Nel Vangelo di Matteo, leggiamo che quando i suoi avversari cercarono di
prendere in castagna Gesù su questioni legate alle tasse, rispose "date a
Cesare quello che è di Cesare - e a Dio quello che è di Dio".
Quando va in guerra l'Australia lo decide il nostro governo, eletto
democraticamente, ed è una delle sue responsabilità più gravi.
Le decisioni sulla guerra appartengono a Cesare, non alla Chiesa.
I cristiani quali ottiche possono offrire a Cesare?
Il Vangelo sottolinea l'amore, il perdono dei nemici e la benedizione
speciale per i portatori di pace.
Ma riconosce anche la legittimità dell'autorità politica e il dovere di
reprimere i malfattori.
Qui ci sono delle tensioni reali.
Molti esponenti della minoranza cristiana perseguitata nell'Impero romano pagano erano pacifisti, una posizione più facile da sostenere quando c'erano gli eserciti pagani a difendere i confini e a mantenere l'ordine interno.
La posizione dei cristiani allora era come quella di quegli australiani di
oggi che sono invariabilmente anti-americani, mentre beneficiano della pace
americana conseguita negli ultimi 60 anni.
Un mondo senza la superpotenza americana sarebbe molto più costoso e
pericoloso per gli australiani.
La teoria di una guerra giusta, definita per la prima volta da
Sant'Agostino, nell'Africa del Nord nel V secolo, è stata da allora
continuamente in divenire, e ha visto i politici e gli intellettuali delle
forze armate, a volte anche di più dei teologi, alle prese con la
fondamentale esigenza agostiniana che perché una guerra sia giusta essa debba avere un motivo giusto, un'autorità legittima e una retta intenzione.
Oggi, la teoria della guerra giusta cerca quali siano le attività
legittime in tempo di guerra, insieme ai criteri necessari per fare la
guerra, e in questa categoria spuntano spesso altre tre pre-condizioni.
La guerra dovrebbe essere
- l'estrema ratio,
- avere una probabilità di riuscire e
- non dovrebbe produrre mali ancora peggiori.
Nel 1994 il catechismo della Chiesa cattolica limitò l'uso legittimo della
forza militare al caso di difesa contro un'aggressione.
Non comprendeva la possibilità di un intervento militare contro la pulizia
etnica, il terrorismo e la guerriglia urbana (1).
Adesso l'esigenza di impedire l'accesso delle reti terroristiche alle armi
di distruzione di massa prodotte dagli stati canaglia costituisce una sfida
significativa e prudenziale.
Gli Stati Uniti, il Regno Unito e l'Australia hanno fornito una causa
sufficiente per condurre una guerra giusta, alla luce di una simile lista
aggiornata di criteri?
Ancora no.
I nostri governanti non ci hanno ancora dato prove chiare di armi irachene di distruzione di massa e dei collegamenti con i terroristi (2).
Il Presidente Bush sta minacciando un attacco preventivo da parte degli
alleati, con o senza l'approvazione dell'ONU, per prevenire possibili
attacchi futuri causati o assistiti dall'Iraq (3).
Un attacco unilaterale preventivo, senza approvazione internazionale,
sarebbe una spada a doppio taglio, una dottrina pericolosa, destabilizzante
dell'ordine internazionale.
Ci dicono che l'inattività potrebbe essere ancora più pericolosa, ma per
dire se questo sia vero servono prove più chiare.
È dal 1837 che è consuetudine degli Stati Uniti opporsi agli attacchi
preventivi.
In quella data gli inglesi catturarono la nave americana Carolina e la
buttarono giù per le cascate del Niagara, perché la ritenevano una minaccia
agli interessi britannici per aver dato sostegno ai ribelli canadesi.
Daniel Webster, all'epoca Segretario di Stato degli Stati Uniti, affermò
che azioni preventive si potevano giustificare solo quando c'era "una
schiacciante necessità di auto-difesa all'istante, che non lasciava scelta
quanto a mezzi né dava tempo per deliberare".
Erano tempi più semplici.
Molti di noi ricordano le fotografie dei silos dei missili sovietici
durante la crisi cubana del 1962.
Bisognerebbe avere prove di questo tipo, per dimostrare che l'Iraq sta
aiutando i terroristi musulmani, che sta producendo e ammassando armi di
distruzione di massa, che non è disarmata.
Le prove che Colin Powell produrrà al Consiglio di sicurezza questa
settimana saranno cruciali.
Saddam Hussein è tiranno del suo popolo, oppressore della minoranza curda, ha usato armi di distruzione di massa contro l'Iran e contro i curdi.
Ha sfidato per 12 anni le condizioni dell'ONU per la pace, che esigevano
il suo disarmo.
Si dice che Hussein finanzi i kamikaze palestinesi, e che fino a poco
tempo fa finanziasse il gruppo terrorista di Abu Nidal.
Un ramo di Al Qaeda sta combattendo una guerriglia contro i nemici di
Hussein, i curdi, nel nord dell'Iraq.
Gli esperti insistono che ci sono molte altre prove.
Bisognerebbe che queste prove fossero rese disponibili, e a sufficienza.
Un altro criterio importante per una guerra giusta è che non si facciano
male i civili non combattenti.
In questo campo il XX secolo ha registrato un deterioramento terribile.
Nella prima guerra mondiale le vittime civili furono il 5 percento del
totale e nella seconda guerra mondiale furono il 50 per cento.
In Vietnam, le vittime civili aumentarono ancora e arrivarono al 60/70 per cento.
Un imperativo fondamentale per gli alleati deve essere quello di evitare
le vittime civili in Iraq.
Il giusto processo è sempre importante nei tribunali australiani e a
livello internazionale.
Ciò comporta la necessità di lavorare attraverso l'ONU, uno strumento
imperfetto per interessi nationali contrastanti, in cui si trovano molte
nazioni che hanno un brutto profilo nel campo dei diritti umani.
Ma l'ONU è l'unico strumento che abbiamo.
Importanti Paesi democratici come la Francia e la Germania rimangono
perplessi, nonostante il fatto che Hussein abbia sfidato 17 risoluzioni
dell'ONU e che sia ancora valida la risoluzione 678 del 1990 che autorizza
l'uso della forza militare.
L'11 settembre e Bali costituiscono dei ricordi gravi.
Se il sostegno internazionale non può determinare la moralità
dell'invasione dell'Irak, l'autorità morale legittima è uno dei criteri per
una guerra giusta.
Abbiamo bisogno che siano rese pubbliche altre prove che dimostrino che la causa alleata è giusta e per ottenere il sostegno del Consiglio di Sicurezza.
Anche le persone di buona volontà che concordano sui criteri della guerra
giusta a volte si divideranno nelle conclusioni pratiche.
I governi decidono ma i cittadini dovrebbero poter discutere della
moralità delle loro decisioni.
Secondo me, è moralmente giustificabile che la marina australiana
contribuisca a rafforzare l'embargo all'Iraq e che le truppe australiane
facciano pressioni sul dittatore iracheno perché ottemperi alle condizioni
dell'ONU per la pace, che aveva accettato nel 1991.
Queste sono attività onorevoli.
Ma le prove rese pubbliche finora sono insufficienti per giustificare
l'entrata in guerra, particolarmente se non c'è il sostegno del Consiglio di
Sicurezza dell'ONU.
+ Mons. George PELL
ROMAN CATHOLIC ARCHBISHOP OF SYDNEY
http://www.sydney.catholic.org.au/
Da "The Australian", Sydney, 4 febbraio, 2003, ripubblicato con permesso,
da Zenit, 8 febbraio, 2003
[Traduzione cortesemente offerta da A. Nucci]
NOTE
(1) In merito all'intervento bellico di nuovo tipo e a fini umanitari nella ex Jugoslavia, cosi' si e' espresso Papa Giovanni Paolo II: "La pace è un fondamentale diritto di ogni uomo, che va continuamente promosso, tenendo conto che 'gli uomini in quanto peccatori sono e saranno sempre sotto la minaccia della guerra fino alla venuta del Cristo' (Lumen gentium, 78). Talora questo compito, come l'esperienza anche recente ha dimostrato,
comporta iniziative concrete per disarmare l'aggressore. Intendo qui riferirmi alla cosiddetta 'ingerenza umanitaria', che rappresenta, dopo il fallimento degli sforzi della politica e degli strumenti di difesa non violenti, l'estremo tentativo a cui ricorrere per arrestare la mano dell'ingiusto aggressore" (NDR).
(2) L'arcivescovo di Sidney ha scritto questo articolo prima che il
ministro nordamericano Colin Powell avesse mostrato al mondo le prove della
presenza di armi di distruzioni di massa chimico - batteriologiche (NDR).
(3) Si tratta di una situazione analoga a quella della cosiddetta «guerra
dei Sei giorni» nel 1967, in cui Israele attaccò i Paesi arabi per prevenire
una aggressione egiziana