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  1. #91
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    Predefinito DIPINGERE LA LUCE




    di C.P.



    Presso la sede dell'Estorick Collection of Modern Italian Art di Londra, organizzata in collaborazione con il Ministero italiano degli affari esteri, è in corso "Painting Light: Italian Divisionism 1885-1910".

    La mostra offre l'opportunità di ammirare le opere realizzate a cavallo tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, dalla corrente pittorica italiana, conosciuta come divisionismo. Figlio delle esperienze degli impressionisti e dei neo-impressionisti francesi e, spinto dall'esigenza di rappresentare il vero e gli effetti della luce del sole, il divisionismo, nasce ufficialmente nel 1891, in occasione dell'esposizione Triennale di Brera, avendo comeprincipale centro artistico a Milano.

    Oltre al puntillisme di Georges Seurat e Paul Signac, dai quali la corrente italiana eredita la tecnica di accostare i colori puri, applicandoli sulla tela a piccoli tratti, in modo filamentoso, fondamentale è il monito della pittura lombarda ottocentesca, in particolare degli scapigliati Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni, per le scelte tematiche e formali.
    Il divisionismo italiano comprende la componente sociale, oltre a quella simbolica che accomuna tutti gli esponenti del gruppo, quali, fra gli altri, Giovanni Segantini, Angelo Morbelli, Gaetano Previati, Giuseppe Pellizza da Volpedo, Federico Zandomeneghi, Giacomo Balla.

    Il movimento, che negli anni Novanta dell'Ottocento si era diffuso in tutto il paese, si diffonde anche all'estero grazie anche al contributo di Vittore Grubicy de Dragon (1851-1920), fra i primi, tra l'altro a introdurre in Italia la tecnica del puntillisme.
    Dal divisionismo, che agli inizi del Novecento era divenuto un linguaggio universale nella cultura artistica italiana, avrebbero preso le mosse molti pittori della generazione successiva, i primi futuristi Giacomo Balla, Luigi Russolo, Gino Severini e Umberto Boccioni.

    Painting Light: Italian Divisionism 1885-1910

    Estorick Collection of Modern Italian Art LONDRA
    Fino al 07 settembre
    39a Canonbury Square


    Da: http://www.arte.it/articoli/2003/06/23/444332.php

  2. #92
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    Predefinito GABY WAGNER



    di Cecilia Passa


    Venezia rappresenta l'occasione perfetta per chi ama confondersi con l'arte, la bellezza e le proprie emozioni.
    Tra l'orgia di esposizioni ed eventi disseminati in questo periodo tra le calli e i palazzi della laguna, una mostra ci accompagna in un percorso fatto di storia, luce e materia.

    Nella splendida cornice del Hotel Metropole di Venezia, una personale dedicata a Gaby Wagner presenta le ultime produzioni dell'artista.

    Opere bellissime, frutto di ricerca, curiosità e amore per il viaggio; ispirate ai classici, alla tradizione antica. Eppure attualissime, fuse con il quotidiano e di un gusto straordinario. Vasi, lampade, oggetti, pezzi unici che si perdono, integrano fino a diventare protagonisti delle sale dello storico albergo. Purezza delle forme e uso sensibile di materiali preziosi, oro argento e cristallo per "opere senza tempo".

    Nata in Germania, ha vissuto e lavorato nel campo della moda a Parigi, New York e Milano. Oggi vive e lavora a Venezia dove crea oggetti in vetro di Murano.
    I suoi lavori sono esposti presso Donna Karan a New York a New York e preziosa è la sua collaborazione con Jacques Garcia.

    Un'esposizione diversa, espressione di grazia ed eleganza, per un appuntamento da non perdere.

    Gaby Wagner
    Fino al 1° luglio 2003
    Hotel Metropole.
    Riva Degli Schiavoni 4149. Venezia 30122

    Da: http://www.arte.it/articoli/2003/06/20/444045.php

  3. #93
    scemo del villaggio
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    Predefinito Dal "Corsera" di oggi

    Ho aperto il libro di Luisella Battaglia Alle origini dell’etica ambientale (Dedalo, Bari) con l’idea, suggerita anche dal titolo, di trovarmi di fronte a una trattazione di questioni specifiche svolta col linguaggio specifico che attiene alla materia. Ma leggendo ho capito che questo libro mi riservava più di una sorpresa e qualche scoperta proprio di carattere letterario. Perché, è vero, l’argomento è quello del titolo ed è svolto col rigore che richiede, ma dentro vi circola una passione e un sentimento che trovano spesso, per esprimersi, un linguaggio che potrei definire poetico. E non solo nella bella scelta di citazioni ma nella rete di connessioni, di ragionamenti, di osservazioni che l’autrice tesse intorno a queste citazioni per condurre con chiarezza e logica avvincente il suo discorso. Il suo discorso inizia con una domanda: «Esistono principi morali che dovremmo adottare nel modo di trattare il mondo non umano?». E per «mondo non umano» s’intende non soltanto quello degli animali, tutti gli animali, perfino gli insetti, ma anche le piante, gli alberi, i fiori, la Natura insomma, e anche il paesaggio. A questo quesito l’autrice risponde non solo con la propria voce, ma rileggendo per noi quattro scrittori che si sono occupati della questione molto prima che questa diventasse la questione cruciale della nostra epoca. Gli scrittori sono Voltaire, Michelet, Thoreau e Gandhi, tutti ben noti e che in questo libro, attraverso le citazioni che dalle loro opere vengono fatte, sembrano quasi del tutto inediti. E anche questo va riconosciuto all’autrice. I quattro scrittori sono vissuti in Paesi ed epoche diverse, ma sono animati dalla stessa visione di un umanesimo che oggi definiamo ecologico e da un senso di appartenenza a tutto ciò che vive, che si configura come una comunità di destino su questa terra dove - secondo Voltaire - siamo capitati, uomini e animali, senza sapere il perché, diretti verso un’ignota avventura. Tutti e quattro questi scrittori esprimono una critica alla filosofia antropocentrica delle epoche precedenti. Per ciascuno di essi l’autrice ci spiega le ragioni che l’hanno spinta a rileggere l’opera e a segnalarne i diversi approcci al tema che le sta a cuore: «L’etica del riconoscimento» in Voltaire, e cioè una filosofia della tolleranza, e il riconoscimento dell’animale come una creatura simile a noi e come noi capace di soffrire e di sentire; il che significa riconoscere, contro Cartesio, il carattere non meccanico del vivente. «La grande città universale» in Michelet e dunque l’estensione, oltre i confini della nostra specie, di quell’idea di emancipazione e di fraternità conquistata dalla Rivoluzione francese di cui Michelet fu lo storico insigne. «La ricomposizione dell’armonia» tra uomo e Natura, in Thoreau, che preannuncia l’arrivo dell’epoca ecologica e in lui congiunta con un’ideologia della libertà che trova nella solitudine della vita nei boschi una sorgente di energia vitale. «Il principio dell’anima» intesa come sollecitudine fraterna per ogni essere vivente, in Gandhi, e l’appartenenza a quel «mondo unico» dell’induismo che comporta l’identità «anche con quegli esseri che strisciano sulla terra». E qui vorrei accennare, con un solo esempio, alla scrittura di questo libro, che ha una sua ben avvertibile qualità: «Universale è dunque l’attesa di riabilitazione. Anche gli insetti, il grande "popolo delle tenebre", avanzano la loro istanza, eloquente perché espressa dalle tecniche ingegnose delle loro energie amorose, rivelate dalle ali, dai colori, dal luccichio che illumina le notti e, insieme, terribile per il numero di coloro che la reclamano dalle profondità della terra e delle acque, dall’interno di ogni pianta, dall’aria stessa che respiriamo». E ancora: «L’insetto appare un vero e proprio enigma, un enigma tra l’altro poco rassicurante (...). Del resto è così piccolo che sembra non si sia tenuti ad essere giusti verso di lui (...). Ma in che senso, ci si potrebbe chiedere, contano le dimensioni per la giustizia?». A me sembra bello, letterariamente.

    Arturo Carlo Quintavalle

  4. #94
    scemo del villaggio
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    Predefinito idem

    Abolire plexiglass e cristalli per tornare alle tecniche e ai materiali tradizionali. I commenti di Paolucci, Martines, Marconi e Zanardi

    Restauri, tramonta il tabù della ricostruzione

    «Era inevitabile, logico, evidente. Dopo trent’anni di cemento armato, plexiglass, cristalli, resine e altri materiali contemporanei incompatibili con le forme antiche, si è capito che non si poteva andare avanti. E così si torna a forme e a elementi compatibili col bene di cui ci occupiamo» Bruno Zanardi (docente di Teoria e storia del restauro a Urbino, già allievo di Giovanni Urbani, mitico direttore dell’Istituto superiore del restauro dal ’73 all’83) non si stupisce più di tanto commentando le notizie che arrivano da Roma a proposito del volume speciale del Bollettino d’arte del ministero per i Beni e le attività culturali dedicato al restauro della chiesa di San Giorgio in Velabro, ricostruita «com’era e dov’era» dopo l’attentato terroristico che l’ha distrutta in buona parte del 1993. Intere porzioni di muratura sono state rifatte a mano e inserite tra l’antico grazie a un attentissimo uso dei rilievi grafici e fotografici. Completamente ricreata tra il ’93 e il ’95 è, per esempio, la cornice alla sommità del portico con le mensoline e i «denti di lupo»: un caso (filologico») di vero-falso o falso-vero...
    Il caso romano del Velabro costituisce un punto di svolta nel restauro italiano abituato fino a oggi a interventi con materiali contemporanei nel nome della «visibilità» dell’operazione? Sì, assicura Antonio Paolucci, soprintendente speciale per il polo museale fiorentino: «Vent’anni fa l’architettura antica degradata veniva spesso ricostruita con resine e materiali orrendi. Oggi è emerso con chiarezza, ed era ora, che è finita quell’epoca. Si torna alla reintegrazione nei materiali e negli stili. Si tratta di sostituire i pezzi mancanti ma di farlo bene, recuperando tecniche antiche attraverso lo studio dei documenti. L’inversione di tendenza ci fa piacere, in vent’anni abbiamo visto tante brutture». Qualcuno già parla di «effetto Dresda»: dopo un bombardamento si ricostruisce «rifacendo» ciò che c’era anche a costo di non rendere più distinguibile, a un occhio poco esperto, l’antico dal rifatto. E’ capitato anche col palazzo di via dei Georgofili a Firenze, pure quello raso al suolo dal terrorismo. Il nodo è evidentemente essenziale in un Paese sismico come il nostro.
    Tutto nasce, racconta Ruggero Martines, soprintendente regionale del Lazio per i beni ambientali e architettonici, dalla carta del restauro voluta da Cesare Brandi nel 1972: «In quel momento Brandi si preoccupava giustamente delle esagerazioni di molti architetti, dei troppi arbitri interpretativi visti fino a quel periodo anche in nome della "modernità". Il timore di Brandi era squisitamente, e correttamente, di natura storico-artistica». Ma come spesso accade in Italia, da un eccesso si precipitò nell’altro. Brandi teorizzò l’attenzione allo «stato del rudero» (considerato bello in sé) per evitare massacri? Bene, qualsiasi intervento si bloccò in ogni parte d’Italia. Tutto ciò, spiega Zanardi, ha prodotto «ogni mancata progettazione nel settore del restauro. La struttura burocratica addetta ha colto l’occasione della filologia offerta da Brandi per non intervenire. Si lasciava tutto così com’era e in più si ottenevano anche meriti scientifici per quel "non intervento". Ci fu insomma un uso capzioso e frainteso del pensiero di Brandi. Guardiamo l’incredibile caso del Palazzo della Ragione a Milano che esternamente resta una rovina mentre è piena, all’interno, di ogni postmodernità...».
    Allo stesso Palazzo della Ragione, come esempio in negativo, rimanda Paolo Marconi, ordinario di restauro dei monumenti all’Università di Roma Tre nonché professore di teoria e tecnica del restauro architettonico presso la Scuola archeologica italiana di Atene: «E’ un caso davvero orribile. Di fatto è stato trasformato in rudere». Marconi è favorevolissimo a un restauro architettonico che preveda ampie ricostruzioni: «Bisogna pensare all’architettura come a una lingua. L’intervento sull’antico si somiglia nei due casi. Se io sono un filologo classico e mi trovo di fronte a un brano di Cicerone mancante di una parte nella metà, sono di fatto obbligato a ripristinarlo: a patto che conosca bene quella lingua. Ricordo che nel caso di San Giorgio ci fu chi propose di risolvere il problema della loggia con un pezzo di legno che citasse appena ciò che c’era. Assurdo. Colpa di certi professorini universitari e impiegatucci della soprintendenza».
    Sempre Marconi (autore di un affascinante studio dedicato a una vasta ipotesi di ricostruzione di antiche realtà architettoniche di Roma andate distrutte dal 1870 in poi, tra cui il Porto di Ripetta, il Porto di Ripa Grande, un isolato di via Giulia) accusa: «L’eccessiva fiducia nella tecnologia e nell’uso di materiali contemporanei ha distrutto la grande tradizione dei nostri artigiani cedendo il posto a pensiline in titanio e altre insensatezze. I tagliatori di pietra, i manovali specializzati oggi sono introvabili. Colpa anche del costo della manodopera. Ma oggi, come insegna la Francia, l’immigrazione può costituire una risorsa straordinaria in questo campo».
    Una sola accortezza in questo vento di novità, avvisa in largo anticipo Bruno Zanardi: «Attenzione perché l’effetto Disneyland può incombere su di noi. Va bene l’abbandono dei restauri fin troppo "filologici". Ma non perdiamo mai di vista Brandi. Ed evitiamo diversi eccessi». Suggerimento ottimo per quest’Italia che sembra detestare le vie di mezzo.

  5. #95
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    Predefinito Quaranta studiosi hanno scritto al ministro Urbani per il david di Donatello

    Quaranta studiosi hanno scritto al ministro Urbani


    Firenze - Preoccupati per il destino del David di Michelangelo per il quale è in corso un delicato intervento di pulitura. E' l' appello rivolto da una quarantina di studiosi e storici dell' arte italiana al ministro per i beni e le attività culturali Giuliano Urbani. Tra i firmatari, i professori James Beck, Paola Barocchi, Massimo Ferretti, Mina Gregori, Carlo Pedretti, Leo Steinberg, Alessandro Vezzosi. La scultura, spiega Beck, docente alla Columbia university, che da anni interviene nei confronti di "restauri eccellenti", "è sottoposta, dallo scorso settembre, ad una serie di test per valutarne le condizioni e per determinare l' intervento più opportuno. Queste indagini hanno prodotto due diverse ipotesi di lavoro: la prima, che è quella dell' Opificio, espressa da Franca Falletti direttrice dell' Accademia e coordinatrice del restauro, prevede l' asportazione dello sporco mediante l' impiego di solventi chimici supportati dall' impiego di impacchi. La seconda, indicata da Agnese Parronchi, la restauratrice a cui era stato affidato il lavoro, prevedeva invece l' utilizzo di varie sostanze anche chimiche, ma impiegate in modo estremamente mirato". Le due posizioni, ricorda ancora Beck, "sono diventate inconciliabili e lo scorso marco Parronchi si è dimessa dal suo incarico non volendo utilizzare la metodologia richiesta dall' Opificio". Lo scorso maggio il soprintendente al Polo museale Antonio Paolucci l' ha sostituita con Cinzia Parnigoni. "Visto questo conflitto di metodologie - afferma ancora Beck - e poichè, al momento, non sembrano esistere pericoli per la celebre statua crediamo che ora non debba essere presa alcuna decisione. E questo fino a quando una commissione indipendente, istituita dal soprintendente Paolucci o dal ministro Urbani, non abbia bene valutato le due ipotesi di lavoro assieme ad altre, e i risultati che queste metodologie hanno prodotto in passato e non abbia deciso quali devono essere gli obiettivi dell' intervento da compiere". "La questione è infatti talmente importante - osserva ancora lo studioso - che richiede ancora ulteriori valutazioni in una atmosfera di trasparenza totale, indipendentemente dalle celebrazioni per il cinquecentesimo anniversario della presentazione del David al pubblico, previste a Firenze il prossimo anno". La pulitura del capolavoro di Michelangelo è cominciata lo scorso settembre, dopo ben 11 anni di esami diagnostici ed è stata sospesa a marzo perchè i numerosi visitatori del museo (circa 3mila al giorno) avrebbero reso troppo complesse le operazioni che si svolgevano sul cantiere mobile.

  6. #96
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    Nooo...errore madornale Donatello al posto di Michelangelo

 

 
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