Posto un articolo sulla disobbedienza alla guerra che sarà pubblicato il 15 feb da Liberazione.


Ci siamo. Siamo arrivati nelle piazze dell’opposizione alla guerra e ci siamo arrivati, dopo e attraverso il passaggio moltitudinario e potente di Porto Alegre, in una dimensione che per estensione e qualità si presenta come la prima mobilitazione, globale e preventiva ad una iniziativa di guerra che pretende per sè le stesse caratteristiche.

La giornata di oggi, lanciata al termine di quel che è stato uno straordinario laboratorio, il Forum Sociale Europeo di Firenze, promette di rispettare e di superare largamente le attese che l’hanno preceduta. Per estensione e per qualità dicevamo. Si perché dobbiamo vedere come ancora una volta, il movimento antiglobalizzazione abbia avuto la capacità e la forza di tenere la barra dell’iniziativa e di estendere il suo raggio di attrazione a forze che non sempre (anzi troppo poco) avevano camminato con noi.

Certo non si può non vedere come ancora oggi, alcune di quelle forze mantengano nel nome di non si sa cosa (se non della coalizione che si ostinano a tenere in vita in una sorta di accanimento terapeutico) la via della ambiguità, scendendo in piazza con piattaforme incapaci di articolare chiaramente l’opposizione alla guerra che si prepara.
E non si può, soprattutto, non vedere come quelle stesse forze si presentano in piazza con la responsabilità di una inadempienza, la più grave per la democrazia di cui si ergono a rappresentanti, e ancora con l’incapacità di chiedere con forza ed unica voce il solo atto di chiarezza che gli compete nell’agone parlamentare: il voto prima e non dopo il rapporto finale degli ispettori al Consiglio di Sicurezza ONU. Eppure, nonostante tutto, oggi registriamo una prima vittoria.

Domani è un altro giorno. Forse sarà il giorno nel quale la democrazia, quella reale, quella della partecipazione e non della pura rappresentazione formale, mostrerà un sussulto d’orgoglio, dimostrerà di non essere condannata all’impermeabilità, di non essere confinata in quella torre d’avorio nella quale per non essere turbata chiude le finestre virtuali dell’informazione pubblica e con esse un po’ della sua doverosa ricerca di un rapporto col mondo che le sta intorno.
Forse all’indomani di quella che sarà stata, probabilmente, la più grande mobilitazione della storia dell’umanità, si registrerà la drammatica crisi di consenso in cui l’hanno gettata le politiche della globalizzazione neoliberista e la guerra globale permanente che le accompagna come un’ombra che non scompare mai. E’ lecito e anche necessario pensarla così, oggi. E’ però necessario discutere, ragionare, su un’altra possibilità. Quella che ci viene dalla ragione delle cose e delle forze che, incuranti di tutto quello che si muove intorno, continuano a suonare gli squilli di guerra.
C’è un rischio che non può essere sottovalutato da un movimento che sa di esprimere le tensioni della maggioranza e che vuole e deve trovare il modo di vincere la partita della pace, di fermare la guerra. Il rischio che nel processo di costruzione imperiale, sia previsto, concesso uno spazio all’opinione, alla manifestazione dello sdegno e del dissenso.

Sia previsto questo spazio come simulacro di una dialettica e di un confronto democratico, come parte ineliminabile di un meccanismo complesso che, al nostro tempo, definisce il controllo e il comando sul mondo.

Allora, di fronte a questa possibilità noi non possiamo fare a meno di porci una domanda: come si fa a fermare o almeno ad opporsi col massimo grado di efficacia a questa nuova barbarie che si prepara? E ancora, come si fa a restituire senso alla parola “democrazia”?
Questa domanda e questo ragionamento li abbiamo posti fino ad ora nelle discussioni che andiamo facendo nel movimento delle e dei disobbedienti. Questa domanda ripropongono i disobbedienti del nord ovest (in una lettera che sarà pubblicata domani, ndr)
Questa domanda e questo ragionamento che non possono darsi se non nella forma collettiva della ricerca devono porsi da domani per tutte e per tutti.

Essere radicalmente e concretamente contro l’attacco all’Iraq e, più in generale, contro la dimensione permanente nella quale la guerra si propone non più come semplice “prosecuzione con altri mezzi della politica”, ma come unico orizzonte delle relazioni sociali, tanto a livello internazionale e diplomatico quanto nelle costituzioni materiali interne ai singoli stati, vuol dire essere capaci, senza farvisi trascinare, di irridere e decostruire, con la concretezza dei corpi, questa folle logica di morte. “Mai farsi trovare dove vogliono trovarti” scrivono i compagni e le compagne del nord ovest. Oggi vogliono trovarci in guerra, vogliono costringere l’alternativa in quello spazio angusto e artificiale costituito dalla coppia Bush-Bin Laden, guerra o terrorismo, comunque sempre morte e distruzione sempre più civile, sempre meno militare.

Questo problema riguarda tutte e tutti. Non può essere delegato nel movimento ai disobbedienti come non può esserlo nel nostro partito ai giovani, come fosse una specificità determinata da una condizione esistenziale, da una naturale tendenza alla radicalità. Per questo dobbiamo fare con la disobbedienza e con le disobbedienze lo stesso ragionamento che abbiamo cercato di articolare con la proposta della generalizzazione dello sciopero. Si tratta di assumere la disobbedienza come una dimensione strategica e non tattica nella costruzione del conflitto e del consenso. Si tratta di praticare la disobbedienza senza costituirsi come professionisti della sua organizzazione. In questi giorni il “regalo” di un governo impaurito e arrogante ci offre uno specchio di questo ragionamento.

Il divieto di esporre le bandiere fa di quell’atto, spesso individuale, una forma di disobbedienza, una tra le tante possibili, una forma di sottrazione al carattere autoritario del potere, riproducibile e contagiosa. Con la stessa idea che sta dietro al rifiuto di obbedire a quell’ordine dovremo costruire e moltiplicare le azioni dei prossimi giorni. Discutiamo tutte e tutti assieme degli strumenti e delle forme con le quali, nelle ventiquattro ore successive all’eventuale inizio delle operazioni militari, paralizzare nel paese gli interessi della guerra.

Prepariamoci a bloccare autostrade, porti, aeroporti e stazioni, facciamolo seduti a mani alzate, nudi per rendere nudo il potere, con scudi e caschi o con quant’altro si decida di farlo, ognuno a seconda della propria propensione ma ognuno nel riconoscimento e nella valorizzazione dello sforzo altrui. Rilanciamo la proposta dello sciopero generale europeo come strumento essenziale di opposizione alla guerra e costruiamo una vera e propria mappa ragionata dei fortilizi dove essa prende corpo. Dei suoi saperi, custoditi e brevettati nei dipartimenti universitari convenzionati con le industrie di morte, delle sue ricchezze custodite nelle banche che si arricchiscono col commercio d’armi, delle sue società di servizio, delle sue industrie, della sua culture che tanto spazio trovano nei nostri telegiornali.

Le azioni di giovedì scorso all’aeroporto di Ciampino, al mercato ortofrutticolo di Padova e in una società di navigazione di Napoli, e ancora la chiusura delle banche armate, il blocco dei convogli militari, l’assedio alle sedi diplomatiche, tutti luoghi differentemente ma comunemente coinvolti nella guerra che si prepara e in quelle che già devastano il mondo, rappresentano un primo pezzo della strada della “ricerca”, ed insieme indicano una possibilità. Ora si tratta di rendere quella possibilità una realtà praticabile e praticata non da decine o centinaia ma da migliaia e decine di migliaia di persone. Fermare questa guerra è possibile. Troviamo insieme la via.

Nicola Fratoianni
Coordinatore nazionale GC