Pier Paolo Poggio, Il difficile rapporto tra
intellettuali e popolo nel lungo Novecento
1. Lenin nel 1894 scrive e pubblica il suo primo libro importante: Che cosa sono gli “amici del popolo” e come lottano contro i socialdemocratici? La storia, una delle storie cruciali del populismo e dei suoi critici, inizia di lì. Prima c’erano stati il populismo rivoluzionario e il populismo “legale”. In entrambi i casi con rapporti singolarmente intensi con Marx. Il populismo russo fu un movimento molto vasto, di carattere eminentemente intellettuale, con il coinvolgimento di uomini e donne di ogni condizione. Uno dei crogioli più importanti dell’anarchismo, radicalismo, socialismo e marxismo europei. Non a caso il concetto di intellettuale nell’accezione moderna, vale a dire di studioso impegnato politicamente, si afferma in primo luogo in Russia con il termine intelligencija, reso popolare in Europa da Turgenev.
Lenin, il cui fratello, populista rivoluzionario, era stato impiccato per ordine dello zar, pensa che il populismo, da lui ricondotto ad una forma di socialismo umanitario o utopistico, debba essere sconfitto, spazzato via, per consentire l’affermazione del marxismo scientifico e del partito rivoluzionario. Il bolscevismo nasce e si afferma nella lotta senza esclusione di colpi contro il populismo.
Nel populismo russo ci sono molte posizioni mentre nel bolscevismo c’è solo il leninismo, ma i punti di rottura principali sono i seguenti: i populisti pensano che non esista una legge ferrea della storia e che sia possibile, in determinate situazioni, saltare la tappa capitalistico-industriale; essi sostengono che la cultura contadina, ma anche artigiana, non sia solo arretratezza e “asiatismo” (l’azjatčina contro cui si scatena Lenin); pensano che il mondo contadino non debba essere distrutto dal capitalismo (o dal socialismo) ma rigenerato, facendo leva sulle istituzioni e tradizioni comunitarie e sul progresso intellettuale dell’Occidente. In breve gli intellettuali dovevano incontrarsi con i lavoratori (non solo dei campi) perché gli uni e gli altri potevano reciprocamente arricchirsi e completarsi. Per Lenin (e ancor più per Trockij) tutto ciò è romantico e reazionario.
Secondo Lenin c’è una netta separazione tra gli intellettuali e il popolo. Non solo quest’ultimo ma la stessa classe operaia, vale a dire la sua frazione più avanzata e moderna, sono del tutto incapaci di giungere autonomamente ad una presa di coscienza sociale e politica. La teoria, formulata dagli intellettuali rivoluzionari, viene portata alla classe dal partito, che è il detentore monopolistico della coscienza di classe e del sapere politico. Anzi, il partito rivoluzionario possiede ogni sapere, il suo insegnamento fa testo, sia nelle scienze dell’uomo che della natura. Solo nel partito è possibile la ricomposizione tra intellettuali e popolo, lavoro intellettuale e lavoro manuale, che il populismo russo, al contrario, pensava di poter realizzare nella società, attraverso la sua rigenerazione.
Gli sviluppi successivi furono tutt’altro che lineari, come invece pensano gli apologeti e i detrattori del leninismo, ma la conclusione è inequivocabile: con la vittoria del bolscevismo vengono colpiti e eliminati, in un’apocalisse che lascia del tutto indifferente l’Occidente, gli intellettuali e militanti eredi del populismo (socialisti-rivoluzionari, anarchici, comunisti di sinistra) e i socialdemocratici non bolscevichi, per limitarsi all’ala sinistra dell’intelligencija. Ma, ancor più, in ondate successive, culminate nelle carestie, nella collettivizzazione forzata e poi nella guerra scatenata dal nazismo, nonostante il patto con Hitler, viene fatta ecatombe della base sociale del populismo. La caratteristica più impressionante del bolscevismo russo è stata precisamente la guerra senza quartiere condotta contro il suo stesso popolo (N. Werth). Il partito al potere colpisce di volta in volta sia gli intellettuali che il popolo, sia gli operai che i contadini, e infine gli stessi bolscevichi, tutti quanti etichettati come “nemici del popolo”. Prima dello scatenarsi di questo gioco al massacro, la rivoluzione entusiasma schiere di intellettuali.
L’incontro tra bolscevismo e avanguardia artistica produce un corto circuito esaltante e inquietante, poi tutto verrà spazzato via dal nazionalbolscevismo di Stalin.
Malevič, nel 1920, proclama: «Il collettivismo è uno dei sentieri segnati sulla carta stradale che conduce all’uomo-mondo ma, forse, ancora non è altro che uno degli incroci necessari della strada principale, che racchiude in sé i milioni di ego […]. Se vogliamo raggiungere la perfezione, l’io deve essere annientato. Come i fanatici religiosi annientano se stessi di fronte alla divinità, così il santo moderno deve annientare se stesso di fronte al “collettivo”, di fronte a quell’immagine che si perfeziona in nome dell’unità, in nome della comunità». E un suo giovane allievo precisa: «Nella preparazione della società tecno-elettrica non vi è posto per l’artista con la sua spazzatura estetica […]. A questo lavoro dobbiamo prendere parte su un piano di parità con l’ingegnere, con l’agronomo e con gli operai in ogni campo specialistico» (cit. in Clark 2005, p. 216 e p. 218).
Nei momenti di fuoco della rivoluzione e della guerra civile, quando sembrava possibile che l’incendio potesse estendersi al resto dell’Europa, riaffiorano le posizioni populiste rivoluzionarie anche in campo marxista. Il Lukács estremista del ’19-’20 proclama la fine degli intellettuali come ceto separato; essi debbono fondersi con il proletariato perché «solo mediante la coscienza di classe dei proletari è possibile pervenire alla conoscenza e alla comprensione del cammino dell’umanità». «Gli intellettuali possono diventare rivoluzionari solo come individui; devono uscire dalla propria classe per poter partecipare alla lotta di classe del proletariato» (Lukács 1972, p. 25 e p. 93).
Con la rivoluzione viene proclamata la fine dell’arte, attraverso parole d’ordine che riemergeranno in successivi cicli rivoluzionari, in particolare col maoismo.
Negando ogni distinzione tra arte e industria, lavoro intellettuale e lavoro manuale, il bolscevismo si ricollegava al filone nichilista del populismo rivoluzionario, impersonato da Pisarev, che già negli anni ’60 dell’Ottocento aveva proclamato la distruzione dell’estetica, e da Nečaev, secondo cui l’arte, la morale e ogni sentimento o pensiero dovevano sottostare agli imperativi della rivoluzione. Tesi fatta propria dal bolscevismo, attraverso una lettura selettiva di Černysevskij, in aperta polemica con i principali teorici del populismo russo da Herzen a Lavrov a Michajlovskij, convinti difensori della libertà intellettuale e dell’indipendenza degli intellettuali, in nome dell’incontro tra intellettuali e popolo, della sintesi tra i valori più alti dell’Europa e della Russia, cioè il libero sviluppo dell’individuo e la giustizia nella fratellanza.
Nel corso della guerra civile, molto prima dello stalinismo, la rottura tra il potere sovietico e tutti gli intellettuali che non avessero aderito apertamente al bolscevismo o che fossero di qualche utilità per il partito, si fece sempre più profonda. Lenin lo esprime in modo inequivocabile e brutale: «Le forze intellettuali degli operai e dei contadini crescono e si rafforzano nella lotta per l’abbattimento della borghesia e dei suoi complici, degli intellettuali, dei lacchè del capitale, che si credono il cervello della nazione. In realtà non sono il cervello, ma la merda» (Lenin 1965, p. 48).
Con la stabilizzazione del regime e la vittoria di Stalin, la persecuzione degli intellettuali assume nuove forme e sviluppi: non vengono colpiti solo gli intellettuali di opposizione o apolitici, ma sempre più artisti, poeti, studiosi che si erano schierati con il bolscevismo: si salvano solo, e non sempre, i lacchè del partito e del suo capo. Questi si preoccupa che l’arte piaccia al popolo. L’arte sovietica di regime deve incarnare il precetto dell’incontro, senza mediazioni e diaframmi intellettuali, tra la produzione artistica e la fruizione popolare, il tutto sotto la regia del partito. Si riuscì così a dar vita a quella che Cornelius Castoriadis chiamava la “bruttezza positiva”, qualcosa di storicamente inedito e che trova nella Russia burocratico-comunista la sua terra d’elezione.
2. Nelle culture politiche di destra l’anti-intellettualismo è l’asse portante, l’architrave di ogni argomentazione: da Burke a De Maistre, da Taine a Spengler. Formatisi nelle grandi città moderne, gli intellettuali sono «uomini che non sanno di un destino ma solo di cause e di effetti, uomini che hanno perduto ogni contatto interiore col sangue e con l’essere e sono completamente puro essere desto pensante […]. Essi non appartengono più alla nazione […]». Gli intellettuali sono l’incarnazione del cosmopolitismo, che è espressione «dell’odio contro il destino, soprattutto contro la storia come espressione del destino» (Spengler 1981, p. 923).
Spengler è uno dei tanti intellettuali precursori o fiancheggiatori del nazismo: la loro sorte comune fu quella di essere accantonati, a conferma della natura popolare e plebea del movimento hitleriano. Ma l’ostilità nei confronti degli intellettuali, ovvero il loro asservimento, sono costitutivi del totalitarismo: «L’iniziativa intellettuale e artistica è per il totalitarismo altrettanto pericolosa del gangsterismo della plebe, ed entrambi sono più pericolosi dell’opposizione meramente politica. La conseguente persecuzione di ogni forma superiore dell’attività intellettuale da parte dei moderni capi delle masse ha ragioni più profonde della naturale avversione per ciò che essi non capiscono. Il dominio totale non consente libertà d’iniziativa in nessun settore della vita, non può ammettere una attività che non sia interamente prevedibile. Ecco perché i regimi totalitari sostituiscono invariabilmente le persone di talento, a prescindere dalle loro simpatie, con eccentrici e imbecilli la cui mancanza d’intelligenza e di creatività offre dopotutto la migliore garanzia di sicurezza» (Arendt 1989, p. 470). Il caso più interessante, secondo Hannah Arendt, fu quello di Carl Schmitt, il quale, a differenza del più appartato Heidegger, si sforzò in ogni modo di accontentare i nazisti. Ma non gli riuscì; i nazisti lo misero da parte e lo sostituirono con intelligenze di secondo e terzo ordine.
Il fascismo italiano, ancor più del nazismo, in tutte le fasi della sua storia ha goduto di un ampio e convinto appoggio da parte degli intellettuali, basti pensare al caso di Giovanni Gentile, unico nel suo genere. Il terreno d’incontro è stato sicuramente la guerra ma ancor più l’idea che solo il fascismo fosse in grado di svecchiare l’Italia.
L’intenso rapporto tra intellettuali e fascismo avviene sotto il segno della modernizzazione e del potere: non più le polverose accademie ottocentesche ma il controllo diretto dei mezzi di comunicazione, la possibilità di plasmare l’opinione pubblica, di saldare l’economia e la politica, proiettando l’Italia nel mondo. Aspettative di potenza frustrate o finite male ma tali da calamitare gran parte degli intellettuali italiani. Essi “tradiscono” in massa, per convinzione o per opportunismo, e si fanno propagandisti del fascismo, in posizioni, peraltro, di umiliante subordinazione, non solo rispetto al Duce, ma anche di fronte a gerarchi quali De Vecchi, Farinacci, Starace.
La crisi e il crollo del fascismo aprono delle possibilità di cambiamento radicale che gli intellettuali non sapranno riconoscere. Seguendo Giacomo Noventa, «si può dire veramente che la Resistenza abbia rappresentato in Italia una novità assoluta, l’inizio o quantomeno il presagio di un rinnovamento profondo del pensiero e dei costumi politici del Paese»; per la prima volta nella storia unitaria il popolo è protagonista in prima persona.
Ma il moto popolare doveva incontrarsi con l’autocritica degli intellettuali, i quali avrebbero dovuto riconoscere che il fascismo era l’espressione della cultura e del pensiero italiano, che per criticare il fascismo fosse necessario criticare il pensiero italiano, criticare se stessi. Nulla di tutto ciò avvenne, così il «divorzio tra l’esigenza popolare di una nuova politica e la politica dei politicanti è oggi più assoluto di ieri» (1949).
Gli intellettuali, dice ancora Noventa, si sono limitati a posare il cappello presso una cattedra universitaria o la direzione di un partito (o la direzione di un giornale) e le teste hanno seguito i cappelli. In tal modo essi perdono il rapporto con la realtà, si sentono superiori alle persone comuni, disprezzano il popolo. Secondo Noventa «in questo complesso di superiorità verso il popolo è l’origine dei nostri errori e dei nostri rischi». Gli intellettuali di sinistra «adoperano col popolo un linguaggio facile, piatto e volgare […]. Si rifiutano di dire che cosa sia il socialismo perché questo è un problema di dottrina, di filosofia e di religione che il volgo non intende»1.
In realtà gli intellettuali non credono nella democrazia, essi continuano a pensare che la società sia divisa «in due popoli opposti» e che l’unica possibilità sia quella di una «tirannia del popolo che in qualche modo pensa sul popolo che non pensa in nessun modo» (cfr. De Meis 1927). Come viene detto in uno degli incunaboli dell’élitismo italiano, ma come, su ben altra scala, risulta dalle rivoluzioni del Novecento, i cui esiti fallimentari sono inscritti nella crescente separazione tra i capi e le masse.
Tale situazione bloccata offre un grande spazio d’azione per il populismo demagogico e reazionario, allevato in seno ai regimi totalitari del primo Novecento e riprodottosi sotterraneamente nelle democrazie di massa post-belliche. In un contesto democratico esso può espandersi liberamente, piuttosto che essere usato strumentalmente da poteri dittatoriali o totalitari, in funzione antintellettuale.
Secondo molti osservatori liberali, lo stesso ’68 non fu altro che un’insorgenza populista e la causa della crisi in cui ancora si dibatte il nostro Paese. Senza poter qui discutere tale tesi, mi pare che si possa accantonarla per il carattere internazionale, se non mondiale, del movimento e per essere l’espressione, in prima istanza, non di ceti popolari ma di un’intellettualità diffusa, più o meno critica ed eretica.
3. È stata piuttosto la Lega Lombarda, poi Lega Nord, protagonista di un ’68 capovolto per valori e dimensioni, il soggetto politico che dagli anni ’80 ha incarnato per primo la ribellione, le paure, i desideri di una parte significativa della società italiana, dei ceti popolari delle regioni settentrionali, dando vita e forma politica ad un populismo etnocentrico rispetto a quello rivoluzionario e internazionalista della Russia dell’Ottocento.
Singolarmente, la geografia dell’espansione leghista coincide in buona misura con quello che era stato il territorio della Repubblica di Salò, fermandosi alla “linea gotica”. Anche i suoi temi identitari, in primo luogo l’esplicito razzismo, tanto plateale quanto negato, sia dai leghisti che dai loro alleati e avversari, indurrebbero a collocarla decisamente tra le formazioni di estrema destra. Il fatto che ciò non sia avvenuto è la conferma che le vecchie distinzioni ideologiche non riescono più ad essere politicamente operative. La Lega è il primo partito che agli occhi della quasi totalità dei politici, della maggior parte degli intellettuali, oltre che di chi la vota, non è di per sé collocabile in uno dei tradizionali schieramenti ideologici (sinistra-destra-centro).
Emerge qui qualcosa di sconcertante: chi conosce la Lega sa benissimo che è una formazione carica di ideologia e di militanza, ridimensionatasi proprio perchè non è stata in grado di mantenere le promesse fatte ai suoi sostenitori. È vero invece che l’ideologia della Lega, a differenza di tutti gli altri partiti storici, non è stata forgiata da qualche élite o circolo intellettuale. Lo stesso Gianfranco Miglio, prima di essere messo da parte, non è stato che un utile “compagno di strada”.
Sin dalle origini, e poi costantemente, la Lega ha considerato con disprezzo gli intellettuali, nell’accezione più ampia, dagli insegnanti sino ai cosiddetti “grandi intellettuali”, anche quando dalle pagine dei quotidiani nazionali dimostravano di apprezzarne la vitalità, novità e spregiudicatezza, per non dire delle doti politiche sopraffine attribuite a Bossi e così via. Il passaggio dalle lusinghe alle critiche e agli insulti (anche in questo i leghisti sono stati degli antesignani) non ha migliorato la percezione del fenomeno leghista, il che costituisce un problema di qualche rilievo visto che, a detta di tutti, la Lega prima di Berlusconi, e in modo forse più genuino, ha inaugurato da noi un’ondata populista che sembra non volersi esaurire.
Ancora recentemente, commentando l’ennesima insorgenza populista di questi mesi, Pietro Ignazi afferma che essa è espressione di una «neoclasse acquisitiva che alligna nelle periferie dilatate e indifferenziate a nord del Po, [che] porta nell’arena politica atteggiamenti e stili innervati da una aggressività e una assertività propria di chi ha la convinzione di essere nel senso della storia» (Ignazi 2007). Le stesse considerazioni potevano essere formulate nel 1997 o anche nel 1987, se non prima. A conferma che la politica, e la politologia, si muovono ormai in un tempo senza storia.
Al contrario, se non si colgono i tempi e le forme genealogiche della nascita e affermazione della Lega, si rischia di non capire cosa sia l’attuale populismo neoetnico con il suo acceso e genuino antintellettualismo.
A tal fine non è decisiva, seppure non inutile, l’analisi dell’ideologia e dell’azione politica della Lega, entrambe caratterizzate da un forte sincretismo e dal più spregiudicato occasionalismo. È sicuramente importante coglierne il nucleo di valori fondanti, ma per far ciò è necessario calarsi nella sua base sociale, analizzare i cambiamenti che hanno coinvolto la società e l’economia dei territori leghisti. È in questi territori che ciò che viveva sotterraneo nelle subculture locali e che aveva attirato l’attenzione di uno scrittore oggi del tutto dimenticato come Lucio Mastronardi, si autonomizza e prende slancio, il “super-ego” ideologico viene accantonato, cadono le vecchie bardature e il popolo trova nella Lega Nord lo strumento con cui esprimersi se non il luogo dove aggregarsi.
Sono territori in cui è avvenuta una “rivoluzione silenziosa”, anche se molto diversa da quella a cui si riferiva Ronald Inglehart, dato che è tutta centrata sull’estrema intensificazione della produzione e consumo di beni materiali. Territori in cui crolla il modello politico, economico e sociale della grande fabbrica e dell’antagonismo operaio, mentre risultano vincenti la fabbrica diffusa, i distretti industriali, i sistemi territoriali di imprese; un modello di integrazione sociale e produttiva che tende a soffocare ed espellere il conflitto dal proprio interno, per proiettarlo all’esterno, dove si collocano gli avversari, i competitori, i diversi, i nemici.
Territori in espansione continua, che incarnano la formula economica vincente, in cui lo sviluppo caotico della media e piccola industria, la crescita del terziario e della grande distribuzione commerciale sono avvenuti al di fuori di ogni programmazione e gestione razionale dello spazio e delle risorse ambientali.
La Lega si considera l’emanazione del cosiddetto popolo padano, ed è percepita come se fosse l’espressione diretta, la trascrizione politica, di una ben determinata composizione sociale: il popolo interclassista dei produttori, forgiatosi nel crogiolo delle aree ad alta densità produttiva del Nord, che hanno preso il posto del ristretto triangolo industriale quali principali vettori dello sviluppo economico nazionale.
La Lega nasce e cresce impetuosamente dove si è insediato, dopo una brusca e rapida rottura rispetto al retroterra storico contadino, il capitalismo manifatturiero come modalità di lavoro e di vita e, sempre più, il consumismo come unico orizzonte di senso. Il leghismo è l’ideologia trasversale egemonica in luoghi dove il ciclo continuo lavoro-consumo è sempre più compresso sino a raggiungere una circolarità ininterrotta.
Il populismo leghista è l’espressione della democratizzazione molecolare degli “animal spirits” del capitalismo o, se si vuole, del compimento della mutazione antropologica pasoliniana. Il popolo leghista liberatosi, come di una pelle secca, delle appartenenze universalistiche (cattoliche o social-comuniste), concepisce il proprio territorio, il luogo della sua identità, come un’azienda quotata in politica e quale ganglio vitale dell’economia di mercato, intesa come l’arena di una lotta senza quartiere e senza regole. Di qui la necessità di liberarsi da “Roma”, da “Bruxelles” e da tutti quei poteri che non sono emanazione diretta del popolo e che vogliono imbrigliarlo con lacci e lacciuoli. Di qui, ancor prima e più concretamente, la lotta contro i nemici del popolo leghista: gli intellettuali, i dipendenti pubblici, i meridionali, i marginali, gli extra-comunitari, i rom, gli islamici, i cinesi: tutti coloro che hanno costumi di vita e credenze diverse; tutti coloro che non sono identici a noi.
In ragione della sua povertà intellettuale il leghismo ha conseguito risultati politici modesti ma, paradossalmente, una forma di egemonia culturale. Le altre forze politiche, di tutti gli schieramenti, ben al di là di Forza Italia, hanno contenuto il populismo leghista adottandone le principali istanze e ancora adesso, dopo un paio di decenni, sono impegnate a tradurle in pratica.
È da notare che per molto tempo, sino a quando la Lega non è diventata decisiva per la composizione dei governi nazionali, e su aspetti fondamentali anche dopo, non c’è stata attenzione né comprensione per quel che stava accadendo nelle aree economiche più avanzate del Paese. Un fallimento della politica e delle scienze sociali, vale a dire un fallimento degli intellettuali, per cui si è passati dalla totale sottovalutazione all’eccesso opposto, all’idea che veramente la Lega – o almeno il leghismo – fosse quel che pretendeva di essere: l’espressione organica, genuina, naturale, di quei territori e “popoli”, da cui la necessità di sconfiggerla facendone propria l’agenda politica.
Partendo da un caso particolare, ma rilevante, perché è la manifestazione locale-nazionale di processi che hanno interessato un po’ tutte le società industrializzate, Stati Uniti compresi, constatiamo empiricamente che stiamo perdendo la capacità di analizzare le trasformazioni della società, anche quando sono molto rilevanti e accadono sotto i nostri occhi. Quando capiamo è troppo tardi. Nel tempo dell’informazione e comunicazione universale cresce il non-sapere, non solo in campo tecnico-scientifico ma anche storico-sociale. Ciò rappresenta una grande minaccia e però offre anche delle opportunità per una ripresa del lavoro intellettuale e del pensiero critico.
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Viva la Comune