invano e la guerra al terrorismo in Afghanistan e altrove è giusta e doverosa”.
    Insomma…”datemi un migliaio di morti per fare la guerra la mondo”!
    Neanche Bush in piena esaltazione patriottica del “Dio è con noi !” era mai arrivato a tanto.
    Il nuovo Dott. Stranamore si scagliava anche contro i “vecchi movimenti ideologici e rivoluzionari condannati dalla storia” accomunando l’Antrace negli Stati Uniti [oramai appurati di matrice interna] alla “spazzatura propagandistica e di disinformazione [parola dell’esperto!…] che ci viene propinata sotto le nobili vesti del diritto al dissenso…E non importa se la matrice sia bianca, nera o rossa. La lotta istituzionale si deve rivolgere anche in questo campo e non sarà né semplice né indolore”.
    Sarebbe un grave errore liquidare queste affermazioni e tante altre dello stesso tenore come delirio di onnipotenza totalitaria di un nostalgico del golpe, di un satrapo con stellette dell’impero americano.
    La verità è che quasi tutta l’intellighentia occidentale, liberal compresa, è sulla stessa lunghezza d’onda: basti pensare al tam-tam mediatico che ha accompagnato l’articolo poi libro di quella trista figura di Oriana Fallaci.
    Gli appelli da crociata, da guerra di religione dell’ex allievo dell’Accademia Agostiniana dell’Università Lateranense sono oramai parte del bagaglio bellico mediatico occidentalista, nel momento stesso in cui accusa di fanatismo integralista il mondo mussulmano.
    Dovremmo anzi essere riconoscenti a Mini per aver dichiarato senza tanti giri di parole e peli sulla lingua quali sono i veri scopi, anche interni, dell’aggressione mondiale in atto, oltre ovviamente al fatto di farci conoscere il pensiero dei due omologhi cinesi di “Guerra senza limiti”.
    Il libro in questione nacque in tempi non sospetti, nel 1999 ed ha subito varie manipolazioni, anche per le traduzioni in inglese della CIA. Mini presenta l’attuale parziale traduzione italiana come il quarto libro, come “l’ultimo dei vangeli” (sic!), cioè il più completo e da una nuova visuale.
    Ed è sempre Mini nell’introduzione a confermare l’idea che il testo in questione sia rivolto contro gli USA, anche se pensa che i tempi non siano ancora maturi per lo scontro. Non c’era ancora stato il bombardamento americano dell’ambasciata cinese di Belgrado e l’incidente del Mare Cinese Meridionale , da noi trattato ne “Lo scorpione nel cespuglio”.
    La tesi fondamentale di Liang e Xiangsui è un poco come l’uovo di Colombo: di fronte al mutamento tecnologico ed a quello politico internazionale, con la scomparsa del vecchio ordine bipolare ed il sorgere di nuovi soggetti, anche la guerra con le sue armi di offesa e difesa, i suoi obiettivi tattici e strategici, i suoi campi d’azione, deve essere totalmente rivista.
    Come tutte le idee innovative la sua genialità consiste nella semplice evidenza dei fatti.
    E’ noto del resto che i militari sono soliti combattere le guerre con le strategie della precedente e si trovano impreparati di fronte alle novità ed alla loro applicazione. Il carro armato già noto nella I Guerra Mondiale fu il protagonista della blitzkreig anche grazie all’uso innovativo che ne seppe ideare un ex caporale austriaco che aveva combattuto la guerra di trincea del fronte occidentale; un certo Adolf Hitler…
    Il campo d’azione delle guerre future è oramai globale. Esso coinvolge molti aspetti apparentemente lontani dai campi di battaglia tradizionali. Come le nuove armi mirate.
    Il raggio laser che acceca il nemico, l’arma genetica che gli israeliani starebbero mettendo a punto per sterminare solo genti con un particolare patrimonio genetico (gli arabi) o il “raggio della morte” che lascia intatte le strutture e i manufatti, la mina antiuomo che mutila mani e gambe senza uccidere la vittima, rendendola così un peso per i suoi, sono solo alcuni degli esempi di una guerra forse meno sanguinaria ma non certo meno terribile.
    Il Presidente ceceno Dudayev fu centrato da un missile russo, seguendo il segnale del suo cellulare mentre telefonava.
    I computer ed internet, che hanno ridisegnato i rapporti mondiali, sono nati dalla ricerca in campo militare. Oggi l’hacker che viola il sito del Pentagono o della Nato, il terrorista che fa saltare palazzi, basi militari o il Pentagono lo distrugge usando se stesso come bomba, ma anche il magnate della finanza che smuove in tempo reale miliardi di dollari sul mercato finanziario internazionale, mettendo in ginocchio economie anche floride e sul lastrico milioni di uomini, sono molte facce di una stessa medaglia.
    Bin Laden e Soros, Bush e Bill Gates, i magnati sauditi del petrolio e gli hackers mondiali, la CNN e la CIA: tutti costoro agiscono in campi certo molto differenti, eppure le loro azioni possono rientrare nel concetto di “OPERAZIONI DI GUERRA NON MILITARI”, da distinguersi dalle “OPERAZIONI MILITARI DIVERSE DALLA GUERRA”.
    Il rapimento di un presunto terrorista, l’omicidio, la tortura ecc.. possono rientrare in questa seconda categoria. Operazioni belliche non militari potrebbero essere il rastrellamento di azioni in Borsa, le notizie date od occultate da una Corporation dell’informazione, l’abbassamento o l’impennata del prezzo al barile del petrolio deciso dall’OPEC e così via.
    Oggi sempre più si parla di “guerra commerciale”, “guerra finanziaria” e simili.
    L’elevazione e/o l’abolizione di barriere doganali, gli embarghi economici tipo quello all’Iraq o a Cuba, lo stato di most favored nation, i blocchi marittimi e aerei, sono certamente operazioni di guerra ma non militari in senso stretto anche quando usano strumenti come navi e aerei militari.
    Lo spionaggio informatico, la rete di spionaggio industriale di Echelon sono altrettanti esempi palesi.
    E che dire di Hollywood e della cinematografia bellica tornata in auge proprio con l’11 settembre ?
    Puro strumento di propaganda e dominazione delle menti, anche attraverso una continua riscrittura e falsificazione della storia: gli americani, per esempio, vincono sullo schermo anche le guerre perse sul campo. E, ovviamente, sono sempre i Buoni, i Giusti, gli Eroi contro un nemico empio e vile: i “Nostri” contro il Male di turno.
    Dall’antichità ai nostri giorni il campo di battaglia si è sempre di più esteso fino a coinvolgere i civili, le città, nazioni e continenti interi. Ma oggi il conflitto arriva anche allo “spazio NON naturale”, lo “SPAZIO DELLA RETE”, “uno spazio tecnologico costituito da una combinazione distintiva di tecnologia elettronica, tecnologia informatica e applicazione di design specifici”.
    Forse la “guerra nello spazio nanometrico” del futuro che non coinvolga esseri umani è una delle tante utopie di scontro a perdite umane zero. Eppure è già cronaca che una guerra persa o non vinta sul campo di battaglia può essere risolta altrove “chirurgicamente”. Il caso Serbia docet; non vinta militarmente l’ex Yugoslavia, oramai ridotta a Serbia-Montenegro si è piegata all’assedio economico, conquistata dall’interno comprandone letteralmente parte della classe dirigente, fino a VENDERE il proprio leader Milosevic al Tribunale Internazionale dell’Aja, longa manus degli USA nell’eliminazione “giuridica” dei propri avversari.
    Anch’esso è già superato dal famigerato U.P.A. (USA Patriotic Act) del 13 novembre 2001 che spazza via ogni infingimento di diritto internazionale, dando agli Stati Uniti la facoltà di rapire, processare e condannare anche a morte senza praticamente garanzie e difesa ogni loro oppositore in ogni paese del mondo. Eliminando quindi d’un colpo anche la finzione dell’indipendenza e sovranità degli altri stati rispetto alla superpotenza dominante.
    “Dov’è il campo di battaglia ?” si chiedono gli autori di “Guerra senza limiti”. La risposta è scontata: “Ovunque”.
    Ne consegue che alla domanda “CHI fa la guerra” oggi, la risposta altrettanto scontata è che oramai non sono solo i militari professionisti ad avere l’esclusiva sui vari campi di battaglia. Civili altamente specializzati o inquadrati possono fare ben più danni.
    E’ l’applicazione ed estensione globalizzata del principio della guerra popolare di liberazione del Presidente Mao: “ogni cittadino è un soldato”.
    Anche la nuova concezione della “guerra dimensionale totale” dell’esercito USA, nel compendio “The Essentials of War” è sottoposta a critica dagli autori cinesi in quanto non comprende tutto il vasto campo delle “operazioni di combattimento non militari” di cui si è detto sopra.
    Del resto è comprensibile che la casta militare in occidente come nei paesi dell’ex blocco sovietico sia restia ad allargare tanto il campo del concetto bellico; ciò ridurrebbe il peso ed il ruolo delle FF.AA. fino a vanificarne l’autorità e dissolverla nel contesto dello strategia globale di difesa-offesa che vedrebbe privilegiati i nuovi soggetti sociali e politici, dall’informatico all’esperto finanziario, dal mediatico allo scienziato, per non parlare delle élites politiche che dovrebbe coordinare i vari sforzi.
    Dalla Rivoluzione Islamica Iraniana in poi il “clero” mussulmano ha preso le redini anche della politica e della guerra. In occidente il papato di Giovanni Paolo II è uno degli esempi più eclatanti nella storia dell’ingerenza della religione usata come arma per combattere ed abbattere gli stati nemici.
    In Cina al contrario è dai tempi della Lunga Marcia e poi della Rivoluzione Culturale che vige il principio del “controllo del Partito sul fucile” e non viceversa.
    E Qiao Liang e Wang Xiangsui sono sì militari ma anche Commissari Politici che sanno coniugare arte militare e filosofia taoista, matematica e storia, dottrina marxista-maoista e nazionalismo.
    “Guerra senza limiti” si legge d’un fiato anche per chi non è addentro alle tematiche trattate, non è un esperto di polemologia e strategie militari e nonostante la traduzione non possa che rendere molto vagamente tutta la ricca complessità e le sfumature della lingua cinese.
    Nella seconda parte del loro testo i due autori cinesi trattano dei nuovi metodi operativi, delle metodologie dei “giochi di guerra”. E’ la COMBINAZIONE dei vari elementi, delle disparate discipline e campi di applicazione il segreto del successo nella guerra futura, colpendo dove si è più forti, ritirandosi di fronte all’avanzata di forze nemiche preponderanti; ancora l’applicazione della teoria bellica maoista applicata al mondo globalizzato ed informatizzato!
    “Il Tao ha prodotto l’Uno, l’Uno ha prodotto il Due, il due ha prodotto il tre ed il tre ha prodotto le decine di migliaia”.
    La combinazione dei mezzi se diminuisce l’importanza dell’uso delle armi amplifica all’infinito il campo di battaglia, il concetto stesso di guerra moderna: una combinazione vincente.
    Gli Stati Uniti il cui potenziale militare in Afghanistan era sproporzionato all’obiettivo dichiarato di combattere il terrorismo di Al Qaida e abbattere il regime che la ospitava, hanno ottenuto lo scopo (vero) di impiantarsi nel cuore d’Eurasia, ma hanno fallito quello dichiarato; né poteva essere altrimenti, usando armi e strategie inadeguate ad una sfida completamente diversa da quella della Guerra Fredda, cui ancora è legata l’Amministrazione repubblicana. Sempre ovviamente che si considerino veritieri gli antefatti e gli obiettivi dichiarati, gli esiti raggiunti…. Come già fu per la Guerra del Golfo e Saddam Hussein.
    “Che si tratti dell’intrusione degli hackers, di una grave esplosione al World Trade Center o di un attentato dinamitardo di Bin Laden, tutti questi eventi eccedono di gran lunga le bande di frequenza comprese dall’esercito statunitense” (pag. 126) Di fronte ad un nemico con un basso livello tecnologico, gli USA sono incapaci di usare il mastodontico apparato bellico predisposto per guerre tradizionali tra blocchi di stati equipollenti.
    Ricordiamo ai nostri lettori che queste pagine sono state scritte tra il ’96 e il 1999, ben prima quindi dell’11 settembre 2001. Una profezia da brivido!
    “Gli ultimi giorni dell’impero americano” di Chalmers Johnson, del quale abbiamo già trattato, aveva previsto con largo anticipo la crisi Cina-Usa dell’aprile 2001.
    Nel mondo contemporaneo libri e cinema anticipano la realtà.

    0,618

    Nel secondo capitolo di questa sezione intitolato “Cercando le regole della vittoria: la forza si allontana dal punto dell’attacco nemico”, Qiao Liang e Wang Xiangsui avanzano un inedito paragone tra arte e guerra (per Sun Zu la guerra è un ‘arte, da cui il titolo appunto di “Arte della Guerra”), basato sulla regola della “Sezione Aurea” del filosofo greco Pitagora, il numero 0,618.
    Lo 0,618°=rapporto aureo del 2, rappresenterebbe la “deviazione verso l’elemento secondario” che secondo i due autori è alla base di tante vittorie in battaglia, dall’antica Cina alla battaglia di Arbela tra Alessandro Magno e Dario, da Annibale a Gengis Khan, dalla spedizione russa di Napoleone al piano Barbarossa di Hitler, fino alla Guerra del Golfo di Schwartzkopf, evento che gli autori sembrano considerare il primo esempio della guerra moderna, con impiego differenziato di vari tipi di armi e le controstrategie di Saddam Hussein.
    La regola aurea sarebbe = alla regola del secondario-principale, cioè deviare verso l’elemento secondario, situato a 2/3 della linea del fronte per accerchiare e colpire l’elemento centrale.
    Mutatis mutandis questa regola, che non va tuttavia applicata acriticamente alla lettera (“una regola, non una formula fissa”…”da considerare come un principio, non come un teorema”), rappresenterebbe anche la strategia vincente per affrontare una grande potenza avversaria colpendo in un settore secondario e quindi meno protetto, scompaginando così l’assetto del nemico.

    IL TAO E L’ARTE DELLA GUERRA

    La questione è certo più complessa e deve essere letta direttamente dal testo, pagina per pagina, seguendo il filo logico del discorso dei due autori e i relativi esempi storici sui campi di battaglia. Talvolta essa sconfina nella filosofia, nel concetto orientale del Tutto formato dall’unione degli opposti, lo Yin e lo Yang, in una variazione multipla di possibilità e adattamenti alla situazione concreta: “Diecimila metodi combinati in uno: combinazioni oltre i limiti”, che è il titolo del III capitolo della seconda parte.
    Combinazioni di organizzazioni nazionali , internazionali e non statali; combinazioni degli ambiti, dei mezzi (di tutti i mezzi disponibili, militari e non), combinazioni stratificate (i livelli del conflitto), quattro livelli in ordine decrescente:

    Grande guerra - politica bellica
    Strategia di guerra
    Campagne – arte operativa
    Battaglie – tattiche

    Nell’ultima parte poi i due ufficiali-commissari offrono una panoramica sintetica dei principi enunciati, per una “guerra combinata oltre i limiti”: ONNIDIREZIONALITA’, SINCRONIA, OBIETTIVI LIMITATI, MEZZI ILLIMITATI, ASIMMETRIA, CONSUMO MINIMO, COORDINAMENTO MULTIDIMENSIONALE, CONTROLLO E CORREZIONE DELL’INTERO PROCESSO.
    Rivolgere l’azione a 360 gradi, non solo negli spazi fisici ma anche in quelli politico-economici, culturali, psichici, con una sincronia di azioni in spazi differenti nello stesso arco di tempo, con obiettivi limitati ma utilizzando tutti i mezzi a disposizione verso quello/quegli obiettivi pre-fissati.
    L’asimmetria è un punto fondamentale: cercare i nodi asimmetrici rispetto al centro di potenza dell’avversario, colpendo a sorpresa in un punto dove il nemico, più dotato di mezzi ha difficoltà a dispiegare tutta la sua potenza di fuoco e d’intervento.
    Un esempio che ci viene in mente: gli aerei dirottati sulle Torri Gemelle e sul Pentagono non furono intercettati dai caccia (probabilmente il quarto soltanto fu abbattuto prima di colpire Washington), mentre tutto l’apparato bellico, aeronavale e missilistico USA è orientato verso l’esterno, contro un eventuale attacco classico da un’altra potenza che usi armamento convenzionale.
    La mania dei Bush per lo “Scudo spaziale” si basa su questa superata concezione della guerra ai tempi del confronto USA-URSS.
    Consumo minimo e coordinamento multidimensionale servono ad ottimizzare e razionalizzare le azioni, avendo però ben chiaro che come presupposto deve esserci un obiettivo specifico.
    Si è attaccato l’Afghanistan con le fortezze volanti, i missili e le super-bombe per colpire Bin Laden o si è attaccato Bin Laden per invadere l’Afghanistan?
    In un caso come nell’altro consumo e coordinamento furono assolutamente sproporzionati e l’obiettivo solo in parte conseguito tramite altre variabili (aprire la strada all’Alleanza del Nord, assicurarsi l’appoggio delle retrovie in Pakistan, reprimendo la reazione popolare islamica, allargare il fronte ai paesi mussulmani con governi succubi degli USA, promettere l’indipendenza della Palestina, salvo scaricare Arafat a cose quasi concluse, ecc…).
    Infine è indispensabile la correzione e il controllo di tutta l’operazione in ogni momento del suo svolgimento, con la continua acquisizione di nuove informazioni e la conseguenziale modificazione dell’azione in corso sulla base dei nuovi dati acquisiti.

    CONCLUSIONE

    La conclusione di “Guerra senza limiti” trae spunto dai profondi cambiamenti verificatisi a causa della globalizzazione; quindi alla necessità di tenerne conto anche per quanto riguarda i mutamenti nell’arte bellica.
    In un mondo globale dunque anche la guerra non può che essere globale, nello spazio (quello virtuale compreso), nelle risorse , nei mezzi, nel coordinamento, nei soggetti coinvolti : in tutto.
    “Man mano che lo scenario della guerra si è ampliato, coinvolgendo la sfera politica, economica, diplomatica, culturale e psicologica, oltre all’ambito terrestre, marittimo, aereo, spaziale ed elettronico, l’interazione tra tutti questi fattori ha fatto sì che la sfera militare non potesse più facilmente essere quella dominante in ogni guerra”. (pagg. 148-149)
    Potremmo chiosare affermando che la guerra è diventata un affare troppo importante per lasciarla gestire dai militari o solo da loro.
    Per l’Italia, colonia USA, questo problema non si pone, essendo i nostri generali e ammiragli incapaci di fare anche la guerra classica e persino come “truppe camellate” dei nostri padroni a stelle e striscie; tuttalpiù ne possono scrivere sui libri o disquisire in tv, tra una gag ed un balletto.
    La guerra è un arte e come tale deve fissarsi su proporzioni stabilite (la sezione aurea dello 0,618) ma anche abbandonarsi talvolta all’improvvisazione geniale, all’intelligenza strategica di chi sappia coordinare tutti gli strumenti a disposizione utilizzando risorse materiali, tecniche ed umane al meglio delle possibilità consentite.
    Essendo spesso le forze in campo sproporzionate la “guerra senza limiti” è l’arte di una guerra ASIMMETRICA che utilizza tale a-simmetria a proprio vantaggio, individuando e colpendo nel punto e nel momento più indicati per poi ritirarsi di fronte a forze preponderanti, ripartire all’attacco e così via.
    Uno degli aspetti positivi della globalizzazione è che la tecnica e l’informatica moderne offrono anche a soggetti più limitati di uno stato o di una coalizione gli strumenti e le occasioni per divenire protagonisti degli eventi correnti.
    Se veramente gli avvenimenti dell’11 settembre fossero andati come ci raccontano, le successive azioni militari statunitensi dimostrerebbero che gli USA non hanno ancora compreso niente della mutazione in atto nel mondo del conflitto globalizzato e asimmetrico.
    E sarebbe una buona notizia.
    Già usare il termine “terrorismo” denuncia comunque un residuo della mentalità da secoli passati, quando solo lo stato nazionale istituzionalizzato era soggetto di diritto internazionale e gestore unico dell’impegno armato nella risoluzione delle controversie internazionali.
    Oggi non è più così, come ci dicono gli stessi autori.
    Si pensi solo per fare un esempio al dibattito in America e sulla stampa internazionale se si debbano considerare i prigionieri islamici a Guantanamo come “prigionieri di guerra”, protetti dalla Convenzione di Ginevra, come terroristi o altro.
    In fondo, senza tante sottigliezze da legulei del diritto internazionale, violato dagli stessi USA ogni giorno nel mondo, possiamo affermare che la differenza tra “patriota” e “terrorista” consiste nel fatto che …
    il primo ha vinto e il secondo ha perso; come sempre da che mondo è mondo “VAE VICTIS”!
    E vorremmo concludere questa presentazione di “Guerra senza limiti” di Qiao Liang e Wang Xiangsui, testo indispensabile per chi voglia conoscere gli avvenimenti contemporanei e le prospettive future della politica mondiale, con una citazione tratta di Massimo Fini, una delle pochissime menti rimaste lucide ed essenziali anche durante i mesi di isteria bellica collettiva seguenti all’11 settembre 2001.
    A conclusione del suo acutissimo saggio controcorrente dal titolo “Elogio della guerra” Fini scrisse: “Per questo oso dire che i drammi dell’era atomica sono due e non uno come sembra a prima vista. Il primo è certamente che la guerra nucleare, se si fa, rischia di distruggere l’umanità. Ma il secondo, non meno grave, è che la guerra nucleare impedisce di fare la vecchia, cara, onesta guerra”.
    Sapremo riscattarci da questo dilemma nel prossimo XXI secolo, abbandonandoci tutti all’arte sublime di una guerra senza limiti?
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    AMICIZIE PERICOLOSE



    Quando, nella notte del 17 gennaio 1991, i primi missili Scud colpirono Tel Aviv, furono le pressioni degli Stati Uniti a impedire una risposta armata israeliana. Come contropartita gli americani offrirono, oltre ai missili Patriot, sostanziose compensazioni per i danni causati dai bombardamenti, fondi per la sistemazione degli ebrei russi immigrati, e decisero di ignorare la questione degli insediamenti ebraici nei territori occupati. Secondo Andrew e Leslie Cockburn, questo rappresenta una svolta fondamentale nei rapporti fra Stati Uniti e Israele: per la prima volta, lo stato ebraico viene ricompensato per restare in panchina. Gli Stati Uniti sembrano decisi a prendere personalmente l'iniziativa nella regione e non affidarsi più a quello che, in virtù di una collaudatissima tradizione, è il loro braccio armato in Medio Oriente e in altre zone "calde" del mondo.
    Della special relationship il lavoro dei Cockburn studia un aspetto per definizione oscuro, vale a dire i rapporti fra i servizi segreti esteri dei due paesi. Due sono i punti di forza del libro: uno è il fondarsi in gran parte su testimonianze dirette dei protagonisti più o meno noti delle vicende attraverso interviste che i Cockburn hanno raccolto nel corso di lunghi anni di lavoro in tutto il mondo. L'altro, e non meno significativo, è l'impiego di documenti in ebraico. Una delle maggiori difficoltà che incontra chi si occupa di Israele, sia pure in relazione agli Stati Uniti, è infatti la barriera linguistica, che impedisce di cogliere pienamente il dibattito in corso al suo interno, molto più ricco e duramente autocritico di quanto le fonti in lingua inglese lascino trapelare (è noto il detto secondo cui il "Jerusalem Post" serve soprattutto ad allietare la colazione dell'ambasciatore americano).
    Particolarmente degno di nota nel libro è poi il modo in cui gli autori riescono a ricavare da un materiale che (come la testimonianza di personaggi non di rado ambigui o discutibili) ben si presta ai facili scandalismi, un lavoro senza le ridondanze e gli autocompiacimenti che la definizione di "storia segreta" fa temere.
    Con uno stile degno dei migliori romanzi di spionaggio (che la traduzione si sforza, con alterno successo, di restituire), i Cockburn espongono in dettaglio il ruolo svolto dai servizi segreti israeliani nel corso di quattro decenni quali esecutori per conto di quelli statunitensi. In particolare, gli israeliani si fanno carico di tutta una serie di operazioni che agli americani sarebbero precluse per la loro inaccettabilità rispetto all'opinione pubblica e al Congresso, in quanto spesso compiute a difesa o su incarico di regimi colpevoli di orribili violazioni dei diritti umani - dalle forniture militari all'addestramento degli "squadroni della morte" per le dittatore di destra in America latina, al traffico internazionale di armi e droga che ne consentono il finanziamento.
    In molti casi i Cockburn non rivelano segreti clamorosi, come quando parlano dello spionaggio che gli israeliani praticano ai danni degli Stati Uniti per elaborare i propri progetti nucleari, ma il quadro che creano riesce comunque ad essere avvincente e a rendere conto dei tortuosi sentieri che connettono operazioni apparentemente scollegate nelle aree più diverse. Nuove e interessanti sono soprattutto le parti relative al ruolo del Mossad nell'Africa sudsahariana negli anni sessanta, quando preesistenti canali commerciali vennero riutilizzati per la vendita di tecnologie militari e per l'addestramento di unità antiguerriglia da impiegare contro qualsiasi minaccia sovietica (col risultato di appoggiare, fra gli altri, l'Uganda di Amin, e di instaurare stretti rapporti col Sudafrica permettendo alla Cia di aggirare l'embargo delle Nazioni Unite contro il regime di Pretoria).
    I Cockburn dimostrano pure quanto sia limitativo vedere nella collaborazione fra Israele e Stati Uniti soltanto il frutto delle pressioni della lobby ebraica: se il peso dell'Aipac non va trascurato, va però detto che, a partire dagli anni sessanta e soprattutto dopo la guerra dei Sei Giorni, Israele riesce a presentarsi come una preziosa carta strategica per gli Stati Uniti, non solo, ma fra i due paesi esiste una vera comunanza di interessi. In particolare, la guerra del 1967, lungi dall'essere il caso di Davide e Golia della retorica ufficiale, costituirebbe il momento culminante della guerra fredda, l'esempio perfetto di "lavoro ben fatto" da Israele per conto degli americani, con l'unica vera preoccupazione riguardante non la sopravvivenza dello stato ebraico, ma la durata della guerra - sei oppure sette giorni. Anche questa non è storia nuova, ma è molto stimolante il modo in cui viene inserita nell'ambito del bipolarismo. Il punto di maggiore convergenza degli interessi americani e israeliani non è però la lotta al comunismo, una carta che i secondi spesso giocano a uso e consumo dei primi per ottenere concessioni di varia natura, quanto la battaglia contro il cosiddetto terrorismo internazionale: con tale espressione si intendono, da parte israeliana, le azioni di gruppi armati arabo-palestinesi; per gli americani, il significato si estende a molte altre forme di guerriglia filocomunista, o sospetta tale (come i Cockburn fanno notare, gruppi che impiegano tattiche analoghe ma sono appoggiati dagli Stati Uniti vengono definiti combattenti per la libertà).
    Proprio sul piano della crociata antiterrorista si registra, da Reagan in poi, un cambiamento di prospettiva nei rapporti fra i due paesi, allorché gli Stati Uniti iniziano a prendere in misura crescente iniziative dirette - in una parola, ad assomigliare sempre più a Israele. Si può quindi supporre che proprio l'era reaganiana segni l'avvio di un processo che vede Israele perdere il suo ruolo esclusivo e l'America cominciare a rivolgersi ad altre fonti, ad esempio incoraggiano l'industria bellica egiziana (fornitrice dell'Irak), durante la guerra lran-lrak, in modo da armare entrambi i contendenti ed evitare gli squilibri derivanti dalla vittoria netta di uno solo.
    Ma se Israele sembra perdere di importanza strategica negli anni ottanta, i vertiginosi aumenti della spesa militare voluti da Reagan mettono in luce e promuovono un altro elemento fondamentale, se pur meno noto, del legame israelo-americano: i vantaggi che da almeno venticinque anni questo sodalizio porta al complesso militare-industriale statunitense. Sin dai clamorosi successi dell'aeronautica nella guerra dei Sei Giorni (successi, i Cockburn rivelano, tali solo nelle pubbliche dichiarazioni), Israele funge da agente pubblicitario per i prodotti bellici americani, e lo fa con tanto zelo da non esitare ad alterare vistosamente i risultati di esperimenti e prove sul campo. Vari casi sono citati: fra i più clamorosi, quelli dei missili Maverick, dimostratisi inutili tanto in Vietnam che nella guerra del Kippur; Sparrow, che dalla loro introduzione nel 1958 hanno colpito solo quattro bersagli, tra cui un aereo americano su oltre duemila lanci; e gli stessi Patriot, che a Tel Aviv causano altrettanti danni degli Scud senza colpirne neppure uno. Inutile dire che il lato a dir poco grottesco della situazione è reso in maniera esemplare.
    La conclusione dei Cockburn è che la fine della guerra fredda, l'evidente interesse americano a una stabilizzazione nella regione tale da non turbare l'accesso alle fonti petrolifere, e l'affermarsi di una politica di intervento diretto degli Stati Uniti, hanno determinato un ridimensionamento del ruolo di Israele quale bastione degli interessi americani in Medio Oriente. Questo viene a ripercuotersi fortemente sull'industria bellica israeliana, che si trova a fronteggiare la minaccia della pace. Analogamente, i servizi segreti, i cui contatti nell'ex blocco socialista sono resi molto meno preziosi (e la guerra del Golfo lo ha dimostrato) dalla possibilità per gli Stati Uniti di procurarsi le informazioni direttamente alla fonte, corrono ora il rischio di dover trovare un altro modo di te-



    recensione di Cremoni,
    L'Indice 1993, n.10
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    L'ACCUSA DI REGIS DEBRAY



    << Se ci fosse un premio per il miglior articolo dell'anno - ha sostenuto il giornalista Maurizio Cabona, firma del "Giornale" di Milano, nel presentare recentemente il libro di cui stiamo parlando - nel 1999 dovrebbe vincerlo Régis Debray per L'Europe sonnambule (Le Monde, 1° maggio) un vero e proprio omaggio che smonta il meccanismo propagandistico alla base dell'ultima guerra americana del secolo nel nostro continente, quella contro la Serbia, anzi la Repubblica Federale Jugoslava >>.
    Oggi quell'articolo è diventato parte di un libro italiano (Asefi Editoriale) dove Debray esamina come l'Europa si sia ridotta a un livello "semicoloniale" nei confronti degli Stati Uniti. << La "sinistra morale", da Clinton a Blair, da Schroder a D'Alema, ha rinunciato al marxismo rosé per qualcosa di peggio - ha detto ancora Maurizio Cabona - ovvero l'ideologia dei "diritti dell'uomo" e si è scagliata rabbiosamente contro Debray, un intellettuale che ragiona in termini di Stato, Nazione e Democrazia, laddove i suoi detrattori (Henry-Levy in testa) si regolano su una globalizzazione che è una americanizzazione e su un liberalismo che è totalitarismo morbido, non un sinonimo di democrazia >>.
    Da patriota e non da occidentalista, Debray esamina in questo libro anche l'aspetto della preparazione dei conflitti americani. Il meccanismo vede un ex alleato (se l'Iraq lo è stato dell'America negli otto anni della guerra con l'Iran, la Jugoslavia lo è stata fin dalla sua fondazione) diventare repentinamente un impero del male. Occorre << naturalmente un pretesto: un'annessione nel caso iracheno, una guerriglia separatista in quello jugoslavo >>. Gli Stati Uniti - afferma Cabona - sanno preparare, soprattutto con il cinema, le loro guerre del domani. << Salvate il soldato Ryan di Spilberg è il teorema dell'ingerenza umanitaria realizzata nel '99 in Kosòvo >>. Quella cinematografica del resto è vista solo come l'ultima arma nella guerra a chi intralcia il cammino dell'unica superpotenza esistente. Infatti, lo spunto iniziale è dato dagli << intellettuali, i quali vivono la crisi dei Balcani come una sorta di transfert e ad ogni realtà presente applicano schemi mitologici riesumati dalla seconda Guerra Mondiale >>.
    Cabona ha poi ricordato alcuni di questi intellettuali, come Henry-Levy, che contro Debray non oppone una sola idea che non venga dalla retorica ipocritica del Tribunale di Norimberga, o Goldhagen che vorrebbe rieducare i serbi di oggi come i tedeschi del '45.
    Al vaglio delle riflessioni di Debray anche il Tribunale dell'Aia, di fronte al quale Milosevic dovrebbe essere imputato come responsabile di una repressione spietata. Non più spietata dei bombardamenti sulla Jugoslavia compiuti dalla Nato per settantotto giorni, né della strage di iracheni compiuta sull'autostrada Fao-Bassora nel febbraio 1991, né dell'invasione di Panama del 1989 o di Grenada nel 1983, sostiene Cabona.
    La stampa italiana ha oggettivamente dato molto spazio alle tesi della Nato, e poco a quelle dei suoi oppositori, << traducendo in molte lingue gli articoli degli avversari di Debray e riassumendo in poco spazio i suoi, storpiandone le tesi >>. Dall'Europa Sonnambula emerge un esame lucido e amaro di un continente che cammina nel sonno. C'è anche un aneddoto crudele: recatosi in maggio a Belgrado, Debray chiede perché si sia trattato fino all'ultimo con gli americani, senza rivolgersi agli europei. Risposta: "meglio parlare al padrone che alla servitù".



    Andrea De Polo
    (Liberaleidee - Giugno 2000)
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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    Le vene aperte
    dell'America Latina

    «Ha percorso l'America latina ascoltando anche la voce dei reietti oltre che quelle di leaders e intellettuali, ha vissuto con indios, contadini, guerriglieri, soldati, artisti e fuorilegge; ha parlato con presidenti, tiranni, martiri, preti, eroi, banditi, madri disperate e pazienti prostitute». Così Isabel Allende nella lunga prefazione a questo saggio di Eduardo Galeano.
    Un libro che ha lo spessore del documento, vista la puntuale e circostanziata ricostruzione delle cause storiche, recenti e remote, fatto dall'Autore, che sono a monte dell'arretratezza economica e civile di una terra potenzialmente ricchissima. Giunto alla sua sessantottesima edizione in lingua spagnola, nonostante lo scontato ostracismo a cui è stato sottoposto dalla grande maggioranza dei governi sud americani, il lavoro di Galeano rappresenta, dal nostro punto di vista, una tappa fondamentale della riflessione nella quale si sono impegnati, nell'ultimo mezzo secolo, tanti intellettuali non allineati latino-americani.
    L'interesse, diremmo la «forza» di queste pagine è essenzialmente quella di descrivere, senza soluzione di continuità, la politica di sfruttamento delle risorse economiche, e il conseguente annichilimento dell'elemento umano, in specie nativo, ad opera di spagnoli, portoghesi ed inglesi già all'indomani dello sbarco di Colombo. Sfruttamento ed annichilimento che come l'Autore dimostra, sono stati vitali per l'affermazione del capitalismo inglese permettendo a questo quell'accumulazione primaria di risorse senza la quale non sarebbe stata possibile né la rivoluzione industriale né la conseguente dilatazione planetaria dell'imperialismo britannico.
    «La Spagna aveva la vacca, ma altri bevevano il latte»; l'argento di Potosí, nell'attuale Bolivia, quello di Zacatecas e di Guanajuato in Messico che rappresentarono per oltre un secolo la più straordinaria fonte di ricchezza della quale disponeva l'Europa era in larga misura controllato dagli usurai con i quali la casa regnante spagnola si era indebitata al punto di dover ipotecare le imposte che riscuoteva all'interno dei suoi sterminati confini. L'argento, estratto grazie al bestiale sfruttamento delle manodopera indigena, «penetrò -come scrive Engels- come un acido corrosivo nei pori dell'agonizzante società feudale europea trasformando gli indigeni in un vero e proprio proletariato estero dell'economia europea». I costi umani furono spaventosi: dei settanta-novanta milioni di Aztechi, Inca e Maya presenti in Sud America all'arrivo dei Conquistadores, un secolo e mezzo dopo ne erano rimasti tre milioni e mezzo. Se l'argento di Potosí, nominalmente controllato dalla Spagna, aveva contribuito al dilatarsi della potenza economica e militare della Gran Bretagna, l'oro brasiliano (colonia portoghese) di Ouro Petro subì la stessa sorte: «L'oro aveva cominciato a fluire proprio nel momento in cui il Portogallo aveva firmato con l'Inghilterra il trattato di Methuen (1703) a coronamento di una lunga serie di privilegi ottenuti dai commercianti britannici in Portogallo (...) L'Inghilterra e l'Olanda, campionesse del contrabbando dell'oro e degli schiavi (...) si calcola che esse si presero illecitamente oltre la metà della imposta che la corona inglese avrebbe dovuto ricevere dal Brasile (...) Secondo fonti britanniche, in certi periodi l'ingresso dell'oro brasiliano a Londra raggiunse le 50.000 libbre settimanali. Senza questa enorme accumulazione di risorse in metallo, l'Inghilterra non avrebbe potuto, più tardi, tener testa a Napoleone».
    Dopo il ciclo dell'argento e dell'oro, che furono la principale spinta alla conquista e alla distruzione dell'Impero incaico, l'America latina si trovò alle prese con le esigenze di quello che Galeano definisce «re zucchero». È l'inizio del devastante fenomeno agricolo denominato «monocultura». Centinaia di migliaia di ettari del Nord-Est del Brasile prima e delle isole caraibiche poi furono trasformati in immense piantagioni di canna da zucchero nelle quali le poche migliaia di nativi sopravvissuti all'infernale lavoro delle miniere, affiancati da decine di migliaia di schiavi razziati nell'Africa sub-sahariana, furono bestialmente sfruttati per fornire all'Europa e agli Stati Uniti il prezioso «oro bianco».
    «A quei tempi coloniali risale l'abitudine, ancor oggi viva, di mangiare la terra. La mancanza di ferro provoca anemia; l'istinto spinge i bambini del Nord-Est a compensare con la terra la necessità di sali minerali che mancano nella loro alimentazione abituale ridotta a farina di manioca, fagioli (...) Un tempo si puniva questo «vizio africano» dei bambini ponendo loro una museruola...».
    Dall'argento all'oro, dallo zucchero al caucciù, dal caffè al cotone, dal petrolio al rame: la storia dello sfruttamento del Continente latino-americano e intimamente legata alla disponibilità di risorse agricole e minerali nonché alla disponibilità di manodopera sottopagata. Le continue, sanguinose rivolte dei popoli sudamericani per liberarsi dal peso opprimente della sudditanza economica s'è spesso scontrato col «volume di fuoco» della fanteria di marina USA e si è sempre dovuto misurare con le fitte trame del gigante nordamericano il quale ritiene «nella sua concezione geo-politica imperialista» l'America centrale e meridionale il naturale retroterra degli Stati Uniti (il celebrato «giardino dietro casa») per controllare il quale tutto è lecito: dall'assassinio politico al golpe militare, dagli squadroni della morte al ricatto finanziario attraverso l'indebitamento, dalle scorrerie delle multinazionali all'intervento dei Marines, dalla cover operation della CIA alla corruzione delle classi dirigenti, spesso, queste ultime e in particolar modo quelle di estrazione militare, direttamente istruite ed addestrate in apposite strutture statunitensi.
    Ben pochi dirigenti latino-americani sono riusciti a sottrarsi alla logica dell'imperialismo: «Peròn, per esempio, determinò il panico nell'Unione Industrial, i cui dirigenti vedevano, non a torto, reincarnarsi nella ribellione del proletariato dei sobborghi di Buenos Aires il fantasma delle montoneras delle provincie. Prima che Peròn le sconfiggesse nelle elezioni del 1946». Ma i Vargas, i Cardenas, i Peròn, i Castro sono l'eccezione; la realtà è rappresentata da individui quali Roberto Campos, cervello economico del dittatore brasiliano Castelo Branco, che «per consentire il diretto flusso del credito esterno alle imprese, aveva messo in condizioni di inferiorità le fabbriche a capitale nazionale (...) Le imprese straniere ottenevano, all'estero prestiti al 7-8 per cento con un cambio speciale garantito dal governo in caso di svalutazione del Cruzeiro, mentre le imprese nazionali dovevano pagare fino al 50 per cento di interessi per crediti che riuscivano ad ottenere con grande difficoltà». Questa misura Campos l'aveva così spiegata: «ovviamente il mondo è disuguale. C'è chi nasce intelligente e chi nasce stupido. C'è chi nasce atleta e chi paralitico. Il mondo è fatto di grandi e piccole imprese. C'è chi muore presto, agli inizi della vita; altri che si trascinano, criminalmente, in un'esistenza lunga e inutile. C'è una disuguaglianza di base, fondamentale, nella natura umana, nella condizione delle cose. Neppure il meccanismo del credito sfugge e questa legge. Sostenere che le imprese nazionali debbano avere accesso al credito nella stessa misura delle imprese straniere significa soltanto disconoscere le realtà basilari dell'economia ...».La lucida analisi di questo libro sgombra il campo dai tanti luoghi comuni sui popoli latino-americani e colloca in una dimensione più equa l'eroica e disperata resistenza del popolo cubano alle sanzioni statunitensi. In America latina la repressione «perché sia efficace deve essere arbitraria... Chiunque può esserne vittima... In questo modo si diffonde il panico della tortura tra tutti, come un gas paralizzante che invade ogni casa e l'anima di ogni cittadino».

    Di L.C.
    Recensione tratta da aurora n°42 - luglio1997
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    Egemonia americana
    e "Stati fuorilegge"


    Brano tratto dal primo capitolo: Galleria di fuorilegge. Chi li etichetta?

    Come molti altri termini del linguaggio politico, il termine «stato fuorilegge (rogue state)» ha due usi: uno propagandistico, applicato ai nemici in genere, e uno letterale applicato agli stati che non si considerano vincolati alle regole internazionali. La logica suggerisce che gli stati più potenti rientrino nell'ultima categoria a meno che non abbiano costrizioni interne, ipotesi che la storia conferma.
    Benché le norme internazionali non siano rigidamente determinate, esiste un certo grado di intenti sui principi generali. Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, tali norme sono in parte codificate nella Carta dell'ONU, nelle sentenze della Corte internazionale di giustizia e in molteplici convenzioni e trattati. Gli Stati Uniti si considerano esonerati da queste condizioni, ancora di più a partire dalla fine della guerra fredda che ha lasciato loro un predominio così schiacciante da scoraggiare ampiamente ogni pretesa e questo non è passato inosservato. Il bollettino dell'American Society of International Law (ASIL) ha riportato nel marzo 1999 che «oggi nel nostro paese, con ogni probabilità il diritto internazionale gode di minore considerazione rispetto ad Ogni altro periodo» di questo secolo; il direttore di questa rivista specialistica aveva poco prima messo in guardia sull'«allarmante inasprimento» seguito al rifiuto di Washington di rispettare gli obblighi del trattato.
    Il principio operativo fu elaborato da Dean Achenson nel 1963 quando comunicò all'ASIL che la «pertinenza» della replica a una «sfida... [al]... potere, alla posizione, al prestigio degli Stati Uniti, non è una questione legale». Il diritto internazionale, aveva osservato in precedenza, è utile «per abbellire la nostra posizione con un ethos derivato da principi morali generali che hanno interessato le dottrine giuridiche», ma alle quali gli Stati Uniti non sono vincolati.
    Achenson si stava riferendo specificatamente all'embargo contro Cuba. Cuba è stata uno dei principali bersagli della guerra del terrore ed economica degli Stati Uniti per 40 anni, anche prima della decisione segreta del marzo 1960 di rovesciarne il governo. La minaccia cubana fu identificata da Arthur Schleisinger che stese un rapporto conclusivo della missione in America Latina del neo presidente Kennedy: «La diffusione dell'idea di Castro di prendere in mano i propri affari», idea che avrebbe potuto stimolare dovunque «le popolazioni povere e indigenti», che «in questo momento chiedono possibilità di una vita decente» - l'effetto «virus» o «mela marcia», come è talvolta chiamato. C'era una relazione con la guerra fredda: «l'Unione Sovietica si muove ad ampio raggio, offrendo grandi quantità di prestiti allo sviluppo e presentandosi come modello per il raggiungimento della modernizzazione in un solo decennio».
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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    Il libro nero
    del capitalismo



    Chissà se il Cavalier Berlusconi avrà letto questo libro? Pensiamo di no, visto che non fa parte della cultura "azzurra" confrontarsi con teorie che vadano contro, o peggio, smentiscano le sue convinzioni. Vi ricordate quando fu pubblicato in Italia "Il libro nero del comunismo" (opera degnissima ed importante, nessuno lo nega)? Il Silvio da Arcore pubblicizzò quel volume come fosse la Bibbia, lo distribuì gratuitamente ai delegati di Forza Italia come il Pci faceva con i manuali leninisti per la scuola quadri, lo citò in qualsiasi occasione pubblica si trovasse coinvolto. Anche se stava parlando di agricoltura biologica, citava i 100 milioni di morti del comunismo.
    Tutto vero, nulla da ridire. Altrettanto ardore pubblicistico e divulgativo lo gradiremmo però adesso anche per Il libro nero del capitalismo (Autori vari, Marco Tropea Editore, 34.000 lire), monumentale volume da poco pubblicato in Italia nel più totale silenzio mediatico e intellettuale.Tradotto da Massimo Cavaglione, il libro fu pubblicato nel 1998 in Francia dove ottenne un buon successo di vendita e ottime recensioni. Composto da 32 capitoli, redatti da intellettuali, economisti, filosofi, storici e sindacalisti francesi, il libro non si propone di essere un volume omnicomprensivo, poichè "i crimini del capitalismo costituiscono un argomento disgraziatamente inesauribile. Per lo meno allo stato attuale". Piuttosto si tratta di una narrazione per nulla romanzata dei crimini perpetrati dal capitalismo selvaggio e incontrollato dalle sue origini all’attuale processo di mondializzazione. Perchè un libro di questo genere? Per molti motivi ovviamente, ma uno in particolare appare più importante degli altri: dare voce e dignità storico-economica al pensiero dissenziente nei confronti del capitalismo. Un’eresia che, come nella miglior tradizione capitalistica, non è stata proibita, ma bensì costretta in un regime di quasi clandestinità. Questa la libertà di espressione della quale si compiacciono i sostenitori del nostro sistema liberale. Questa un prima fondamentale ragione per la necessità di questo libro.
    CUI PRODEST. La trattazione del tema parte da un assunto semplice quanto opinabile: "La principale virtù del capitalismo risiede nella sua efficienza economica". Ma a beneficio di chi? E a quale prezzo? Nell’introduzione al libro Maurice Cury comincia esaminando i Paesi occidentali, ovvero la vetrina del capitalismo mentre il resto del mondo ne costituisce piuttosto il retrobottega. Dopo il grande periodo di espansione nel XIX secolo, l’evoluzione così come si è determinata nel corso degli ultimi decenni ha portato alla quasi sparizione della piccola proprietà contadina, divorata dalle grandi aziende agricole e ha prodotto tra le altre conseguenze l’inquinamento, la distruzione del paesaggio e il degrado della qualità dei prodotti. Ha portato alla spartizione quasi completa del piccolo commercio al dettaglio, soprattutto a favore della grande distribuzione e degli ipermercati. Ha favorito inoltre la concentrazione delle industrie in grandi aziende, prima nazionali e poi sovranazionali, con proporzioni tali da superare la talvolta la capacità finanziaria di intere nazioni. Queste aziende fanno la legge (o pretendono di farla), prendendo provvedimenti al di sopra degli Stati per rafforzare il loro potere già privo di controlli. La United Fruit, ad esempio, è "proprietaria" di diversi stati dell’America Latina. "I dirigenti capitalisti - obietta Cury - potevano temere che la spartizione della piccola proprietà contadina, dell’artigianato e della piccola borghesia industriale e commerciale facesse ingrossare le file del proletariato. Ma il "modernismo" ha fugato i loro timori, con l’automazione, la miniaturizzazione, l’informatica. Dopo lo spopolamento dei campi, stiamo assistendo a quello di fabbriche e uffici. Siccome il capitalismo non sa e non vuole condividere profitto e lavoro, arriviamo ineluttabilmente alla disoccupazione e al suo strascico di disastri sociali".
    DISASTRI SOCIALI. Quanto più numerosi sono i disoccupati, tanto minori sono le indennità di disoccupazione e tanto meno durano. Quanto meno numerosi sono i lavoratori, tanto più si prevede di ridurre le pensioni. Sembra logico e lo è nella logica ultra-liberista. Ma Cury porta anche un altro dato alla sua tesi: "Quasi venti milioni di disoccupati in Europa, ecco il bilancio positivo del capitalismo! E il peggio deve ancora venire. Le grandi imprese europee e statunitensi, i cui utili sono ormai stati così cospicui, annunciano licenziamenti in massa. Occorre "razionalizzare" la produzione: lo impone la concorrenza! Ci si rallegra per l’aumento degli investimenti stranieri in Francia. Oltre ai pericoli per l’indipendenza nazionale, possiamo domandarci se non sia la diminuzione dei salari a incoraggiare gli investitori di capitali". Una risposta, questa, ai cantori del liberalismo (come il francese Alain Madelin) che esaltano il Regno Unito e gli Usa quali campioni di successo economico e della lotta contro la disoccupazione. "L’abbattimento delle protezioni sociali, la precarietà dell’occupazione, i bassi salari e il taglio delle indennità ai disoccupati (che così spariscono dalle statistiche, evitando imbarazzi consuntivi) saranno forse l’ideale del signor Madelin, ma non credo proprio che siano l’ideale dei lavoratori del suo paese".
    STRAPOTERE USA. L’esempio degli Usa, il paradiso del capitalismo, è eclatante se visto dal buco della serratura dei più deboli. Trenta milioni di abitanti (più del 10 per cento della popolazione) vivono sotto la soglia di povertà. La supremazia degli Usa nel mondo, la propagazione uniformatrice del loro modello di vita e della loro cultura, possono di fatto soddisfare soltanto le menti servili. L’Europa farebbe bene a stare all’erta e a reagire, finché ne ha la possibilità economica. Ma le occorrerebbe anche una volontà politica. "Per favorire gli investimenti produttivi, nell’industria o nei servizi, il capitalismo - argomenta Cury - dichiara di volerli rendere concorrenziali rispetto agli investimenti finanziari e speculativi a breve termine. In che modo? Tassando questi ultimi? Niente affatto, abbassando i salari e gli oneri sociali! È anche un modo per rendere concorrenziale l’Occidente con il Terzo mondo. Del resto nel Regno Unito hanno cominciato a far lavorare i bambini. Infatti, questo Paese, per molti aspetti vassallo degli Usa, non ha ratificato il trattato che vieta il lavoro minorile".
    IMMIGRAZIONE E COLONIALISMO. Quali le conseguenze dirette di questa spirale perversa, anche in termini collaterali di immigrazione selvaggia? Preso nel circolo infernale della concorrenza, il Terzo mondo dovrà abbassare ancora i costi e affondare ulteriormente i suoi abitanti nella miseria. Poi sarà nuovamente il turno dell’Occidente, e così via finché il mondo intero sarà nelle mani di pochi grandi gruppi sovranazionali, a maggioranza statunitense, e non si avrà quasi più bisogno dei lavoratori, ma solo di un’élite di tecnici. "Allora - chiosa Cury - per il capitalismo il problema sarà quello di trovare i consumatori, al di fuori di quest’elite e di quella degli azionisti, e sarà anche quello di tenere a bada la delinquenza che la miseria avrà portato". Le devastazioni compiute in un secolo e mezzo dal colonialismo e dal neocolonialismo non si possono calcolare, così come non si possono stimare i milioni di morti che gli sono imputabili. Ne sono consapevoli tutti i grandi paesi europei e gli Usa. Schiavitù, repressioni spietate, torture, appropriazioni, furto di terre e di risorse naturali da parte delle grandi compagnie occidentali, statunitensi o multinazionali, o dei potenti locali al loro soldo; creazione o smembramento artificiale di paesi, imposizione di dittature; monocoltura in sostituzione delle colture alimentari tradizionali; distruzione dei modelli di vita e delle civiltà ancestrali; deforestazione e desertificazione, disagi ecologi, carestia; cacciata delle popolazioni verso le megalopoli, dove sono in agguato la disoccupazione e la miseria. Ecco i costi del capitalismo che mai potremo quantificare, a cui si aggiungono quelli drammaticamente quantificabili dell’attualità. Dice Cury: "Le strutture di cui si è dotata la comunità internazionale per regolare lo sviluppo delle industrie e del commercio sono interamente nelle mani e al servizio del capitalismo: la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, l’Organizzazione mondiale del commercio e ora l’Accordo multilaterale sugli investimenti. Questi organismi sono serviti solo a indebitare i paesi del Terzo mondo e a imporre loro il credo liberale. Hanno permesso lo sviluppo di sfacciate fortune locali, ma non hanno fatto crescere la miseria delle popolazioni".
    AUTOMAZIONE. Un altro inquietante aspetto dell’egemonia capitalistica è che tra qualche decennio il capitalismo internazionale non avrà quasi più bisogno di manodopera. I laboratori statunitensi studiano le colture "in vitro" che distruggeranno definitivamente il Terzo mondo agricolo. Secondo questa logica, i lavoratori di tutto il mondo non finiranno per spartirsi i beni, ma la disoccupazione. Servizi assistenziali, quali l’istruzione, la sanità, l’ambiente, la cultura, la mutua assistenza, non saranno più assicurati a chi ne ha realmente diritto perché non genereranno profitti e non interesseranno il settore privato. Resteranno a carico degli stati o delle comunità locali, cui il liberalismo vuole togliere ogni potere e ogni mezzo economico.
    LE STRATEGIE. Ma passiamo ora ad un’analisi più approfondita dei mezzi e delle strategie capitalistiche per imporre la propria legge sul mondo. "Quali sono i mezzi di espansione e di accumulazione del capitalismo? La guerra (o la protezione, sull’esempio della mafia), la repressione, la spoliazione, lo sfruttamento, l’usura, la corruzione, la propaganda. La guerra contro i paesi ribelli che non rispettano gli interessi occidentali. Quello una volta che fu appannaggio del Regno Unito e della Francia, in Africa e in Asia (gli ultimi soprassalti del colonialismo delle Indie, nel Madagascar, in Indocina, in Algeria, hanno fatto milioni di morti), è oggi appannaggio degli Usa, il paese che pretende di comandare il mondo. Gli Usa, proprio per questo, non hanno smesso di praticare una politica di eccesso di armamenti (che pure vietano agli altri). Abbiamo visto in azione questo imperialismo in tutti gli interventi diretti o indiretti degli Usa in America Latina, e particolarmente in America centrale (Nicaragua, Guatemala, Salvador, Honduras, Grenada), in Asia, in Vietnam, in Indonesia, a Timor (genocidio più esteso, in proporzione, di quello dei khmer rossi in Cambogia - circa due terzi della popolazione - e perpetrato con l’indifferenza se non con la complicità dell’Occidente), nella guerra del Golfo ecc".
    MILLE GUERRE SENZA MITRAGLIATORI. Ma la guerra non si fa soltanto con le armi, può assumere forme inedite: per esempio, la guerra può anche prendere la forma delle sanzioni contro altri stati indocili (Cuba, Libia, Iraq), tanto onerose per le popolazioni (parecchie centinaia di migliaia, addirittura milioni di morti in Iraq). La spoliazione è la causa evidente del ricorso alla forza. Se si vuole svaligiare una casa in presenza dei suoi abitanti, è meglio possedere un’arma. Le pratiche del capitalismo sono simili a quelle della mafia, ecco perché quest’ultima prolifera così bene nel suo humus. Come la mafia, il capitalismo protegge i dirigenti docili che lasciano sfruttare spudoratamente il proprio paese dai grandi gruppi statunitensi o sovranazionali. In tal modo, quando non le introduce esso stesso, consolida le dittature. "Le sue armi sono indifferentemente la democrazia o la dittatura - dice Cury - il commercio o il gangsterismo, l’intimidazione o l’omicidio. Così la Cia è probabilmente da considerarsi la più grande organizzazione criminale su scala mondiale".
    L’USURA LEGALE. Altra pratica mafiosa è l’usura: come la mafia presta denaro al commerciante che non potrà mai liberarsi del suo debito e finirà per perdere la sua bottega (o la vita), così si inducono i paesi a investire, spesso artificiosamente, e ad acquistare armi per la lotto contro gli stati avversari. Essi dovranno poi rimborsare gli interessi accumulati dal debito e i creditori diventeranno facilmente i padroni della loro economia. Le economie occidentali sottopongono il Terzo mondo alle peggiori forme di sfruttamento: La schiavitù: e, al loro stesso interno, l’asservimento degli immigrati clandestini. La corruzione: le multinazionali dispongono di tale forma di influenza, anche finanziaria e politica, sul complesso dei dirigenti pubblici o privati che soffoca ogni resistenza. La propaganda: per imporre il suo credo e giustificare l’eccesso di armamenti, gli atti delittuosi e i crimini sanguinosi, il capitalismo invoca sempre concetti generali quali difesa della democrazia e della libertà mentre il più delle volte non difende altro che gli interessi di una classe possidente, che vuole impadronirsi di materie prime, dettar legge sulla produzione di petrolio o controllare luoghi strategici.
    INDIGNAZIONE AD OROLOGERIA. "Questa propaganda - tuona in chiusura di introduzione Cury - è diffusa da governanti economici e politici, da una stampa e da media asserviti. Assertori del liberalismo, lodatori degli Usa, dico a voi! Non ho udito la vostra voce contro la distruzione del Vietnam, né contro il genocidio indonesiano, né contro le atrocità perpetrare in nome del liberalismo in America Latina; non l’ho udita neppure contro l’appoggio statunitense al colpo di stato di Pinochet, uno dei più sanguinosi della storia, né contro la condanna a morte dei sindacalisti turchi. La vostra indignazione è stata alquanto selettiva: Solidarnos’c’ ma non il Disk, Budapest ma non l’Algeria, Praga ma non Santiago, l’Afghanistan ma non Timor. Non vi ho visto indignarvi quando uccidevano persone che volevano dare il potere al popolo o difendere i poteri. E non vi odo chiedere perdono per la vostra complicità e per il vostro silenzio".
    MONDIALIZZAZIONE. Particolarmente interessante e attuale appare poi la definizione di mondializzazione data da Francois Chesnais nel 28° capitolo del libro, intitolato "I morti viventi della mondializzazione".
    "È un fatto, ormai nemmeno più contestato dai sostenitori della mondializzazione del capitalismo: l'aggravamento delle disuguaglianze nel tenore di vita nei paesi ricchi e nei paesi poveri (la polarizzazione sociale) e l’adattamento dell’intero pianeta al libero mercato (la modernizzazione) sono la conseguenza di un’organizzazione economica e politica che non riconosce per fondamento morale niente altro che i valori generati dalle necessità di questa mondializzazione. I danni economici e sociali non appaiono quindi come "disfunzioni", ma sono in realtà il prodotto di una ricolonizzazione del mondo per opera delle forze dominanti. Tale processo è fondato su un’utopia omicida, la mondializzazione, le cui prime applicazioni lasciano intravedere un bilancio negativo in tutti gli ambiti per l’avvenire del pianeta. Infatti la stessa crisi ecologica si analizza chiaramente come crisi sociale e come prodotto di un sistema dove l’abbondanza non può essere condivisa. Per assicurare le comodità moderne al 20% dell’umanità - prosegue Chesnais - bisogna già da oggi sottrarre le produzioni cerealicole al mondo povero, abbattere le sue foreste, distruggere i suoi tradizionali modi di vivere, deportare i contadini espropriati o rovinati verso le favelas o i barrios dell’America latina, i quartieri proibiti dell’Asia meridionale, le periferie di Manila, le bidonvilles di Dakar; bisogna organizzare un mercato delle materie prime su quel modello di rapina che ha gettato nell’estrema povertà un miliardo di persone". Legga questo libro, Cavalier Berlusconi: quantomeno per ossequio alla legge sulla "par condicio". Ops, scusi la gaffe.



    Mauro Bottarelli, in "La Padania", 26 ottobre 1999
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    Menzogne di guerra



    Febbraio 2002: il New York Times rivela che il Pentagono ha elaborato "un piano di disinformazione rivolto a paesi amici e nemici", l’Office of Strategic Influence. 1984 di George Orwell è superato dalla realtà! Ma l’"Ufficio Bugie" lavora già da tempo senza bisogno d’investiture ufficiali e con ottimi risultati, soprattutto riguardo la Jugoslavia. Non era mai successo finora che così pochi mentissero a così tanti e così a fondo come in rapporto alla guerra per il Kosovo!L’invenzione di una nuova Auschwitz, di un nuovo Genocidio in piena Europa alle soglie del XXI secolo, è stata la trovata geniale dell’agenzia americana Ruder & Finn, ingaggiata fin dal 1993 per far coincidere nell’opinione pubblica serbi e nazisti e giustificare così l’aggressione della NATO, la sua "guerra celeste", "modello Hiroshima": 600 missioni aeree al giorno, e fu l’uranio e le bombe sulle industrie chimiche di Pancevo, furono i missili sulla Zavasta di Kragujevac, fu la distruzione dei ponti e delle centrali elettriche, degli acquedotti e delle reti fognarie, delle scuole, degli ospizi, degli asili, delle stazioni. E nel Kosovo, occupato dalla NATO e dall’UCK, si è avuta la "pulizia etnica" di circa 300.000 tra serbi, rom, appartenenti ad altre etnie non-albanesi ed anche albanesi antisecessionisti su cui è calato the Sound of Silence, un silenzio mortale di governi occidentali e mass media.Questo libro di Jürgen Elsässer, redattore del mensile tedesco KONKRET, è un utilissimo strumento nella battaglia di controinformazione, grazie alla ricca – e in buona parte inedita – documentazione, grazie al meticoloso e dettagliato smontaggio delle notizie, passate al vaglio dell’analisi critica e del raffronto tra versioni diverse: un lavoro filologico accurato e puntiglioso, di passione e ragione, volto non a costruire una propria verità di comodo, ma a documentare quanto effettivamente accaduto. Si illuminano così di luce affatto nuova alcuni episodi – chiave di cui si servì la campagna massmediatica per demonizzare e "nazificare" il governo jugoslavo: Srebrenica (1995), Racak (1999), la situazione in Kosovo nell’autunno del 1998, l’"Operazione a ferro di cavallo", inventata dal ministro degli esteri tedesco Scharping. Passo dopo passo, Jürgen Elsässer ripercorre i passaggi essenziali della vicenda e delle rispettive bugie di guerra: il massiccio sostegno del governo tedesco all’UCK; l’imbroglio delle trattative di Rambouillet, con il suo allegato B, che avrebbe consegnato l’intera Repubblica Federale di Jugoslavia alla NATO; le pressioni della Germania – in "cooperazione antagonistica" con Washington – per un immediato intervento militare contro la Jugoslavia; la trasformazione del Kosovo in un protettorato in cui spadroneggiano le bande dell’UCK e i narcotrafficanti.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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    Storia ebraica e giudaismo



    Israel Shahak
    Storia ebraica e giudaismo
    Il peso di tre millenni
    Prefazione di Gore Vidal
    A cura di Nabeel Abraham
    pp.258, euro 15,50
    Centro Librario Sodalitium, 1997



    Alla fine degli Anni Cinquanta, quel grande pettegolo e storico dilettante che era John F. Kennedy mi disse che nel 1948 Harry Truman, proprio quando si presentò candidato alle elezioni presidenziali, era stato praticamente abbandonato da tutti. Fu allora che un sionista americano andò a trovarlo sul treno elettorale e gli consegnò una valigetta con due milioni di dollari in contanti. Ecco perché gli Stati Uniti riconobbero immediatamente lo Stato d’Israele. A differenza di suo padre, il vecchio Joe, e di mio nonno, il senatore Gore, né io né Jack eravamo antisemiti e così commentammo quell’episodio come una delle tante storielle divertenti che circolavano sul conto di Truman e sulla corruzione tranquilla e alla luce del sole della politica americana. Purtroppo, quell’affrettato riconoscimento dello Stato d’Israele ha prodotto quarantacinque anni di confusione e di massacri oltre alla distruzione di quello che i compagni di strada sionisti credevano sarebbe diventato uno stato pluralistico, patria dei musulmani, dei cristiani e degli ebrei nati in Palestina e degli immigrati europei e americani, compreso chi era convinto che il grande agente immobiliare celeste avesse dato loro, per l’eternità, il possesso delle terre della Giudea e della Samaria. Poiché molti di quegli immigrati, quando erano in Europa, erano stati sinceri socialisti, noi confidavamo che non avrebbero mai permesso che il nuovo stato diventasse una teocrazia e che avrebbero saputo vivere, fianco a fianco, da eguali, con i nativi palestinesi. Disgraziatamente, le cose non andarono così. Non intendo passare ancora una volta in rassegna le guerre e le tensioni che hanno funestato e funestano quella infelice regione. Mi basterà ricordare che quella frettolosa invenzione dello Stato d’Israele ha avvelenato la vita politica e intellettuale degli Stati Uniti, questo improbabile patrono d’Israele. Dico improbabile perché, nella storia degli Stati Uniti, nessun’altra minoranza ha mai estorto tanto denaro ai contribuenti americani per investirlo nella “propria patria”. E’ stato come se noi contribuenti fossimo stati costretti a finanziare il Papa per la riconquista degli Stati della Chiesa semplicemente perché un terzo degli abitanti degli Stati Uniti sono di religione cattolica. Se si fosse tentata una cosa simile, ci sarebbe stata una rea_zione violentissima e il Congresso si sarebbe subito opposto decisamente. Nel caso degli ebrei, invece, una minoranza che rappresenta meno del due per cento della popolazione ha comprato o intimidito settanta senatori, i due terzi necessari per nullificare un comunque improbabile veto presidenziale, e si è valsa del massiccio appoggio dei media. In un certo senso, ammiro il modo in cui la lobby ebraica è riuscita a far sì che, da allora, miliardi e miliardi di dollari an_dassero ad Israele “baluardo contro il comunismo”. In realtà, la presenza dell’URSS e il peso del comunismo sono stati, in quelle regioni, men che rilevanti e l’unica cosa che noi americani siamo riusciti a fare è stato di attirarci l’ostilità del mondo arabo che prima ci era amico. Ancora più clamorosa è la disinformazione su tutto quanto avviene nel Medio Oriente e se la prima vittima di quelle sfacciate menzogne è il contribuente americano, all’opposto lo so_no anche gli ebrei degli Stati Uniti che sono continuamente ricattati da terroristi di professione come Begin o Shamir. Peggio ancora, salvo poche onorevoli eccezioni, gli intellettuali ebrei americani hanno abbandonato il liberalismo per stipulare demenziali alleanze con la destra politico religiosa cristiana, antisemita, e con il complesso militare-industriale del Pentagono. Nel 1985, uno di quegli intellettuali dichiarò apertamente che quando gli ebrei erano arrivati negli Stati Uniti avevano trovato “più congeniali l’opinione pubblica e i politici liberali” ma che, ora, è interesse dell’ebraismo allearsi ai fondamentalisti protestanti perché, dopo tutto, “c’è forse qualche ragione per cui noi ebrei dobbiamo restar fedeli, dogmaticamente e con l’ipocrisia, alle idee che condividevamo ieri?”. A questo punto, la sinistra americana si è divisa e quelli di noi che criticano i nostri ex-alleati ebrei per questo loro insensato opportunismo vengono subito bollati con i rituali epiteti di “antisemita” o di “odiatori di se stessi”. Per fortuna, la voce della ragione è ancora viva e forte e viene proprio dalla stessa Israele. Da Gerusalemme, Israel Shahak, con le sue continue e sistematiche analisi, smaschera la sciagurata politica israeliana e lo stesso Talmùd, in altre parole l’effetto che ha tutta la tradizione rabbinica sul piccolo Stato d’Israele che i rabbini di estrema destra di oggi vogliono trasformare in una teocrazia riservata ai soli ebrei. Shahak guarda con l’occhio della satira tutte le religioni che pretendono di razionalizzare l’irrazionale e, da studioso, fa risaltare le contraddizioni contenute nei testi. E un vero piacere leggere, con la sua guida, quel grande odiatore dei gentili che fu il dottor Maimonide! Inutile dire che le autorità israeliane deplorano l’opera di Shahak, ma non possono far nulla contro un docente universitario di chimica in pensione, nato a Varsavia nel 1933, che ha passato alcuni anni della sua infanzia nel campo di concentramento nazista di Belsen. Nel 1945 Shahak andò in Israele; ha prestato servizio nell’esercito israeliano e non è diventato marxista negli anni in cui essere marxisti era di gran moda. Shahak era, ed è, un umanista che detesta l’imperialismo sia che si manifesti come il Dio di Abramo che come la politica di George Bush e, con lo stesso vigore, la stessa ironia e competenza, si oppone al nocciolo totalitario del giudaismo. Israel Shahak è un Thomas Paine più colto che continua a ragionare e, di anno in anno, ci rivela le prospettive che abbiamo e ci dà gli strumenti per chiarirci la lunga storia che sta alle nostre spalle. Coloro che si preoccupano per lui saranno forse più saggi o, devo proprio dirlo? migliori, ma Shahak è il più recente, se non l’ultimo, dei grandi profeti.

    Dalla prefazione al libro di Gore Vidal
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

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    LA PAURA E L'ARROGANZA

    «Questo libro raccoglie voci accomunate dal desiderio di passare al di là dello specchio dei luoghi comuni. Non sono voci univoche. Anzi, alcune tesi propugnate da questo o da quello degli autori contrastano con quelle di altri. Sono interventi che in un modo o nell' altro esprimono e suscitano dubbi. Ci è parso che far vendetta e chiamarla giustizia, fare i propri interessi e chiamarla libertà, siano mistificazioni dalle quali dobbiamo liberarci se vogliamo capire il mondo quale esso è». Franco Cardini


    Franco Cardini
    La paura e l'arroganza
    pp. 160, euro 12,00
    Edizioni Laterza, 2002



    HO TROVATO UN AMICO DI DESTRA
    09/10/2002 - Ho letto in questi giorni un libro che vi suggerisco. Si intitola La paura e l'arroganza (Laterza, 2002) ed è davvero l'esatto opposto de La rabbia e l'orgoglio di Oriana Fallaci. Non tanto l' “anti Fallaci” (perché di “ostile” ha assai poco), ma piuttosto il suo rovesciamento. L'alternativa civile a quel “manifesto dell'odio” di cui rappresenta davvero l'antitesi, e non solo nel titolo (anche qui una coppia di sostantivi, che sintetizzano assai meglio di quanto non faccia l'altra, lo stato mentale dell'Occidente dopo l'11 settembre), ma soprattutto nei toni, nello stile: riflessivo, pacato, misurato. Attento alle diverse ragioni in campo, al linguaggio dei fatti e non solo delle emozioni, al contesto storico e non solo al puntiforme effetto dei singoli eventi. Dice quello che nel dibattito pubblico ci si potrebbe - anzi, dovrebbe - aspettare, e che invece desolantemente manca. Dice che nella ondata di passione filoamericana che seguì immediatamente la tragedia delle due torri, in quel «siamo tutti americani» che risuonò allora un po' ovunque, c'era tanta, forse troppa, emotività e superficialità; che sotto quel proclamato senso d'identità istantanea c'era un drammatico deficit di riflessione e fin anche di conoscenza di cosa sia veramente l'America. Dice che in quella reazione in qualche misura sproporzionata, di fronte alle immagini ripetute all'infinito del crollo e al numero spaventoso delle vittime, l'Occidente tradì in un certo senso il proprio stesso universalismo, dimenticando le altre infinite vittime (anch'esse civili) della violenza “nostra”. Dice che non di scontro tra Male e Bene si tratta, ma che in tutta questa vicenda anche di petrolio bisognerà pur parlare, e di oleodotti, e di geo-politica ormai intrecciatasi inestricabilmente con la geo-economia e con gli interessi smisurati delle corporation americane. Dice che c'è un totalitarismo liberale e democratico certo diverso nei mezzi ma non meno soffocante e pervasivo di quello delle vecchie dittature novecentesche, che toglie la parola prima ancora che questa sia stata articolata, mette al bando opinioni e pensieri “non conformisti”.

    Che a curare quest'opera sia un uomo dalle radici piantate nella cultura di destra, come Franco Cardini è poi elemento ulteriore di riflessione, tanto più di fronte al silenzio estenuato di tanti intellettuali di sinistra. Ci suggerisce la constatazione, per la verità ovvia, che il coraggio e l'onestà intellettuale, la disponibilità a un pensiero libero, il rispetto del proprio sapere e della propria indipendenza prescindono in realtà dalla propria collocazione nella consolidata topografia politica. Che si trovano cioè tanto a sinistra quanto a destra o al centro. Ma ci dice anche qualcosa di più, tenuto conto del fatto che gli autori dei diversi saggi contenuti nelle quattro sezioni del libro (Voci dall'Italia, Voci dall'Europa, Voci dall'America, Voci dall'Islam) sono distribuiti, per quanto riguarda le simpatie politiche, sull'intero continuum destra/sinistra: vanno dal grande storico di formazione marxista Eric Hobsbawm al maitre à penser della nouvelle droite francese Alain de Benoist, dal radical americano Michael Chossudovsky all'eco-conservatore italiano Marco Tarchi, dal free lance Massimo Fini allo “scandaloso” Noam Chomsky. Ci dice che di fronte alle «questioni esistenziali della pace e della guerra» (così le ha definite Gerard Schroeder), oggi, più che l'appartenenza politico-ideologica, conta l'atteggiamento mentale. Che non c'è bisogno di essere e professare questa o quella cultura politica per prendere posizione, ma basta un semplice, genericamente umano, sguardo sul mondo. Una spregiudicata (scevra cioè da pregiudizi) considerazione dei fatti, delle posizioni dei protagonisti, delle loro menzogne e retoriche (perché, in questa campagna di guerra che si prepara, è la retorica e solo essa a farla da padrona). Basta l'occhio disincantato di un osservatore non avvelenato dalle grandi narrazioni mediatiche e di potere, per dire che «il re è nudo». Basta questo per dire che la guerra oggi è la risposta oscena a uno stato di disordine del mondo che abbiamo contribuito a creare. Per dire, cioè, quello che ci dovremmo aspettare di trovare, almeno in piccola misura, affermato sui media che quotidianamente ci assordano e ci sommergono. E che invece non troviamo. Qui, ciò che colpisce di più, passando dalle pagine del libro di Cardini a quelle ben più leggere dei quotidiani, è l'assordante silenzio della ragione, e l'incredibile - davvero incredibile - strepito delle montature: dei racconti improbabili sui pericoli mortali, e sulla necessità di una guerra preventiva che si sa si farà perché così vuole un'oligarchia del petrolio mascherata da paladino dell'umanità. Un racconto che si è tessuto per tredici, lunghi mesi senza che si levassero con l'autorevolezza che sarebbe stata necessaria voci critiche, capaci di richiamarci alla ragionevolezza, o anche solo al senso della tragedia che inconsapevolmente ci troviamo a vivere da comparse. Qualcuno ci ha provato: Tiziano Terzani sul Corriere della sera ha svolto uno straordinario ruolo civile, ma la sua è parsa, per l'uso che ne è stato fatto nel sistema dei media, più la voce di un sopravvissuto che parla dal deserto che non la parte riconosciuta di un'opinione pubblica attiva e vigile. Claudio Magris ci aveva provato, ai tempi della guerra del Kosovo, ma è stato presto risospinto tra le anse del suo Danubio, e la sua criticità neutralizzata. Umberto Eco non ci ha neanche provato, perso dietro le sue bustine di minerva e i suoi calambour, ormai tanto internazionale da non aver più un luogo in cui farsi e a cui comunicare la propria opinione. Il suo evaporare è l'evaporare di un'intera generazione tanto poco abituata a misurarsi col tragico, da non riconoscere più neppure quando la vive, la tragicità della propria esperienza storica. Nel momento in cui occorrerebbe gridare forte e chiaro il proprio scandalo, l'intellighentzja italiana (ma anche in buona misura europea), forse ubriacata dai passati deliri, pratica un silenzio che sa di seconda “trahison des clercs”

    Marco Revelli
    Fonte: http://www.vita.it/

    INDICE DEL LIBRO:

    Introduzione
    Franco Cardini, Nowhere: now-here, no-where

    Voci dall'Italia
    Marco Tarchi, Padroni del mondo e dittatori del pensiero
    Giannozzo Pucci, Per un nuovo ordine internazionale
    Ugo Barlozzetti, La menzogna e l'arroganza
    Alessandro Bedini, Considerazioni su "Una guerra empia"
    Massimo Fini, Islam e Occidente, l'eterno conflitto

    Voci dall'Europa
    Alain de Benoist, 11 settembre 2001
    Eric J. Hobsbawm, L'impero senza ombra

    Voci dall'America
    Noam Chomsky, Terrorismo, l'arma dei potenti
    Michael Mandel, Dite quel che vi pare, ma questa guerra è illegale
    Michel Chossudovsky, Chi è Osama bin Laden?
    V.K. Shashikumar, Lo sporco segreto afghano dell'America: è una guerra del petrolio
    Mahmood Mamdani, Buon musulmano, cattivo musulmano: una prospettiva politica sulla cultura e il terrorismo

    Voci dall'Islam
    L'Ayatollah Khamenei su Usa e Afghanistan
    E noi ci chiediamo: dove sono le Nazioni Unite?
    Jamil Barakat, Lettera al presidente Bush: il terrorismo è estraneo all'Islam
    Tariq Ali, Guerra totale contro un pericolo diffuso in nome dello "scontro di civilta"
    Postfazione a cura del Centro internazionale di dialogo interculturale ed interreligioso Dia-Légein.
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

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    GUERRA ALLA LIBERTÀ



    Nafeez Mosaddeq Ahmed
    Guerra alla libertà
    Il ruolo dell'amministrazione Bush
    nell'attacco dell'11 settembre
    pp.344, euro 16,80
    Fazi Editore 2002

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    Nel periodo immediatamente successivo agli attentati realizzati negli Stati Uniti il giorno 11 settembre 2001 l'enormità stessa del fatto e il suo carattere inusitato avevano in qualche modo stordito le possibilità e capacità di analisi del fatto stesso, come se qualsiasi indagine e verifica informativa fosse addirittura inutile e comunque priva di significato sostanziale. Superata la fase di shock, la forte valenza simbolica degli obiettivi colpiti e segnatamente delle torri di New York, effige orgogliosa del globalismo avanzante, che obiettivamente offriva agli odiatori degli yankee in tutto il mondo un'icona celebrativa di grande impatto emotivo, non poteva non indurre a scartare già in ipotesi la possibilità che gli attentati fossero stati concepiti e attuati da agenzie, circoli o poteri ricollegabili, direttamente o indirettamente, agli yankee stessi ovvero a loro strettissimi e interessati sodali. In una tale circostanza, dunque, la fulminante battuta di Seneca "Cui prodest scelus, is fecit" appariva addirittura fuori luogo. Era peraltro già ben evidente ciò che Condoleezza Rice, la negretta d'innocuo aspetto alla quale Bush ha affidato l'incarico di National Security Advisor, avrebbe dichiarato con assoluta improntitudine più recentemente: "L'undici settembre costituisce una straordinaria opportunità per gli Stati Uniti". Ed era anche già ben chiaro, come oggi manifestamente si conferma, che un'Israele portata dallo sharonismo fin sul ciglio dell'abisso avrebbe ricavato vantaggi strategici enormi da una precipitazione dei rapporti tra Occidente e Islam che sfociasse in quello scontro di culture ("Clash of Civilizations") preconizzato da Samuel P. Huntington nel suo omonimo e discutibile saggio già nel 1996. Pur non inverosimile, dunque, lo scenario di un'enorme provocazione orchestrata per dare pretesto alla guerra appariva piuttosto improbabile. Meno improbabile sembrava invece, tenuto conto della clamorosa inefficienza apparentemente dimostrata dai servizi di informazione e di sicurezza nell'opera di prevenzione, lo scenario più complesso esemplificato, tra i primi, dall'insospettabile Giorgio Galli. Nel suo "L'impero americano e la crisi della democrazia" (Milano 2002), egli osservava: "Occorre partire da una convinzione razionale: è impossibile che i servizi di sicurezza degli Stati Uniti (Cia, Fbi, Nsc) e israeliani (Mossad) non sapessero nulla di nulla sui preparativi degli attentati dell'11 settembre. È del tutto inverosimile che in quel momento e contesto specifico - dalla Intifada palestinese, alla conferenza di Durban - i potentissimi apparati delle intelligence statunitense e israeliana fossero totalmente ignari dei preparativi di una iniziativa di così rilevanti dimensioni, presumibilmente progettata proprio sul territorio degli Stati Uniti" (pag. 7). E ancora: "Naturalmente, escludo che i Servizi potessero sapere con precisione di un'impresa come quella che è stata attuata l'11 settembre. Piuttosto, le intelligence USA e il Mossad potevano avere appreso, per esempio, del progetto di dirottare un aereo sul territorio degli Stati Uniti, ignorando che quel dirottamento era parte di un progetto ben più ampio e catastrofico come quello che effettivamente è stato portato a compimento. Ritengo in sostanza che i citati servizi di intelligence, nell'estate del 2001, qualcosa avessero saputo sull'imminenza di un attentato, il quale però non è stato impedito (l'ex presidente Clinton avrebbe poi parlato di ben 16 attentati sventati durante la sua amministrazione). Perché? Probabilmente perché un singolo, grave ma limitato episodio di destabilizzazione avrebbe permesso di perseguire uno o più obiettivi politici di rilievo" (pag. 8). E infine: "Pur estraneo agli attentati dell'11 settembre e ignorandone l'enorme portata, il Mossad probabilmente era a conoscenza che negli Stati Uniti si stava preparando una operazione terroristica di rilevanti dimensioni, in grado di produrre una svolta politica a tutto vantaggio di Israele" (pag. 79).Degli attentati negli Stati Uniti hanno trattato molti autori, con maniere e spirito diversi. L'occasione era troppo ghiotta, poi, perché qualcuno non rispolverasse rifritte teorie complottistiche, pur in libercoli divertenti e ben congeniati come sogliono appunto essere i romanzi gialli d'autore. Ci si lasci osservare, a tal proposito, come i teoremi sensazionalistici sulla Grande Cospirazione Mondiale, dai Protocolli dei Savi di Sion fino al Complotto di Mani Pulite abbiano storicamente funzionato come solleticatori degli istinti belluini in amorfe masse di imbecilli, ma servendo di regola la menzogna e non già la verità. Con questo, naturalmente, non neghiamo affatto l'esistenza di macchinazioni nell'ambito delle attività umane e quindi della politica mondiale, solo che le correlate vicende sono normalmente assai più semplici, o viceversa assai più complesse, di come i complottomani didascalicamente tendano a dipingerle.Tra i libri meritevoli di attenzione certamente si segnala "La guerra infinita" di Giulietto Chiesa (Feltrinelli Milano, 2002), che dedica tutto un capitolo agli attentati dell'11 settembre e ottimamente tratteggia il quadro geopolitico di riferimento generale. Pur ricco di dati e fatti, però, il libro di Chiesa non entra più di tanto negli specifici particolari inerenti agli attentati.Il recente libro di Nafeez Mosaddeq Ahmed, "Guerra alla libertà", uscito nel settembre 2002 per i tipi di Fazi Editore, è invece espressamente dedicato a questi, che naturalmente colloca nel contesto generale ma non per questo esimendosi da approfondimenti dettagliati e di grande interesse. Il sottotitolo ("Il ruolo dell'amministrazione Bush nell'attacco dell'11 settembre") è a questo proposito molto significativo. Ahmed non è, come il nome potrebbe far sospettare, un esaltato islamista uscito da qualche covo di fanatici, bensì un serio studioso inglese che dirige a Brighton l'"Institute for Policy Research & Development". I suoi lavori sono testi di studio, tra l'altro, ad Harvard e in altre università statunitensi. Gore Vidal ha definito il libro di Ahmed "La più approfondita e inquietante analisi che abbia letto finora sull'11 settembre", mentre secondo Peter D. Scott dell'Università di Berkeley (Ca) "Ahmed va dritto al cuore del problema, offrendo un'enorme quantità di dati fino a oggi completamente sottovalutati". Dal risvolto di copertina:Esistono prove convincenti che "l’amministrazione Bush abbia istigato il terrorismo in quanto esso è un pretesto perfetto per giustificare una politica estera aggressiva; e questo è valso anche per gli attacchi dell’11 settembre alle Torri Gemelle e al Pentagono". È la controversa tesi centrale di questo libro, che arriva finalmente in Italia, in prima europea, dopo aver circolato a lungo su Internet e nei canali alternativi dell'informazione radical. Ma non si pensi a una raccolta di facili insinuazioni dietrologiche. Ciò che sorprende in Guerra alla libertà è l'assoluta sobrietà e il rigore documentario con cui Ahmed tenta di rispondere a queste domande:

    1. L'invasione dell'Afghanistan è il risultato degli attentati dell'11 settembre o, come molti dati indicano con chiarezza, era già programmata in precedenza?

    2. Come mai, nonostante le numerose e dettagliate segnalazioni, non è stato fatto nulla per prevenire gli attentati?

    3. Come mai l'11 settembre non si sono applicate le procedure di routine di intercettazione degli aerei?

    4. Quali sono le relazioni economiche che hanno legato la famiglia di bin Laden e la famiglia Bush? esse sono interrotte da tempo o, come sembra, continuano ancora oggi?

    5. Osama bin Laden ha davvero rotto con la sua famiglia o invece, come fonti attendibili indicano chiaramente, mantiene con essa rapporti di stretta cooperazione?

    6. A chi porteranno benefici economici la guerra in Afghanistan e le prossime, annunciate campagne della "guerra al terrorismo"?

    Guerra alla libertà offre l'interpretazione più chiara, articolata e completa degli avvenimenti dell'11 settembre e di ciò che ne è seguito: di quella tragica giornata ricostruisce le motivazioni profonde con una lucidità che costringerà ogni lettore, anche il più scettico, a riflettere"". Lontano da ogni sindrome complottistica, Ahmed esponendo puri e documentati fatti costringe appunto a riflettere. Non trae conclusioni aprioristiche. Non bandisce crociate. Non si lascia mai trascinare dalle emozioni personali. Ma le riflessioni che il suo libro costringe a compiere rimettono in causa, obiettivamente, scenari come quello ipotizzato da Giorgio Galli e ne evidenziano il carattere tendenzialmente semplicistico: a un anno dai fatti, sulla scorta di molti elementi nel frattempo emersi (che Ahmed in buona parte riprende), esistono le condizioni per approfondirne più compiutamente l'analisi e valutare, di conseguenza, ipotesi di maggiore complessità.

    Nella prefazione al libro, John Paul Leonard elenca alcuni punti, tra gli altri, che il lavoro di ricerca di Ahmed porta in luce:

    1. È stato grazie a un investimento della famiglia bin Laden che George Bush Jr. ha avviato la sua attività, mentre è chiaro che la guerra in Afghanistan sarà servita a rendere più ricca la famiglia Bush.

    2. Certe attività di un ex sergente dell'esercito USA - che ha addestrato gli attivisti di Al Qaeda e ha partecipato agli attentati contro le ambasciate - inducono a pensare che gli USA continuino a proteggere bin Laden, considerato alla stregua di risorsa strategica.

    3. Membri di Al Qaeda sono stati addestrati al terrorismo negli Stati Uniti, dalla CIA, e gli stessi dirottatori sono stati addestrati dai militari americani.

    4. Gli Stati Uniti hanno finanziato i servizi segreti pakistani, che a loro volta hanno finanziato Mohammed Atta, il presunto dirottatore.

    5. Il crescendo di segnalazioni da parte dei servizi d'intelligence di tutto il mondo, all'inizio di settembre, è stato ignorato, mentre dalle alte sfere venivano impartite direttive che troncavano le indagini su sospetti terroristi legati a bin Laden.

    6. Tre funzionari dell'FBI hanno testimoniato di aver saputo i nomi dei dirottatori e la data dell'attacco settimane prima che questo si verificasse, ma sono stati ridotti al silenzio dai superiori, con la minaccia di procedimenti a loro carico; il legale che ora li rappresenta è il responsabile dell'accusa presso il Congresso degli Stati Uniti per i casi di impeachment.

    7. Le procedure operative standard - le quali prevedono che i caccia dell'Air Force intercettino immediatamente gli aerei che vengono dirottati - l'11 settembre non sono state adottate fino a quando tutto non è finito, un'ora e mezzo dopo che il World Trade Center era stato colpito.

    8. Gli esperti dell'intelligence trovano risibile l'idea che bin Laden possa aver portato a termine attacchi così complessi e precisi senza l'appoggio di un'organizzazione di intelligence gestita a livello di Stato.

    Nello svolgimento del suo saggio Ahmed non viene mai meno a un'esposizione rigorosa dei fatti. Egli prende le mosse dal contesto storico nel quale si è sviluppata la lunghissima crisi afghana per analizzare successivamente i rapporti tra USA e Taliban dal 1994 al 2001. Tratta quindi del progetto strategico che ha ispirato i piani di guerra statunitensi e, di seguito, esamina attentamente quelli che sono apparsi come fallimenti clamorosi dei servizi d'informazione. Passa a descrivere l'inspiegabile tracollo delle procedure di sicurezza l'11 settembre 2001. Approfondisce la questione dei legami tra gli Stati Uniti e bin Laden e quindi analizza i risvolti di potere e le logiche di profitto che sono dietro alla nuova guerra. Nelle dieci pagine delle conclusioni l'autore tira le somme e ne deduce che "In base ai fatti documentati, la loro migliore spiegazione, a parere di chi scrive, è quella che mette in risalto la responsabilità dello Stato americano per quanto è accaduto l'11 settembre 2001... ciò non vuol dire necessariamente che gli Stati Uniti siano stati coinvolti nell'orchestrazione di quei fatti dall'inizio alla fine", in ogni caso "non è intenzione di chi scrive pretendere che le conclusioni qui delineate siano definitive. Al contrario, esse non sono che le deduzioni più logiche ricavabili dai fatti finora venuti alla luce. Resta al lettore decidere se concordare o no su tali valutazioni. in ultima analisi, questo studio non vuole fornire una ricostruzione completa, ma piuttosto dimostrare, documenti alla mano, come sia necessaria un'indagine approfondita sui fatti dell'11 settembre". E dunque la sua proposta è semplice, diremmo ingenua: "... si deve avviare al più presto un'inchiesta pubblica e indipendente. Se ciò non accadrà, la verità su ciò che è successo l'11 settembre rimarrà sepolta per sempre". Non meno interessanti, e istruttive, sono le quattro appendici in coda al libro: due estratti dagli atti della Camera dei Rappresentanti USA relativi a sedute (12 febbraio 1998 e 12 luglio 2000) sugli interessi statunitensi nelle repubbliche dell'Asia Centrale; una nota su Pearl Harbor (l'attacco giapponese non fu impedito proprio per poter fare la guerra) e l'Operazione "Northwoods" (programmata costituzione di pretesti che avrebbero giustificato un attacco a Cuba); alcuni estratti da documenti pubblici sulla medesima Operazione "Northwoods".Ci sembra infine di poter dire che lo spirito a informare quest'ottimo libro trova efficace rappresentazione nella citazione da Patrick Martin, giornalista investigativo, che è in epigrafe alle conclusioni di Ahmed: "Quando si indaga su un delitto, è necessario porsi la domanda cruciale: "A chi giova?". I principali beneficiari della distruzione del World Trade Center sono qui negli Stati Uniti: l'amministrazione Bush, il Pentagono, la CIA e l'FBI, l'industria delle armi, l'industria del petrolio. È ragionevole chiedersi se coloro che hanno ricavato dei benefici di tale portata dalla tragedia abbiano contribuito a farla succedere".

    Carl Carlsson
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

 

 
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