MI PERMETTO DI RIPOSTARE QUI L'EDITORIALE-CULTURA DI VITTORIO MORERO SU "AVVENIRE" PER L'INTERESSE CHE MI PARE RIVESTA. GUELFO NERO, UN TUO COMMENTO S'IMPONE.
Don Biagio Amata, preside della Facoltà di lettere dell'Università pontificia salesiana, ha ragione: «I preti non sanno più il latino. Il latino, a scuola, si studia male ed anche nei seminari mancano docenti adeguati. Ci sono dei sacerdoti che non sanno nemmeno leggere le lapidi che hanno nelle loro chiese». Ha ragione, ma il fenomeno ha origini lontane proprio dall'età in cui il latino veniva studiato e studiato molto e aggiungo studiato malissimo. Io ad esempio ho cominciato a studiare latino in prima media, al liceo traducevo i classici (purtroppo pochi) senza note, ho recitato lezioni di morale, di dogmatica e di Sacra Scrittura in latino, ma in realtà ho cominciato ad amare il latino quando ho fatto l'Università (laica) e ho studiato tutto Orazio, parte di Virgilio e Properzio. Cioè quando il latino non era solo una tecnica linguistica, ma un umanesimo, una poesia, un pensiero. Perciò si deve distinguere: c'è il latino classico, letterario, marcato da una estetica precisa e c'è il latino ecclesiastico che è della tarda latinità e non ci ha mai entusiasmato. Tenete conto che noi studiavamo su testi latini scritti in Belgio, il famoso Tanquerey per la dogmatica, il Génicot per la teologia morale, mentre per la Sacra Scrittura avevamo il Simon Prado, che era autore spagnolo. Certo questo latino, anche se non classico, ci ha insegnato la brevità dell'esposizione, l'amore per la sintesi, il vocabolo scultoreo, l'odio della prolissità, ma non era un latino entusiasmante né di grande valore estetico. E quindi c'è stato un disamore che si è ingrossato, anche perchè non i classici ci interessavano, ma gli autori cristiani che in teologia venivano studiati male con un'ora di lezione la settimana, la cosiddetta ora di patristica, che ripeteva il difetto della scuola italiana, che continua a studiare non la letteratura sui testi, ma la letteratura come commento storico. Quindi ho i miei dubbi che noi preti di antica data fossimo dei latinisti e soprattutto mi sembra che anche noi non siamo riusciti a trovare un nesso filologico fra il latino della traduzione della Scrittura, nonché il greco di alcuni testi sacri, e il latino e il greco che avevamo studiato a scuola. Non credo assolutamente che sia povertà culturale oggi non conoscere il latino ecclesiastico come lingua comune, quanto invece non avere strumenti per leggere i testi biblici e naturalmente le lapidi delle nostre chiese. Pertanto sarebbe bene che le nostre università non trascurassero mai l'approccio alle Scritture e quindi lo studio delle lingue originali della Bibbia che sono, oltre il latino, anche il greco e l'aramaico. Forse non riusciremo mai ad avere preti tutti latinisti, ma almeno preti che sappiano l'abc dell'esegesi biblica, ivi compresa una certa filologia propria. Così sarà buona cosa che nella comunità possa esserci un bravo insegnante di latino, forgiato dalle facoltà di lettere classiche delle nostre università, in grado di tradurre le lapidi e di tener desto questo nostro ricorrere alle fonti. Caricare il prete di questo obbligo quando già gli chiediamo di essere un buon teologo, un buon psicologo, un buon animatore di gruppo, un valido liturgista, è chiedere troppo e chi vuole troppo finisce per avere nulla. Piuttosto nei nostri seminari o facoltà teologiche dovrebbe essere curata meglio la cattedra di filologia biblica e di patristica. Preferisco un prete che conosca bene i libri che un prete latinista che relega nell'estetica linguistica la sua passione di pastore e di evangelista. Si possono ottenere anche le due cose assieme, ma allora non generalizziamo e diamo spazio alle vocazioni di ognuno. Pertanto seminaristi che studiano il latino, senz'altro, ma con esiti certi e non con facili e confuse generalizzazioni. Cognitio congrua linguarum Sacrae Scripturae et Traditionis valde faveatur, ma attenzione: faveatur ut contemplata aliis tradere possis. Evangelizzatori prima che linguisti.