No al progetto di legge delega sulle pensioni

Alfonso Gianni

Noi di Rifondazione comunista siamo risolutamente contrari al disegno di legge di delega sulle pensioni che il governo ha presentato ieri. A nostro avviso, siamo di fronte intanto ad una palese incostituzionalità, benché la Camera non l'abbia riconosciuta: manca una copertura finanziaria e quindi è violato l'articolo 81 della Costituzione.

Ma ancor più siamo contrari per motivi di contenuto. Quali sono gli obiettivi del disegno di legge? Non certo quelli di salvaguardare l'equilibrio del sistema previdenziale. Su questo problema sono già intervenuti, negli anni novanta, pesanti aggiustamenti strutturali. Ma non v'è dubbio che, tra il 1992, il 1995 e il 1997, si sono realizzati tre interventi corposi, in base ai quali si può dire che, ragionevolmente, come confermano anche i centri studi europei, nel 2050 la spesa pensionistica sarà pari al 13% del prodotto interno lordo. Quindi, siamo al di sotto dei valori della fine degli anni novanta del secolo scorso, malgrado che l'aumento dell'indice di dipendenza degli anziani dai giovani sarà molto più alto - e vivaddio, visto che si allunga la vita delle persone - e che i tassi di sostituzione, vale a dire il valore concreto delle pensioni, scenderanno a valori che oscilleranno attorno al 50 per cento per i lavoratori dipendenti e al 30 per cento per i cosiddetti lavoratori autonomi.

Se, quindi, la preoccupazione fosse l'equilibrio del sistema, questa sarebbe già stata risolta dagli interventi che contrastammo per il loro carattere non socialmente equo negli anni novanta. In più, il sottosegretario Brambilla - che, con scarsa cortesia, il ministro Maroni ha detto aver effettuato uno studio a soli scopi privati - ci dimostra che, scorporando assistenza da previdenza, il peso della spesa per quest'ultima scende ancora all'11,6 per cento del prodotto interno lordo.

L'obiettivo, allora, è un altro. Ed è semplice capire quale sia: infilare il nostro paese nella grande corrente della globalizzazione e della finanziarizzazione e aprire la strada alla previdenza privata, attraverso un abbassamento del valore delle pensioni pubbliche, tale da costringere i cittadini, con grandi sacrifici, ad accendere assicurazioni private.

Lo dimostrano due aspetti di cui abbiamo già discusso. La decontribuzione è il grimaldello con cui si accelera il passaggio dal pubblico al privato. Essa non risponde a criteri oggettivi. Vorrei ricordare che il costo del lavoro per unità di prodotto, in Italia, in base alle statistiche europee, è il più basso d'Europa. Anche considerando il cuneo fiscale, che certamente nel nostro paese non è insensibile, la Francia e la Germania - parliamo di due economie competitive su scala mondiale - vedono un costo ancora maggiore.

Quindi, non è il presunto carattere elevato del costo del lavoro la scusa. La realtà è che qui siamo di fronte ad un processo di svuotamento dell'istituto pubblico previdenziale. Si mette a repentaglio l'erario dello Stato perché si diminuiscono le entrate e, quindi, aumentano i costi. Inoltre, soprattutto per i giovani, ci sarà un'ulteriore diminuzione della pensione, ossia un'ulteriore diminuzione del rapporto tra pensione e ultima retribuzione conosciuta.

L'altro elemento è l'introduzione del trattamento di fine rapporto, che è salario differito, all'interno di sistemi a capitalizzazione, vale a dire i famosi fondi pensione. Già un premio Nobel dell'economia come Stiglitz ha dimostrato teoricamente l'inconsistenza della tesi della superiorità del sistema a capitalizzazione. Ma al di là di Stiglitz e di altri valenti economisti, vi sono i dati che indicano che nell'ultimo triennio 2000-2003 i fondi pensione hanno perso nel mondo un valore pari al 20 per cento, mentre i dati italiani ci dicono che nei primi 9 mesi del 2002 i fondi chiusi hanno perso il 7,7 per cento e i fondi aperti hanno perso il 14,1 per cento. Questo sistema espone le pensioni a un rischio, perché le consegna al carattere volubile dei mercati finanziari internazionali.

Dunque, le pensioni di tutte le italiane e di tutti gli italiani, sono a rischio. Lo sono soprattutto per quella categoria di lavoratori atipici che hanno maggiori difficoltà e che dopo 35 anni di retribuzione arriveranno a valori di pensione inferiori al 30 per cento, ma lo sono anche per le antiche categorie cosiddette forti e tradizionali, del lavoro dipendente. Lo sono per tutti perché questo governo, avendo scelto di trasformare l'Italia in una struttura di servizio dei processi di globalizzazione e di finanziarizzazione, ha deciso di fare della previdenza un "prato verde", non nel senso ecologico, ma nel senso in cui usano questo termine gli economisti, ossia un luogo favorevole per gli investimenti delle multinazionali finanziarie. In questo consiste l'idea e la pratica dello smantellamento dello stato sociale ed è per questo motivo che ribadiamo con forza la nostra opposizione a questo progetto di legge delega.

Liberazione 28 febbraio 2003

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