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    Predefinito Il dubbio dell'elettorato ebraico americano

    ennesimo articolo vomitevole di SHALOM.IT
    (il fogliaccio di Fiamma Nirenstein e Gad Lerner)


    Il dubbio dell'elettorato ebraico americano
    http://www.shalom.it/2.03/L.html


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    LETTERA DA NEW YORK Il dubbio dell'elettorato ebraico americano
    di Amos Vitale



























    Un inquilino ebreo per la Casa Bianca. L'idea che fino a qualche tempo fa avrebbe potuto al più ispirare le fantasie di qualche autore di fantapolitica, viene oggi presa seriamente in considerazione dall'opinione pubblica statunitense. Il prossimo anno gli americani dovranno scegliersi un nuovo Presidente, e il tradizionale duello fra un candidato democratico e un repubblicano si presenta ricco di incognite. Il presidente uscente George Bush tenterà certamente di ottenere un secondo mandato. La sua statura politica e la sua immagine pubblica sono uscite completamente capovolte e molto rafforzate dalle esperienze che hanno fin qui caratterizzato il suo incarico. Dal timido, piuttosto ignorante e oscurantista (se non proprio in odore di antisemitismo) campione della destra bigotta statunitense, il presidente si è conquistato in casa e sullo scenario internazionale la dimensione di un condottiero delle democrazie avanzate nei confronti dell'attacco terroristico. Per quanto riguarda la situazione mediorientale, Bush non è stato ancora in grado di fermare definitivamente l'attacco senza precedenti e l'ondata di violenze che hanno insanguinato Israele nel corso della seconda Intifada, ma il suo atteggiamento fermo - e forse anche la presa di coscienza che ogni aggressione a Israele equivale a una lesione irreparabile dei principi di libertà, democrazia e progresso cari al mondo progredito - lo ha reso un forte punto di riferimento per il Governo di Gerusalemme. Anche sul fronte interno americano la ferma risposta che Bush ha dato al terrorismo dopo l'attentato dell'11 settembre 2001 e la critica puntuale della bagarre scatenata all'ombra di Arafat hanno finito per spostare una parte dell'opinione pubblica ebraica statunitense a favore di un fronte, quello repubblicano, assai raramente frequentato in precedenza.
    Se nessuno, con ogni probabilità, potrà sbarrare la strada a una ricandidatura di Bush in casa repubblicana, proprio dalla compagine democratica, quella cui si sente ancora legata la stragrande maggioranza degli ebrei americani, vengono segnali da tenere d'occhio. Nelle ultime settimane la possibilità che lo sfidante progressista al presidente uscente sia Joseph Lieberman, l'unico ebreo ortodosso a sedere nel Senato americano, hanno acquistato concretezza. Certo, per Lieberman, la corsa alla Casa Bianca non costituisce una novità assoluta. Nelle elezioni del 2000, in definitiva, era candidato alla vicepresidenza e ha fatto egregiamente da secondo al delfino di Clinton, Al Gore. La coppia, come è noto, è riuscita a raccogliere la maggior parte dei consensi dell'elettorato, ma per una rocambolesca vicenda legata al conteggio dei voti in alcuni seggi elettorali della Florida ha perso per un soffio la corsa alla presidenza. Molti osservatori hanno riconosciuto come Lieberman non abbia fatto perdere consensi a Gore, ma anzi ne abbia conquistati parecchi, vincendo le possibili diffidenze che la massa degli elettori americani avrebbero potuto nutrire nei confronti di un candidato ebreo.
    L'eventualità di un ritorno di Lieberman in scena per le elezioni del 2004, anche se questa volta il senatore del Connecticut punterebbe ovviamente direttamente alla presidenza, perché mai dovrebbe quindi suscitare tanta sorpresa o addirittura inquietudine?
    Il problema è che lo storico taglio del traguardo di un ebreo al comando della prima potenza mondiale sembra oggi contemporaneamente più a portata di mano e più difficile che mai. Cominciamo a mettere giù qualche tessera di un rompicapo politico senza precedenti chiarendo che la rinuncia di Al Gore a partecipare a una nuova competizione elettorale equivale a un sostanziale via libera per il suo vecchio compagno di strada. Lo stesso Lieberman aveva cavallerescamente chiarito che non avrebbe in ogni caso mai tentato la strada della Casa Bianca in competizione contro Gore. Il primo ostacolo nella sua marcia verso la presidenza è stato quindi rapidamente lasciato alle spalle, ma quelli che lo attendono nei prossimi mesi potrebbero rivelarsi molto più difficili da superare.
    Per essere candidati del proprio partito, infatti, è necessario superare il difficile sbarramento delle elezioni primarie, della competizione interna al proprio schieramento. Se Bush, infatti si trova per ovvi motivi la strada spianata, Lieberman per raggiungere la candidatura dovrà vedersela con numerosi altri esponenti democratici desiderosi di affrontare la competizione. A cominciare dal senatore del Massachusetts John Kerry, che sembra in grado di offrire all'elettorato delle primarie una manciata della polvere di stelle che ha caratterizzato la dinastia Kennedy.
    In teoria Lieberman dovrebbe avere le carte in regola per spuntarla: gioca a suo favore, infatti, la maggiore esperienza politica e il maggiore spessore culturale e umano di un ebreo della piccolissima borghesia del New England (suo padre era un modesto commerciante di liquori) che è riuscito con una straordinaria forza di volontà a costruire un successo politico straordinario. Gioca a suo favore la forte identità religiosa e in particolare il suo dichiarato impegno sul fronte dell'ebraismo ortodosso americano, un fatto generalmente apprezzato dall'elettorato americano. Gioca a suo favore la capacità di raccogliere finanziamenti e sostegni per la campagna elettorale sicuramente maggiore di quella di ogni altri candidato democratico. Gioca infine a suo favore il fatto di essere considerato il parlamentare progressista più vicino alle posizioni dei conservatori e più capace di mediare con le loro esigenze. Sulla necessità di debellare il regime di Saddam Hussein e su quella di combattere con la massima energia la minaccia terroristica, infatti, Lieberman è considerato alla destra non solo della linea ufficiale del proprio partito, ma anche dello stesso Bush. Anche sul piano economico il senatore del Connecticut può essere considerato un deciso liberista, anche se ovviamente temperato dagli ideali del fronte progressista. Il suo deciso interventismo, in una stagione che vede la grande massa degli elettori chiedere risposte forti e precise, potrebbe favorirlo nella competizione con Bush. Il presidente uscente, difatti, se dovesse confrontarsi con Lieberman si troverebbe attaccato sia da destra che da sinistra. E probabilmente ne uscirebbe con le ossa rotte.
    Questi stessi punti di forza che Lieberman ha dalla sua parte possono però costituire altrettanti elementi di difficoltà. Il suo progressismo spogliato dagli immaturi slanci della sinistra massimalistica e pacifista ad oltranza, infatti, convincerebbe certamente la maggior parte dell'elettorato, ma potrebbe non entusiasmare i votanti democratici delle elezioni primarie. Non è necessario arrivare al continente americano, infatti, per constatare che la sinistra preferisce talvolta essere perdente, pur di rendere omaggio ai vecchi miti del passato.
    Ma non è tutto. La prospettiva di una candidatura di Lieberman sta infatti e paradossalmente suscitando perplessità e ambivalenze proprio in seno alla componente ebraica del mondo politico. Al senatore si imputa di non essere abbastanza in linea con la tradizione politica progressista, si rimprovera di anteporre troppo spesso la propria visione fortemente morale e marcatamente religiosa alle altre esigenze della politica. A non perdonargli di essere ebreo, in un certo senso, fino a prova del contrario sono proprio molti ebrei americani. Certo, il suo ingresso alla Casa Bianca rappresenterebbe un traguardo storico per la prima comunità della Diaspora. Ma anche un imbarazzo, se non addirittura un pericolo, per la politica di sostegno di Israele che l'ebraismo americano ha sempre perseguito con decisione. Lieberman, infatti, come è ovvio non ha mai fatto mistero del suo forte legame con Gerusalemme.Se dovesse arrivare alla presidenza, per tutto quello che riguarda la ricerca di un assetto stabile in Medio Oriente non potrebbe fare altro che stare sulla difensiva. E tentare di dimostrare al mondo la propria assoluta imparzialità, finendo probabilmente come un ostaggio costretto a penalizzare gli interessi israeliani.

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    Applicare gli schemi europei "destra-sinistra" alla politica USA è spesso fuorviante. Basti pensare che il rabbino Meir Kahane, leader del movimento terrorista Kach, ultrarazzista e ultraviolento, era un grande elettore democratico...

    umt

 

 

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