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    Predefinito Pier Paolo Poggio, Il difficile rapporto tra intellettuali e popolo nel lungo Novece

    Pier Paolo Poggio, Il difficile rapporto tra
    intellettuali e popolo nel lungo Novecento


    1. Lenin nel 1894 scrive e pubblica il suo primo libro importante: Che cosa sono gli “amici del popolo” e come lottano contro i socialdemocratici? La storia, una delle storie cruciali del populismo e dei suoi critici, inizia di lì. Prima c’erano stati il populismo rivoluzionario e il populismo “legale”. In entrambi i casi con rapporti singolarmente intensi con Marx. Il populismo russo fu un movimento molto vasto, di carattere eminentemente intellettuale, con il coinvolgimento di uomini e donne di ogni condizione. Uno dei crogioli più importanti dell’anarchismo, radicalismo, socialismo e marxismo europei. Non a caso il concetto di intellettuale nell’accezione moderna, vale a dire di studioso impegnato politicamente, si afferma in primo luogo in Russia con il termine intelligencija, reso popolare in Europa da Turgenev.
    Lenin, il cui fratello, populista rivoluzionario, era stato impiccato per ordine dello zar, pensa che il populismo, da lui ricondotto ad una forma di socialismo umanitario o utopistico, debba essere sconfitto, spazzato via, per consentire l’affermazione del marxismo scientifico e del partito rivoluzionario. Il bolscevismo nasce e si afferma nella lotta senza esclusione di colpi contro il populismo.
    Nel populismo russo ci sono molte posizioni mentre nel bolscevismo c’è solo il leninismo, ma i punti di rottura principali sono i seguenti: i populisti pensano che non esista una legge ferrea della storia e che sia possibile, in determinate situazioni, saltare la tappa capitalistico-industriale; essi sostengono che la cultura contadina, ma anche artigiana, non sia solo arretratezza e “asiatismo” (l’azjatčina contro cui si scatena Lenin); pensano che il mondo contadino non debba essere distrutto dal capitalismo (o dal socialismo) ma rigenerato, facendo leva sulle istituzioni e tradizioni comunitarie e sul progresso intellettuale dell’Occidente. In breve gli intellettuali dovevano incontrarsi con i lavoratori (non solo dei campi) perché gli uni e gli altri potevano reciprocamente arricchirsi e completarsi. Per Lenin (e ancor più per Trockij) tutto ciò è romantico e reazionario.
    Secondo Lenin c’è una netta separazione tra gli intellettuali e il popolo. Non solo quest’ultimo ma la stessa classe operaia, vale a dire la sua frazione più avanzata e moderna, sono del tutto incapaci di giungere autonomamente ad una presa di coscienza sociale e politica. La teoria, formulata dagli intellettuali rivoluzionari, viene portata alla classe dal partito, che è il detentore monopolistico della coscienza di classe e del sapere politico. Anzi, il partito rivoluzionario possiede ogni sapere, il suo insegnamento fa testo, sia nelle scienze dell’uomo che della natura. Solo nel partito è possibile la ricomposizione tra intellettuali e popolo, lavoro intellettuale e lavoro manuale, che il populismo russo, al contrario, pensava di poter realizzare nella società, attraverso la sua rigenerazione.
    Gli sviluppi successivi furono tutt’altro che lineari, come invece pensano gli apologeti e i detrattori del leninismo, ma la conclusione è inequivocabile: con la vittoria del bolscevismo vengono colpiti e eliminati, in un’apocalisse che lascia del tutto indifferente l’Occidente, gli intellettuali e militanti eredi del populismo (socialisti-rivoluzionari, anarchici, comunisti di sinistra) e i socialdemocratici non bolscevichi, per limitarsi all’ala sinistra dell’intelligencija. Ma, ancor più, in ondate successive, culminate nelle carestie, nella collettivizzazione forzata e poi nella guerra scatenata dal nazismo, nonostante il patto con Hitler, viene fatta ecatombe della base sociale del populismo. La caratteristica più impressionante del bolscevismo russo è stata precisamente la guerra senza quartiere condotta contro il suo stesso popolo (N. Werth). Il partito al potere colpisce di volta in volta sia gli intellettuali che il popolo, sia gli operai che i contadini, e infine gli stessi bolscevichi, tutti quanti etichettati come “nemici del popolo”. Prima dello scatenarsi di questo gioco al massacro, la rivoluzione entusiasma schiere di intellettuali.
    L’incontro tra bolscevismo e avanguardia artistica produce un corto circuito esaltante e inquietante, poi tutto verrà spazzato via dal nazionalbolscevismo di Stalin.
    Malevič, nel 1920, proclama: «Il collettivismo è uno dei sentieri segnati sulla carta stradale che conduce all’uomo-mondo ma, forse, ancora non è altro che uno degli incroci necessari della strada principale, che racchiude in sé i milioni di ego […]. Se vogliamo raggiungere la perfezione, l’io deve essere annientato. Come i fanatici religiosi annientano se stessi di fronte alla divinità, così il santo moderno deve annientare se stesso di fronte al “collettivo”, di fronte a quell’immagine che si perfeziona in nome dell’unità, in nome della comunità». E un suo giovane allievo precisa: «Nella preparazione della società tecno-elettrica non vi è posto per l’artista con la sua spazzatura estetica […]. A questo lavoro dobbiamo prendere parte su un piano di parità con l’ingegnere, con l’agronomo e con gli operai in ogni campo specialistico» (cit. in Clark 2005, p. 216 e p. 218).
    Nei momenti di fuoco della rivoluzione e della guerra civile, quando sembrava possibile che l’incendio potesse estendersi al resto dell’Europa, riaffiorano le posizioni populiste rivoluzionarie anche in campo marxista. Il Lukács estremista del ’19-’20 proclama la fine degli intellettuali come ceto separato; essi debbono fondersi con il proletariato perché «solo mediante la coscienza di classe dei proletari è possibile pervenire alla conoscenza e alla comprensione del cammino dell’umanità». «Gli intellettuali possono diventare rivoluzionari solo come individui; devono uscire dalla propria classe per poter partecipare alla lotta di classe del proletariato» (Lukács 1972, p. 25 e p. 93).
    Con la rivoluzione viene proclamata la fine dell’arte, attraverso parole d’ordine che riemergeranno in successivi cicli rivoluzionari, in particolare col maoismo.
    Negando ogni distinzione tra arte e industria, lavoro intellettuale e lavoro manuale, il bolscevismo si ricollegava al filone nichilista del populismo rivoluzionario, impersonato da Pisarev, che già negli anni ’60 dell’Ottocento aveva proclamato la distruzione dell’estetica, e da Nečaev, secondo cui l’arte, la morale e ogni sentimento o pensiero dovevano sottostare agli imperativi della rivoluzione. Tesi fatta propria dal bolscevismo, attraverso una lettura selettiva di Černysevskij, in aperta polemica con i principali teorici del populismo russo da Herzen a Lavrov a Michajlovskij, convinti difensori della libertà intellettuale e dell’indipendenza degli intellettuali, in nome dell’incontro tra intellettuali e popolo, della sintesi tra i valori più alti dell’Europa e della Russia, cioè il libero sviluppo dell’individuo e la giustizia nella fratellanza.
    Nel corso della guerra civile, molto prima dello stalinismo, la rottura tra il potere sovietico e tutti gli intellettuali che non avessero aderito apertamente al bolscevismo o che fossero di qualche utilità per il partito, si fece sempre più profonda. Lenin lo esprime in modo inequivocabile e brutale: «Le forze intellettuali degli operai e dei contadini crescono e si rafforzano nella lotta per l’abbattimento della borghesia e dei suoi complici, degli intellettuali, dei lacchè del capitale, che si credono il cervello della nazione. In realtà non sono il cervello, ma la merda» (Lenin 1965, p. 48).
    Con la stabilizzazione del regime e la vittoria di Stalin, la persecuzione degli intellettuali assume nuove forme e sviluppi: non vengono colpiti solo gli intellettuali di opposizione o apolitici, ma sempre più artisti, poeti, studiosi che si erano schierati con il bolscevismo: si salvano solo, e non sempre, i lacchè del partito e del suo capo. Questi si preoccupa che l’arte piaccia al popolo. L’arte sovietica di regime deve incarnare il precetto dell’incontro, senza mediazioni e diaframmi intellettuali, tra la produzione artistica e la fruizione popolare, il tutto sotto la regia del partito. Si riuscì così a dar vita a quella che Cornelius Castoriadis chiamava la “bruttezza positiva”, qualcosa di storicamente inedito e che trova nella Russia burocratico-comunista la sua terra d’elezione.

    2. Nelle culture politiche di destra l’anti-intellettualismo è l’asse portante, l’architrave di ogni argomentazione: da Burke a De Maistre, da Taine a Spengler. Formatisi nelle grandi città moderne, gli intellettuali sono «uomini che non sanno di un destino ma solo di cause e di effetti, uomini che hanno perduto ogni contatto interiore col sangue e con l’essere e sono completamente puro essere desto pensante […]. Essi non appartengono più alla nazione […]». Gli intellettuali sono l’incarnazione del cosmopolitismo, che è espressione «dell’odio contro il destino, soprattutto contro la storia come espressione del destino» (Spengler 1981, p. 923).
    Spengler è uno dei tanti intellettuali precursori o fiancheggiatori del nazismo: la loro sorte comune fu quella di essere accantonati, a conferma della natura popolare e plebea del movimento hitleriano. Ma l’ostilità nei confronti degli intellettuali, ovvero il loro asservimento, sono costitutivi del totalitarismo: «L’iniziativa intellettuale e artistica è per il totalitarismo altrettanto pericolosa del gangsterismo della plebe, ed entrambi sono più pericolosi dell’opposizione meramente politica. La conseguente persecuzione di ogni forma superiore dell’attività intellettuale da parte dei moderni capi delle masse ha ragioni più profonde della naturale avversione per ciò che essi non capiscono. Il dominio totale non consente libertà d’iniziativa in nessun settore della vita, non può ammettere una attività che non sia interamente prevedibile. Ecco perché i regimi totalitari sostituiscono invariabilmente le persone di talento, a prescindere dalle loro simpatie, con eccentrici e imbecilli la cui mancanza d’intelligenza e di creatività offre dopotutto la migliore garanzia di sicurezza» (Arendt 1989, p. 470). Il caso più interessante, secondo Hannah Arendt, fu quello di Carl Schmitt, il quale, a differenza del più appartato Heidegger, si sforzò in ogni modo di accontentare i nazisti. Ma non gli riuscì; i nazisti lo misero da parte e lo sostituirono con intelligenze di secondo e terzo ordine.
    Il fascismo italiano, ancor più del nazismo, in tutte le fasi della sua storia ha goduto di un ampio e convinto appoggio da parte degli intellettuali, basti pensare al caso di Giovanni Gentile, unico nel suo genere. Il terreno d’incontro è stato sicuramente la guerra ma ancor più l’idea che solo il fascismo fosse in grado di svecchiare l’Italia.
    L’intenso rapporto tra intellettuali e fascismo avviene sotto il segno della modernizzazione e del potere: non più le polverose accademie ottocentesche ma il controllo diretto dei mezzi di comunicazione, la possibilità di plasmare l’opinione pubblica, di saldare l’economia e la politica, proiettando l’Italia nel mondo. Aspettative di potenza frustrate o finite male ma tali da calamitare gran parte degli intellettuali italiani. Essi “tradiscono” in massa, per convinzione o per opportunismo, e si fanno propagandisti del fascismo, in posizioni, peraltro, di umiliante subordinazione, non solo rispetto al Duce, ma anche di fronte a gerarchi quali De Vecchi, Farinacci, Starace.
    La crisi e il crollo del fascismo aprono delle possibilità di cambiamento radicale che gli intellettuali non sapranno riconoscere. Seguendo Giacomo Noventa, «si può dire veramente che la Resistenza abbia rappresentato in Italia una novità assoluta, l’inizio o quantomeno il presagio di un rinnovamento profondo del pensiero e dei costumi politici del Paese»; per la prima volta nella storia unitaria il popolo è protagonista in prima persona.
    Ma il moto popolare doveva incontrarsi con l’autocritica degli intellettuali, i quali avrebbero dovuto riconoscere che il fascismo era l’espressione della cultura e del pensiero italiano, che per criticare il fascismo fosse necessario criticare il pensiero italiano, criticare se stessi. Nulla di tutto ciò avvenne, così il «divorzio tra l’esigenza popolare di una nuova politica e la politica dei politicanti è oggi più assoluto di ieri» (1949).
    Gli intellettuali, dice ancora Noventa, si sono limitati a posare il cappello presso una cattedra universitaria o la direzione di un partito (o la direzione di un giornale) e le teste hanno seguito i cappelli. In tal modo essi perdono il rapporto con la realtà, si sentono superiori alle persone comuni, disprezzano il popolo. Secondo Noventa «in questo complesso di superiorità verso il popolo è l’origine dei nostri errori e dei nostri rischi». Gli intellettuali di sinistra «adoperano col popolo un linguaggio facile, piatto e volgare […]. Si rifiutano di dire che cosa sia il socialismo perché questo è un problema di dottrina, di filosofia e di religione che il volgo non intende»1.
    In realtà gli intellettuali non credono nella democrazia, essi continuano a pensare che la società sia divisa «in due popoli opposti» e che l’unica possibilità sia quella di una «tirannia del popolo che in qualche modo pensa sul popolo che non pensa in nessun modo» (cfr. De Meis 1927). Come viene detto in uno degli incunaboli dell’élitismo italiano, ma come, su ben altra scala, risulta dalle rivoluzioni del Novecento, i cui esiti fallimentari sono inscritti nella crescente separazione tra i capi e le masse.
    Tale situazione bloccata offre un grande spazio d’azione per il populismo demagogico e reazionario, allevato in seno ai regimi totalitari del primo Novecento e riprodottosi sotterraneamente nelle democrazie di massa post-belliche. In un contesto democratico esso può espandersi liberamente, piuttosto che essere usato strumentalmente da poteri dittatoriali o totalitari, in funzione antintellettuale.
    Secondo molti osservatori liberali, lo stesso ’68 non fu altro che un’insorgenza populista e la causa della crisi in cui ancora si dibatte il nostro Paese. Senza poter qui discutere tale tesi, mi pare che si possa accantonarla per il carattere internazionale, se non mondiale, del movimento e per essere l’espressione, in prima istanza, non di ceti popolari ma di un’intellettualità diffusa, più o meno critica ed eretica.

    3. È stata piuttosto la Lega Lombarda, poi Lega Nord, protagonista di un ’68 capovolto per valori e dimensioni, il soggetto politico che dagli anni ’80 ha incarnato per primo la ribellione, le paure, i desideri di una parte significativa della società italiana, dei ceti popolari delle regioni settentrionali, dando vita e forma politica ad un populismo etnocentrico rispetto a quello rivoluzionario e internazionalista della Russia dell’Ottocento.
    Singolarmente, la geografia dell’espansione leghista coincide in buona misura con quello che era stato il territorio della Repubblica di Salò, fermandosi alla “linea gotica”. Anche i suoi temi identitari, in primo luogo l’esplicito razzismo, tanto plateale quanto negato, sia dai leghisti che dai loro alleati e avversari, indurrebbero a collocarla decisamente tra le formazioni di estrema destra. Il fatto che ciò non sia avvenuto è la conferma che le vecchie distinzioni ideologiche non riescono più ad essere politicamente operative. La Lega è il primo partito che agli occhi della quasi totalità dei politici, della maggior parte degli intellettuali, oltre che di chi la vota, non è di per sé collocabile in uno dei tradizionali schieramenti ideologici (sinistra-destra-centro).
    Emerge qui qualcosa di sconcertante: chi conosce la Lega sa benissimo che è una formazione carica di ideologia e di militanza, ridimensionatasi proprio perchè non è stata in grado di mantenere le promesse fatte ai suoi sostenitori. È vero invece che l’ideologia della Lega, a differenza di tutti gli altri partiti storici, non è stata forgiata da qualche élite o circolo intellettuale. Lo stesso Gianfranco Miglio, prima di essere messo da parte, non è stato che un utile “compagno di strada”.
    Sin dalle origini, e poi costantemente, la Lega ha considerato con disprezzo gli intellettuali, nell’accezione più ampia, dagli insegnanti sino ai cosiddetti “grandi intellettuali”, anche quando dalle pagine dei quotidiani nazionali dimostravano di apprezzarne la vitalità, novità e spregiudicatezza, per non dire delle doti politiche sopraffine attribuite a Bossi e così via. Il passaggio dalle lusinghe alle critiche e agli insulti (anche in questo i leghisti sono stati degli antesignani) non ha migliorato la percezione del fenomeno leghista, il che costituisce un problema di qualche rilievo visto che, a detta di tutti, la Lega prima di Berlusconi, e in modo forse più genuino, ha inaugurato da noi un’ondata populista che sembra non volersi esaurire.
    Ancora recentemente, commentando l’ennesima insorgenza populista di questi mesi, Pietro Ignazi afferma che essa è espressione di una «neoclasse acquisitiva che alligna nelle periferie dilatate e indifferenziate a nord del Po, [che] porta nell’arena politica atteggiamenti e stili innervati da una aggressività e una assertività propria di chi ha la convinzione di essere nel senso della storia» (Ignazi 2007). Le stesse considerazioni potevano essere formulate nel 1997 o anche nel 1987, se non prima. A conferma che la politica, e la politologia, si muovono ormai in un tempo senza storia.
    Al contrario, se non si colgono i tempi e le forme genealogiche della nascita e affermazione della Lega, si rischia di non capire cosa sia l’attuale populismo neoetnico con il suo acceso e genuino antintellettualismo.
    A tal fine non è decisiva, seppure non inutile, l’analisi dell’ideologia e dell’azione politica della Lega, entrambe caratterizzate da un forte sincretismo e dal più spregiudicato occasionalismo. È sicuramente importante coglierne il nucleo di valori fondanti, ma per far ciò è necessario calarsi nella sua base sociale, analizzare i cambiamenti che hanno coinvolto la società e l’economia dei territori leghisti. È in questi territori che ciò che viveva sotterraneo nelle subculture locali e che aveva attirato l’attenzione di uno scrittore oggi del tutto dimenticato come Lucio Mastronardi, si autonomizza e prende slancio, il “super-ego” ideologico viene accantonato, cadono le vecchie bardature e il popolo trova nella Lega Nord lo strumento con cui esprimersi se non il luogo dove aggregarsi.
    Sono territori in cui è avvenuta una “rivoluzione silenziosa”, anche se molto diversa da quella a cui si riferiva Ronald Inglehart, dato che è tutta centrata sull’estrema intensificazione della produzione e consumo di beni materiali. Territori in cui crolla il modello politico, economico e sociale della grande fabbrica e dell’antagonismo operaio, mentre risultano vincenti la fabbrica diffusa, i distretti industriali, i sistemi territoriali di imprese; un modello di integrazione sociale e produttiva che tende a soffocare ed espellere il conflitto dal proprio interno, per proiettarlo all’esterno, dove si collocano gli avversari, i competitori, i diversi, i nemici.
    Territori in espansione continua, che incarnano la formula economica vincente, in cui lo sviluppo caotico della media e piccola industria, la crescita del terziario e della grande distribuzione commerciale sono avvenuti al di fuori di ogni programmazione e gestione razionale dello spazio e delle risorse ambientali.
    La Lega si considera l’emanazione del cosiddetto popolo padano, ed è percepita come se fosse l’espressione diretta, la trascrizione politica, di una ben determinata composizione sociale: il popolo interclassista dei produttori, forgiatosi nel crogiolo delle aree ad alta densità produttiva del Nord, che hanno preso il posto del ristretto triangolo industriale quali principali vettori dello sviluppo economico nazionale.
    La Lega nasce e cresce impetuosamente dove si è insediato, dopo una brusca e rapida rottura rispetto al retroterra storico contadino, il capitalismo manifatturiero come modalità di lavoro e di vita e, sempre più, il consumismo come unico orizzonte di senso. Il leghismo è l’ideologia trasversale egemonica in luoghi dove il ciclo continuo lavoro-consumo è sempre più compresso sino a raggiungere una circolarità ininterrotta.
    Il populismo leghista è l’espressione della democratizzazione molecolare degli “animal spirits” del capitalismo o, se si vuole, del compimento della mutazione antropologica pasoliniana. Il popolo leghista liberatosi, come di una pelle secca, delle appartenenze universalistiche (cattoliche o social-comuniste), concepisce il proprio territorio, il luogo della sua identità, come un’azienda quotata in politica e quale ganglio vitale dell’economia di mercato, intesa come l’arena di una lotta senza quartiere e senza regole. Di qui la necessità di liberarsi da “Roma”, da “Bruxelles” e da tutti quei poteri che non sono emanazione diretta del popolo e che vogliono imbrigliarlo con lacci e lacciuoli. Di qui, ancor prima e più concretamente, la lotta contro i nemici del popolo leghista: gli intellettuali, i dipendenti pubblici, i meridionali, i marginali, gli extra-comunitari, i rom, gli islamici, i cinesi: tutti coloro che hanno costumi di vita e credenze diverse; tutti coloro che non sono identici a noi.
    In ragione della sua povertà intellettuale il leghismo ha conseguito risultati politici modesti ma, paradossalmente, una forma di egemonia culturale. Le altre forze politiche, di tutti gli schieramenti, ben al di là di Forza Italia, hanno contenuto il populismo leghista adottandone le principali istanze e ancora adesso, dopo un paio di decenni, sono impegnate a tradurle in pratica.
    È da notare che per molto tempo, sino a quando la Lega non è diventata decisiva per la composizione dei governi nazionali, e su aspetti fondamentali anche dopo, non c’è stata attenzione né comprensione per quel che stava accadendo nelle aree economiche più avanzate del Paese. Un fallimento della politica e delle scienze sociali, vale a dire un fallimento degli intellettuali, per cui si è passati dalla totale sottovalutazione all’eccesso opposto, all’idea che veramente la Lega – o almeno il leghismo – fosse quel che pretendeva di essere: l’espressione organica, genuina, naturale, di quei territori e “popoli”, da cui la necessità di sconfiggerla facendone propria l’agenda politica.
    Partendo da un caso particolare, ma rilevante, perché è la manifestazione locale-nazionale di processi che hanno interessato un po’ tutte le società industrializzate, Stati Uniti compresi, constatiamo empiricamente che stiamo perdendo la capacità di analizzare le trasformazioni della società, anche quando sono molto rilevanti e accadono sotto i nostri occhi. Quando capiamo è troppo tardi. Nel tempo dell’informazione e comunicazione universale cresce il non-sapere, non solo in campo tecnico-scientifico ma anche storico-sociale. Ciò rappresenta una grande minaccia e però offre anche delle opportunità per una ripresa del lavoro intellettuale e del pensiero critico.

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    4. Nel Novecento europeo, che finisce di colpo e del tutto inaspettatamente con il 1989, gli intellettuali si sono schierati ideologicamente. A quell’epoca «si è potuto credere che il miglior mezzo per difendere dei valori consistesse nel vestire un’uniforme ideologica o prendere la tessera di un partito. Il prezzo di questa scelta troppo spesso è stata la dismissione degli intellettuali di fronte alla loro funzione critica. Ciò non ha più ragion d’essere oggi» (Traverso 2006, p. 116).
    Come non essere d’accordo? Ma emerge subito un duplice problema. Per un verso continua la militanza ideologica degli intellettuali. È noto che, dopo il 1989, legioni di intellettuali comunisti sono diventati militanti anticomunisti. Ferventi difensori dell’Occidente come lo erano un tempo dell’URSS, dismettendo ogni abito critico di fronte al presente, essi si dedicano alla denuncia retrospettiva del loro stesso passato.
    D’altra parte gli intellettuali critici hanno perso prestigio e consistenza, non riuscendo a rendere incisiva la libertà e l’indipendenza di cui godono. Non hanno più un popolo a cui rivolgersi o su cui riflettere, non hanno neppure un pubblico che legga quello che scrivono. Non hanno prestigio e autorevolezza, non ci sono più “maestri di pensiero”.
    Gli intellettuali, adesso che potrebbero essere liberi non vogliono esserlo, tutt’al più si proclamano liberali. E se anche si impegnano nell’analisi sociale della realtà non riescono a suscitare interesse: da molto tempo, almeno in Italia, non si sviluppa un dibattito pubblico su temi sollevati dagli intellettuali, su argomenti aventi dignità culturale. La dismissione sembra essere generalizzata.
    L’ultimo momento in cui gli intellettuali in quanto tali hanno svolto un’azione politica efficace concerne proprio il crollo dell’URSS e del suo impero. Il “dissenso”, fenomeno prettamente intellettuale, ha minato in profondità il sistema sovietico, accelerandone la fine. A differenza di quanto accaduto in Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, gli intellettuali del dissenso in Unione Sovietica non hanno avuto un seguito popolare né essi si rivolgevano al popolo. Non avevano un programma politico se non il rispetto della dignità umana. Il regime aveva creato un abisso tra coloro che dissentivano e il resto della popolazione. I dissidenti, e tutti gli oppositori veri o inventati, vengono perseguitati in nome del popolo: «Chi decide cosa sia la verità e cosa la menzogna? Dicono: il popolo! Ma tutti i delitti che sono stati compianti nel nostro Paese, tutte le ingiustizie (…), tutto questo si fa in nome del popolo»2.
    Gli intellettuali del dissenso non erano di sinistra e in ogni caso hanno decostruito, demolito, ciò che i marxisti-leninisti avevano edificato, di qui una persistente acrimonia da parte di tutti coloro che imputano la disgrazia del tempo presente, tra cui la perdita di ruolo degli intellettuali, al crollo del comunismo.
    Si dice: «L’esperimento sovietico è sprofondato nel fossato esistente tra utopia e realtà. Con l’aiuto degli intellettuali, che se ne sono lamentati e null’altro hanno saputo fare». Con il che gli intellettuali del dissenso, e le ragioni dello sprofondamento, vengono fatti sparire, mentre è senz’altro vero che «dopo il 1989 politici e intellettuali europei che vi avevano fatto riferimento, hanno calato una saracinesca sull’intero passato e senza pudori si sono girati dall’altra parte» (De Leo 2007).
    Il tradimento degli intellettuali ha assunto una nuova forma: da tempo si è passati dalla militanza alla committenza. La grande maggioranza degli intellettuali è impegnata nel sostegno all’esistente, rispetto a cui pensano che non ci siano alternative, se non peggiori di esso. Questa è la vera destituzione degli intellettuali, frutto della loro scelta politica di operare a sostegno della generalizzazione dell’economia di mercato ad ogni ambito della società e della vita: capitalismo universale ed egoismo individuale, una formula sicuramente perdente rispetto alle risorse comunitarie e identitarie che può mettere in campo il neopopulismo differenzialista, quando non apertamente razzista.
    Su questo sfondo non è tanto importante il ruolo degli intellettuali in quanto suggeritori di politiche nefaste (neocon americani e simili), rispetto a cui svolgono un ruolo prevalentemente decorativo e pubblicitario. La critica deve indirizzarsi in primo luogo al ruolo degli intellettuali nell’industria culturale, che opera alla banalizzazione e tecnologizzazione della comunicazione.
    Gli intellettuali del consenso si affermano con «l’apparizione di figure professionali il cui unico scopo è quello di produrre il significato del mondo come altri producono merce a ciclo continuo, servizi personalizzati, plusvalore». Gli addetti alla comunicazione di massa curano «l’offerta concorrenziale di immagini e visioni che si presentano come unica spiegazione dell’avventura che viviamo. Che siano state ampiamente recepite, questo lo si può verificare con il rapido cambiamento dei modi di agire, sentire e pensare» (Bergonuioux 2006)12.
    L’industria culturale è oggi il motore del capitalismo occidentale-planetario, con una finalizzazione immediata al consumo. Al suo servizio vengono messi, non solo la facoltà di parola, ma anche il tempo passivo della coscienza (E. Husserl), con lo sfruttamento delle emozioni, dei desideri, dell’affettività (cfr. Perticari 2007).
    In tal modo le potenzialità emancipative della tecnologia sono banalizzate e anziché un ampliamento delle nostre facoltà naturali, della capacità di conoscere e agire, abbiamo la neutralizzazione degli individui e la coercizione delle coscienze.
    Lo slittamento populistico della democrazia, che era già nelle previsioni di Tocqueville, si coniuga con la mediatizzazione della politica. Tutto passa attraverso i media che creano una sfera pubblica virtuale, fittizia, dominata dalla pubblicità e dalla menzogna. I grandi media, e in primo luogo la televisione, sono intrinsecamente antidemocratici, perché appartengono a pochi centri di potere e perché formano un’opinione pubblica passiva, abituata al consumo di merci materiali e immateriali di cui, in generale, non sa nulla, e di cui interessa solo il grado di fruibilità.
    Questo processo avvolge e unifica il globo ma non ha effetti universalistici, semmai il contrario. E questo contrario è precisamente il populismo nell’accezione corrente, in sostanza una forma di nazionalismo o di subnazionalismo etnico, dopo la nazionalizzazione delle masse e l’individualismo neoliberista. Il populismo odierno è il nazionalismo nell’era della globalizzazione, quando «per la prima volta nella storia tutte le persone, tutti i gruppi etnici e religiosi, tutte le popolazioni hanno un presente comune: ogni popolo è diventato l’immediato vicino di qualsiasi altro» (U. Beck). Ma questa unificazione, avvenuta dall’alto, senza alcun coinvolgimento democratico, praticamente all’insaputa dei singoli e delle popolazioni, determina paure, chiusure, arroccamenti. Come dice ancora Ulrich Beck: «Nella inevitabile vicinanza intrecciata universale i gruppi si percepiscono all’improvviso come estranei, incomprensibili e minacciosi» (cfr. «La Repubblica», 1 gennaio 2006).
    L’intensificarsi dell’informazione e della comunicazione hanno come effetto paradossale di radicalizzare e irrigidire la non conoscenza dell’altro, racchiuso in stereotipi di pronto consumo e ad alta emotività. In tal modo la non conoscenza alimenta la paura e scatena l’aggressività. In questo stato di tensione e angoscia si inseriscono i media della comunicazione che espongono chiunque al contatto del mondo e delle pluralità delle culture, accrescendo il senso di insicurezza e il sentimento dell’insostenibile incomprensibilità delle troppe diversità che ci circondano. Incapaci di affrontare le sfide del presente, le culture politiche si accodano e contribuiscono allo slittamento della democrazia verso il populismo e il razzismo, sino a mettere fuori gioco i diritti fondamentali delle persone. L’integralismo e fondamentalismo religioso si inseriscono in questo processo, scimmiottando le esperienze totalitarie europee del Novecento.
    L’insicurezza, derivante dalla crescente indeterminatezza su ciò che ci riserva il futuro (per non dire dell’insostenibilità del pensiero della morte), è il tarlo che ha minato la iperideologia del progresso3.
    Infatti, contrariamente a quel che si può pensare, non sono state, di per sé, le guerre mondiali a colpire mortalmente la speranza nel progresso. Dopo il 1945, la spinta per una ripresa in grande stile dello sviluppo storico, in tutte le sue componenti, era molto diffusa e capace di mettere in campo grandi energie e realizzazioni. La crisi è derivata dal successo dello sviluppo, proprio per tale motivo è così difficile da padroneggiare.
    È un fatto che oggi «la fiducia nel progresso complessivo dell’umanità appare come una fede tramontata,un’illusione d’altri tempi. Ne risulta un senso di precarietà che induce a considerare le continue e immense conquiste della scienza e della tecnica e lo sviluppo socio-economico alla stregua di porte oltre le quali si apre un cammino quanto mai insicuro» (Salvadori 2006).
    Già nel 1973, Aleksandr Solženicyn, massimo esponente del dissenso russo, ed erede degli slavofili, amici-nemici dei populisti, aveva proclamato la fine del progresso e dello sviluppo, i pilastri su cui si reggeva la forza dell’Occidente: «Un progresso infinito è una sciocca mitologia. Non si deve tendere a uno sviluppo economico indeterminato, ma alla conservazione del medesimo livello di sviluppo». Per quanto riguarda la crescita economica «non solo non è necessaria ma è deleteria» (cfr. Clementi 2007, p. 192).
    Nei decenni successivi, per effetto di dinamiche ambientali, economiche, politiche, che appaiono incontrollabili anche a fronte dei più grandi spiegamenti di forze, un peggioramento delle condizioni di vita, ha cominciato ad essere considerato fortemente probabile da un numero crescente di persone. Il che è tanto più notevole dato che, a differenza di altre epoche, non vi sono forze organizzate significative che si facciano portavoce di un tale pervasivo pessimismo. Anzi, tutti gli attori politici, ma anche i leader religiosi, si sentono in dovere di proclamare la loro fiducia in un futuro migliore, purché le popolazioni, con le buone o le cattive, comprese le guerre, seguano le loro indicazioni e insegnamenti. Ma il sentimento condiviso è che si tratti di una recita tanto obbligata quanto vacua. Nessuna forza, nessun carisma, nessuna politica, sono in grado di restituire la sicurezza in un futuro di progresso.

    5. Il rapporto tra intellettuali e popolo, esperti e persone comuni, ha subito un profondo cambiamento negli anni successivi al ’68, in assenza di significativi sconvolgimenti d’ordine sociale e politico. Il campo principale in cui il cambiamento si è manifestato è quello della tecnica, la cui problematicità era già stata individuata dalla filosofia, soprattutto tedesca, del Novecento, ma che le culture politiche e il senso comune continuavano a percepire in termini strumentali e neutri.
    È vero che c’erano state le bombe atomiche degli americani e la folle quantità di esperimenti nucleari condotti dalle varie potenze e superpotenze impegnate nella guerra fredda. Ma ciò rientrava in un preciso uso della tecnologia a fini militari, di deterrenza e di potenza, per cui le vittime innocenti e inconsapevoli erano “giustificate” nella logica della sicurezza e della supremazia nazionale e/o dell’alleanza tra più Stati, in piena continuità con le recenti guerre mondiali e i relativi molti milioni di morti.
    Le cose cambiano quando comincia a diventare problematica la tecnologia di pace, finalizzata allo sviluppo economico. Anche in questo campo c’erano robusti precedenti in termini di rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori e per le conseguenze sull’ambiente, abitanti inclusi, di certi tipi di industrie. Ma la spiegazione, se non la giustificazione, veniva trovata: nel rischio inerente all’attività umana, in comportamenti colpevoli, nella sete di profitto, nell’arretratezza delle tecnologie, ecc.
    La novità è data dal manifestarsi di danni, anche gravissimi, alla salute e all’ambiente, come conseguenze inaspettata di determinate sostanze e lavorazioni (si pensi all’amianto). Danni assolutamente non percepibili a livello individuale se non quando le loro conseguenze diventano irreversibili. L’attenzione si focalizza quindi su pericoli e rischi, in misura rilevante indotti dalle tecnologie industriali, che solo la strumentazione tecnico-scientifica è in grado di rilevare.
    Ancora più potente è l’impatto e la percezione di rischi globali quali le piogge acide, il buco nell’ozono, il riscaldamento globale, ovvero di incidenti catastrofici come quello di Černobyl. Certamente non sottovalutabili sono la percezione e la realtà dell’inquinamento delle acque, dell’aria e della terra, direttamente proporzionali al tasso di sviluppo economico. Ampiamente rimossa ma non meno vistosa è l’ecatombe dovuta alle automobili: le strade sono più pericolose di qualsiasi guerra a bassa intensità.
    Sul piano individuale e globale prende così piede un sentimento di insicurezza, fondato sulla effettiva mancanza di conoscenza dei rischi, ovvero sull’impossibilità di evitarli anche quando sono noti. Nonostante lo spiegamento di forze messo in campo per rimuoverle, e ancor più deviarle verso obiettivi politicamente governabili, la mancanza di sicurezza e la paura si sono insediate stabilmente nelle popolazioni, che vedono moltiplicarsi i pericoli (dal terrorismo alla microcriminalità) e non sanno cosa pensare delle notizie che arrivano dai laboratori di biologia e genetica, laddove la ricerca si spinge sempre più verso la produzione artificiale e la manipolazione illimitata della vita.
    In questo scenario, non solo i politici, ma anche scienziati e tecnici sono stati messi in discussione, in pratica nessuno accetta più che dall’alto del loro sapere impartiscano la verità al popolo, dicendo ciò che si deve fare o non fare. E non per il momentaneo prevalere di pulsioni oscurantiste e irrazionali, che ci sono sempre state, ma perché né scienziati né persone comuni sanno dove stanno andando la scienza e la tecnica, e dove ci stanno portando le trasformazioni a velocità crescente indotte dalla tecnologia. Per cui solo una fede mistica e totalmente irrazionale ci può indurre a scommettere ciecamente su di essa.
    Al contrario, è indispensabile una presa di coscienza del nostro comune non-sapere, una sorta di ritorno alle origini socratiche del pensiero, e a una democrazia aggiornata, per approntare le armi intellettuali con cui affrontare il presente senza compromettere il futuro, con le conseguenze imprevedibili e irreversibili della nostra azione. «La nostra cresciuta competenza non basta a redimerci dalla nostra enorme ignoranza: ne sappiamo troppo poco dei meccanismi della natura, per esempio del clima, ne sappiamo troppo poco delle possibili conseguenze delle tecnologie che inventiamo e, di conseguenza, non sappiamo quasi nulla delle possibili conseguenze dell’interazione tra tecnologia e natura» (Longo 2007, p. 28).
    L’atteggiamento prevalente è però ben diverso, sia perché le culture politiche balbettano di fronte a sfide che le sopravanzano sia per la resa o il tradimento degli intellettuali. La “seconda natura” con i suoi molti confort per i privilegiati viene accettata fatalisticamente; e, a parte gli entusiasti, prevale un calcolo utilitaristico in base a cui si pensa che i vantaggi siano superiori ai danni, quindi si può proseguire sulla stessa strada, nella convinzione che non ce ne siano altre.
    L’accettazione naturalistica della tecnica ci accomuna agli specialisti che, come diceva Lukàcs, cadono in un atteggiamento contemplativo di fronte alle proprie facoltà oggettivate. Così, di fronte ai miracoli della tecnica, finiamo con il convincerci che, al di là di tutto, è la tecnica che consente di realizzare le idee, mentre tutte le altre forze hanno fallito, quindi la tecnica è la sola potenza.
    Ma anche le idee appartengono alla tecnica che si è annessa la scienza, il campo del sapere deputato alla produzione di idee vere, e sottoposte a verifiche certe, a differenza di tutto ciò che è opinabile o arbitrario. Si instaurerebbe così una perfetta circolarità tra tecnica e scienza, vale a dire l’autonomizzazione della tecnica e la subordinazione ad essa del genere umano, senza più distinzioni tra lavoratori manuali e intellettuali.
    Una prospettiva rovesciata, ma a mio avviso illusoria, è quella che propongono i neomarxisti del General Intellect. Essi, da sempre apologeti dello sviluppo, proclamano il superamento immediato del capitalismo, la riappropriazione in atto, e comunque imminente, del capitale intellettuale da parte della moltitudine cognitiva. Se quest’ultima, in quanto forma contemporanea della generalizzazione del lavoro intellettuale, può essere presentata come l’espressione del superamento della divisione tra intellettuali e popolo, è giocoforza aggiungere che la suddetta generalizzazione è quanto mai circoscritta, non diversamente da quanto accaduto con la precedente “classe universale” degli operai di fabbrica. D’altro canto proprio la moltitudine metropolitana, intellettuale e cognitiva, opera e produce sul fronte più avanzato e radicale del non-sapere, indipendentemente dal ruolo e dalla funzione; al suo interno ci sono potenzialità reali, in gran parte inespresse, da valorizzare al di fuori di ogni mitizzazione.
    La subalternità delle persone comuni nei confronti dell’incessante innovazione tecnologica è un fatto scontato ma l’innovazione si regge su una non meno incessante specializzazione. Bisogna allora avere ben presente che la specializzazione estrema, vigente nella tecnoscienza mondiale, finisce con l’incontrarsi con l’assoluta non-specializzazione: lo specialista non sa nulla al di fuori della sua infraspecialità.
    Sinora si è posto freno a tali tendenze in modo empirico e pressoché casuale, sfruttando resistenze spontanee derivanti dal non allineamento dei tempi storici, resistenze che dal basso e dall’alto affondano in memorie culturali non ancora dissolte dalla modernizzazione. La posta in gioco richiede però un cambiamento di strategia e un ampliamento di orizzonte, per arrivare ad affrontare, in prospettiva, la operatività dispiegata della crisi ecologica.
    Anche limitandosi al contesto più immediato, come non vedere che al non sapere tecnico-scientifico, con la sua azione di trasformazione incessante e insensata del mondo, fa da sfondo un ambiente di vita, una scena umana sempre più pervasiva e informe? Le statistiche hanno registrato il primato demografico delle città sulle campagne: la città è diventata l’ambiente principale in cui vive la gente. Ma ciò avviene quando la città perde forma e contenuti. Il consumo, il divertimento, il lusso, il piacere sono i valori egemoni, a cui non solo fanno da contraltare ma ad essi sono funzionali il degrado, la marginalità, la miseria. E in questo paesaggio la dismissione più grave è quella che colpisce la facoltà critica, che attraverso conflitti e lotte materiali e intellettuali le città avevano tenuto a battesimo. «Al momento del suo trionfo il nostro pensiero si è fermato e la partecipazione del settore pubblico – potremmo dire del pubblico in generale – nella definizione della città si è progressivamente ridotto» (Koolhaas 2007). Non diversamente dalla scienza-mondo, la città, tra globalizzazione e privatizzazione, perde la capacità di pensare se stessa.
    La riflessione sul non-sapere, che qui abbiamo sommariamente proposto quale terreno d’incontro comune tra intellettuali e popolo, e luogo in cui riscoprire il bisogno di democrazia dopo la modernità, e per uscire dalla modernizzazione infinita e indefinita, ha evidenti valenze controintuitive perché nessuno può negare il formidabile processo di crescita della conoscenza e di vera e propria intellettualizzazione della vita. Anche la presa d’atto che «noi viviamo la nostra vita quotidiana senza comprendere quasi nulla del mondo» (Carl Sagan), rientra nell’ampliamento e democratizzazione della riflessività. Il ritardo che si intende segnalare è d’ordine politico, sono il ritardo e l’impotenza della politica, che si sottrae a scelte che le competono, essendo venuto meno lo stimolo di intellettuali e popolo, della teoria e del conflitto sociale.
    È evidente che oggi tutti abbiamo una quantità di informazioni e cognizioni molto superiori che in passato, quindi in termini assoluti sappiamo o possiamo sapere molto di più, ma ciò è in buona misura illusorio. Le persone comuni, cioè chiunque al di fuori del proprio ambito specialistico, sanno poco e sempre meno dei loro ambienti di vita perché la memoria culturale delle conoscenze tradizionali sta rapidamente esaurendosi, e perché nessun individuo è in grado di avere una conoscenza, che non sia parzialissima, delle tecnologie che ci circondano, del mondo artificiale che abbiamo costruito.
    Navighiamo a vista senza sapere dove stiamo andando: «Quanto a sviluppi della tecnologia e della scienza non abbiamo mai saputo che cosa stessimo facendo a noi stessi, alle generazioni future e all’intero pianeta» (Gallino 2007, p. 4).
    Ma, come detto, l’area del non-sapere è molto più vasta di quella tecnico-scientifica. Essa riguarda la pluralità delle culture con cui sempre più entriamo in contatto; si estende alle scelte strategiche a cui affidiamo le sorti della pace o della guerra; concerne i gangli vitali, talora criminali, dell’economia e della finanza. Come scrive Roberto Saviano (2006, p. 331): «Sapere, capire diviene una necessità. L’unica possibile per considerarsi ancora degni di respirare».
    Il mondo non è «un fallito esperimento tecnico di Dio» (K. Malevič) che gli uomini, usando la scienza e la potenza della tecnica industriale, possono rifare da cima a fondo. È inutile che l’uomo tenti di diventare Dio. La conoscenza dei limiti e la consapevolezza del non-sapere designano un percorso rispetto a cui la separazione tra intellettuali e popolo è anacronistica e antistorica.
    L’interrogazione critica e la riflessione intellettuale, il conflitto sociale e la partecipazione diretta, in definitiva la messa in discussione democratica della tecnoscienza e dei processi di artificializzazione del mondo e della vita, sono passaggi ineludibili per ridare senso alla politica. Essi costituiscono l’orizzonte conflittuale ma non utopico di una doppia ricomposizione: degli intellettuali con il popolo e dell’Occidente con il mondo. Senza questo passaggio critico-riflessivo e la sospensione di un cammino cieco, l’universalizzazione della democrazia equivarrebbe alla occidentalizzazione del mondo, ovvero al trionfo di un esistente senza futuro.


    Note

    1 Per le citazioni da Noventa rimando a Poggio 1999.
    2 Dichiarazione di Il’Ja Gabaj al processo di Taškent, gennaio 1970, in Clementi 2007, p. 121.
    3 Rinvio su ciò a Poggio 2003.

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    Viva la Comune

 

 

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