Perché l'America perderà

La vittoria sull'Iraq sarà facile, ma non la successiva amministrazione militare.
Notizie e analisi tratte dalla rivista della Scuola di guerra dell'esercito Usa


Aleksandr Minak

Gli Stati Uniti? "Votati alla sconfitta", prevede John Gentry. Ex maggiore delle Forze Speciali con esperienze operative in Bosnia e nelle Filippine, Gentry non è un pacifista. Ed è riuscito a far pubblicare il suo articolo ferocemente critico delle forze armate Usa ("Votati alla sconfitta: la cieca fiducia americana nella tecnologia militare") su Parameters: che non è una rivista anti-americana, essendo il quadrimestrale della Scuola di Guerra dell'Us Army. E' un segnale significativo. Al contrario dei civili guerrafondai, tutti ex dirigenti delle industrie private dell'armamento (Rumsfeld, Wolfowitz, Perle) che comandano al Pentagono, i professionisti della guerra vogliono far sapere che l'America non ha i mezzi militari per sostenere le sue mire imperiali.

La vittoria sull'Iraq sarà facile. Non così, dicono gli esperti, la seguente necessaria amministrazione militare, ossia l'occupazione. I falchi, ottimisti, credono che basteranno 50mila uomini per un anno a portare «la democrazia in Iraq». Più realisticamente, le forze armate britanniche sono state avvertite di prepararsi a un'occupazione almeno triennale. Eliminato Saddam che tiene unito con la sua mano di ferro un Paese pullulante di frazioni etniche e religiose, per i servizi inglesi sono da prevedere «conflitti civili simultanei in tutto l'Irak». L'occupazione non sarà pacifica né incontrastata. Ci sono gli uomini sufficienti per la riabilitazione delle infrastrutture, l'amministrazione civile, la polizia militare e insieme probabili conflitti urbani a bassa intensità, ossia per affrontare i compiti di un'occupazione di lunga durata?

Tanto più se «dopo l'Irak toccherà all'Iran e alla Siria», come ha proclamato il viceministro della Difesa John Bolton (un altro dei falchi) alla fine di un colloquio con Sharon a metà febbraio scorso. La prospettiva dà i brividi allo Stato Maggiore, che ha lasciato filtrare le sue ansie a Jason Vest, il giornalista di The Nation con i migliori contatti nell'ambiente militare.

Chi occuperà il paese?

Già nell'agosto 2002, ha rivelato Vest, una conferenza interna all'Us Army segnalava che i due terzi delle Forze Speciali sono già sparse in impieghi bellici in 85 Paesi, e questo sia detto per le truppe di elites. Quanto alla fanteria non d'elite, necessaria per un'occupazione di lunga durata, la forza attuale è più che dimezzata rispetto ai tempi del Vietnam. «Molte delle specialità e servizi essenziali a vincere la guerra globale contro il terrorismo sono sotto organico…il ritmo di accresciuto spiegamento richiesto dopo l'11 settembre non può essere sostenuto con le attuali strutture».

Lingua di legno bisognosa di traduzione. A tradurla per Jason Vest è Mark Lewis (non un pacifista: è un ex ufficiale dei Rangers): «L'esercito americano manca di migliaia di capitani», esemplifica Lewis, cioè degli ufficiali del grado più cruciale. «I capitani sono i comandanti più vicini alla truppa in caserma, nell'addestramento e nel combattimento. Ebbene, il numero di capitani che hanno lasciato l'Us Army è raddoppiato fra il 1995 e il 2001».

Perché? Lewis accusa le riforme delle carriere militari. «Rimodellate su modelli efficientisti di gestione del personale proprie alle imprese private, hanno creato una situazione che scoraggia gli ufficiali a passare più tempo coi soldati, mentre li incentiva a partecipare ai più diversi "corsi di specializzazione", che fanno punteggio per la carriera». Lo conferma un rapporto del 2002 stilato non da pacifisti ma dalla Rand, l'istituto di studi strategici vicino al complesso militare-industriale: nell'ultimo decennio, per i nuovi ufficiali, il tempo di addestramento sul campo s'è ridotto della metà.

I politici falchi che comandano sul Pentagono hanno annunciato la loro soluzione al problema della scarsità dei quadri: sarà accelerata la promozione dei tenenti a capitani. Ciò equivale, commenta Donald Vandergriff, a «gettare ufficiali non abbastanza sperimentati in situazioni dove possono essere soverchiati dagli eventi» bellici. Nemmeno Vandergriff è un pacifista: ha il grado di maggiore ed ha scritto un saggio dal titolo Path to Victory, per denunciare l'addestramento manchevole delle truppe di terra americane.

Il suo timore è ben fondato, Anche la Military Review (non una rivista anti-americana bensì la pubblicazione ufficiale dell'Army Command) ha rivisitato la sfortunata "Operazione Anaconda" del marzo scorso in Afghanistan. Dove truppe «mal equipaggiate e non addestrate specificamente» per la guerra di montagna sono state mandate su cime di tremila metri contro le residue forze di Al-Qaeda e talebane. Lungi dall'essere schiacciati dalla presunta superiorità americana, i guerriglieri islamici sotto attacco sono stati capaci di riorganizzarsi, rinforzare le posizioni e poi di "scomparire" in una ritirata magistrale senza gravi perdite.

I comandi supremi credettero di poter compensare alla scarsa qualità della fanteria Usa con le meraviglie della tecnologia militare venduta a caro prezzo al Pentagono dalle industrie di armamento. I commandos a terra dovevano semplicemente "illuminare" le posizioni nemiche con puntatori al laser o agli infrarossi, sì da guidare le bombe "intelligenti" lanciate dall'aviazione. In realtà, come assevera un rapporto dell'Istituto di Studi Strategici della Scuola di Guerra di Fanteria (Us Army War College), «più di metà delle posizioni del nemico sono sfuggite alla sorveglianza elettronica dal cielo». La guerra non è un videogioco, specie sul terreno afghano «estremamente complesso e ricco di ripari naturali». Inoltre, anche quando le posizioni avversarie erano identificate, le munizioni «a guida di precisione» (Pgm) lanciate contro di essere hanno mancato di distruggerle. Le Pgm si sono mostrate «efficacemente letali» contro gruppi sorpresi allo scoperto o ammassati, ma inefficaci contro «posizioni di combattimento ben preparate». In generale, «Al-Qaeda è sopravvissuta a numerosi attacchi di bombe intelligenti».

Bombe intelligenti, soldati no

Somalia 1993, Black Hawk Down: armatissimi commandos americani trasportati da elicotteri dotati delle più avanzate tecnologie (Black Hawk) vengono sorpresi, sopraffatti e massacrati. Le comunicazioni fra i guerriglieri somali non erano state intercettate dai sofisticati apparecchi Usa perché a bassissima tecnologia: telefonini o scritte sui muri in lingua ahmara. Serbia 1999: l'antiquato esercito serbo esce intatto da settimane di bombardamenti aerei della Nato. Le bombe intelligenti hanno colpito per lo più dei "decoy", sagome di carri armati di cartone e stagnola approntati dai serbi per ingannare i piloti americani e i loro strumenti.

Guerra del Golfo, 1991: è andata meglio. Ma in condizioni militarmente "anormali": gli Usa hanno potuto ammassare forze per sei mesi senza essere contrastati, avevano di fronte un esercito iracheno "demoralizzato" e hanno potuto attaccare quando è piaciuto loro. E nel piatto deserto, il solo ambiente «veramente adatto all'uso di munizioni di precisione», ossia di bombe intelligenti.

Lo ha ricordato ancora su Parameters l'ex maggiore John Gentry: «La cieca fiducia americana nella tecnologia militare» è «votata al fallimento» (doomed to fail). Nelle future guerre contro il terrorismo, come s'è già visto in Afghanistan, la potenza americana può rivelare tutte le sue falle esponendosi a sorprese amarissime.

I prossimi conflitti infatti, dice Gentry, saranno «operazioni complesse civili-militari», in ambienti umani «nient'affatto semplici dal punto di vista culturale e politico». A vincere queste operazioni, «la tecnologia contribuisce sostanzialmente nulla. Non ci sono sensori elettronici che possano identificare le motivazioni dei popoli, i sentimenti degli occupati, né valutare la tenuta di organizzazioni umane» etnicamente o religiosamente coese. Niente può sostituire «l'adeguata conoscenza previa e la comprensione dell'ambiente umano» da parte delle truppe di terra.

Il ruolo dell'outsourcing

Il fatto è che il Pentagono non solo manca di queste competenze, ma positivamente nutre "il disdegno" per questo tipo di comprensione dei popoli che si prepara ad amministrare. A dirlo non è un anti-americano: è Robert Barry, il diplomatico statunitense che ha guidato la missione Osce in Bosnia dal '98 al 2001, e dunque ha chiara coscienza delle difficoltà di un'occupazione. In Bosnia, dice Barry, «dopo sei anni di presenza americana e 100 miliardi di dollari spesi, pace e prosperità sono ancora lontane». In Bosnia, là dove i soldati tedeschi, olandesi e italiani sono visti dalla popolazione come gente che dà una mano, nelle aree sotto controllo Usa i soldati americani sono detestati. Secondo un alto ufficiale inglese, «trattano i nativi come pellerossa, e la popolazione come composta di banditi».

Barry dunque si preoccupa per la futura occupazione dell'Iraq, «non vedo segni di una seria preparazione a questo compito», dice. Anch'egli è sicuro che la truppa americana e britannica non sia sufficiente, né in numero né in qualità, per sostenere un'occupazione durevole.

Donald Rumsfeld, il ministro della Difesa che viene dall'industria militare, ha una soluzione tipicamente manageriale e privatistica per queste lacune dell'esercito di Stato: l'outsourcing. Appaltare quanti più possibili compiti militari alle "ditte militari private" (Private Military Corporations, Pmc) sorte come funghi negli Stati Uniti. Si tratta di organizzazioni di mercenari, create da generali e colonnelli a riposo, e che strappano lucrosi contratti per operazioni speciali o "coperte". La più importante, la Military Professional Resources, è fondata dal generale Carl Vuono, già capo di S. M. durante la guerra del Golfo e dal suo ex vice, generale a riposo Ron Griffith. Nel '94, ha avuto dal governo Usa un contratto per addestrare le truppe croate, le quali hanno poi strappato la regione detta Krajna alla Serbia. Oggi, i cinquemila "volontari irakeni" che parteciperanno alla guerra contro Saddam sono addestrati (in Ungheria) dalla Kellog, Brown & Root, azienda di guerrieri a noleggio che - fatto significativo - è una sussidiaria della Halliburton, il gigante petrolifero di cui è stato presidente Dick Cheney prima di diventare vicepresidente degli Stati Uniti (le petrolifere si sono dotate di loro "servizi armati" per la difesa degli impianti in Paesi difficili). Un'altra, la DynCorp, ha strappato l'appalto per condurre, in vece dell'esercito Usa, la "guerra alla coca" in Colombia, con aerei ed elicotteri armati; ed ora è la DynCorp che fornisce la sicurezza personale a Karzai, il presidente-fantoccio che gli americani hanno dato all'Afghanistan. Le varie "ditte private" americane possono mobilitare, nell'insieme, almeno 35 mila specialisti" per operazioni di ogni genere, in segreto, senza preavviso - e senza controllo democratico. Per questo Rumsfeld le preferisce. Si calcola che, delle truppe americane usate in Desert Storm, il 10 per cento fossero in realtà civili in armi, dipendenti di queste ditte.

Ma c'è chi autorevolmente dubita che mercenari motivati dal lucro siano alla pari dei compiti di "nation-building" (ricostruzione della vita civile) per cui saranno impiegate in Irak. In Bosnia, la DynCorp è riuscita a malapena a soffocare uno scandalo: i suoi guerrieri avevano organizzato un traffico di donne. In Colombia, anche peggio: dipendenti della ditta avevano messo su per conto loro un commercio di cocaina. Il loro impiego suscita in ogni caso inquietanti interrogativi non solo etici, o politici, ma legali. Queste forze non sono tenute alla disciplina militare e sono irresponsabili rispetto alla "catena di comando" dell'Army. Inoltre: che si fa se uno di questi guerrieri privati - giuridicamente un civile - viene catturato con le armi in pugno dal nemico? Non si possono invocare a suo favore le convenzioni riguardanti i prigionieri di guerra; per queste convenzioni, sono partigiani illegittimi, passibili di esecuzione immediata.

Quanto alle loro reali capacità belliche se le cose si mettono male, è tutta da dimostrare. Il generale John Shalikashvili, che guidò lo Stato Maggiore Riunito durante Desert Storm, ha ammonito che la professione della guerra, quella vera, non potrà mai essere trattata come una qualunque "produzione di servizi di sicurezza", come quella fornita dalle guardie giurate, e dunque appaltabile a privati. La guerra vera, ha detto Shalikashvili, «esige dai militari dedizione straordinaria e sacrificio nelle condizioni più avverse»: ossia l'accettazione, in via di principio, della morte per obbedienza agli ordini. Qualcosa che esula completamente dal business.

Il colonnello Charles Dunlap, un geniale intellettuale militare, ha detto anche di più in un saggio (che è anche un racconto di fantapolitica) pubblicato non da un giornale pacifista, ma a cura dell'Usaf Institute for National Security Studies. Dunlap immagina che, in un prossimo futuro, un Pentagono sempre più interessato a business, politica e dominato da idee manageriali tipo "Qualità Totale", finirà per appaltare «le sgradevoli e pericolose attività della guerra, necessarie ma sporche» a una ditta privata, la Vaic (Violence Applications International Corporation). Mercenari pagati come dipendenti dai generali a riposo che hanno fondato la ditta.

Nel 2010, scoppia la seconda Guerra del Golfo: guerra vera. «E quando il Decimo Corpo Corazzato Iraniano cominciò la sua leggendaria avanzata schiacciando ogni cosa davanti a sé, i dipendenti della Vaic vennero meno al contratto e si dispersero. La lealtà aziendale, apparentemente, ha i suoi limiti», ironizza Dunlap. Due anni dopo però, prosegue il suo racconto fantapolitico, quei mercenari, assunti dai politicanti del Pentagono, sono la forza operativa che conduce a termine un colpo di Stato "militare". L'America ha perso la sua libertà.

La profezia e l'apologo attendono di realizzarsi nelle prossime guerre "contro il terrorismo"? L'ammonimento almeno è chiaro: le ditte di mercenari nate in Usa e alimentate dai "contratti" con la Difesa sono un pericolo potenzialmente putchista. Anzi forse, qui, la profezia si è già avverata: la democrazia in America non sembra più tanto viva.

Liberazione 28 febbraio 2003

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