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    Hanno assassinato Calipari
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    Predefinito Il referendum sull'Art 18. Perchè è importante votare Sì.

    1. Premessa

    Il referendum nel contesto sociale

    Il referendum per l’estensione dell’articolo 18 dello statuto dei diritti dei lavoratori (obbligo della riassunzione in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo) va inserito dentro il conflitto sociale, anzi ne rappresenta un primo sbocco politico concreto.
    Il referendum è una risposta in avanti allo straordinario movimento di lotta che è sceso in campo contro la pretesa di governo e Confindustria di peggiorare le norme di tutela dei licenziamenti e, al tempo stesso, indica una risposta più complessiva alla crisi sociale che stiamo vivendo. La proposta è, in sostanza, che i diritti sociali si difendono estendendoli a tutte e a tutti; che è possibile passare, dalla difesa delle conquiste dei decenni passati dall’incalzare arrembante delle politiche neoliberiste, all’offensiva, cercando di riunificate quelle realtà del mondo del lavoro e quei soggetti sociali che in questi anni sono stati divisi, disarticolati o addirittura contrapposti.
    Ci sono, a volte, passaggi decisivi che segnano il cambio di fase e vi sono battaglie che assumono un enorme valore simbolico proprio perché identificano quel momento di svolta.
    Il referendum per l’estensione dell’articolo 18 ha, quindi, un grande significato : può divenire elemento catalizzatore di una nuova stagione politica.
    Per questo, il referendum riguarda i diritti dei lavoratori, ma assieme a quelli, parla di una nuova stagione di diritti sociali. In un recente dossier sulla legge finanziaria, abbiamo analizzato compiutamente i dati della sofferenza sociale e la critica alle politiche neoliberiste imposte dal governo delle destre. Ricapitoliamo qui, sommariamente, quelle valutazioni, rimandando a quel lavoro gli elementi di approfondimento.

    L’ Italia: un Paese che si sta impoverendo


    Stiamo vivendo un significativo impoverimento della popolazione del nostro Paese, un impoverimento non neutro socialmente (colpisce, in particolare, i redditi popolari da lavoro dipendente e da pensione, aggravando le già violente discriminazioni, di genere, di nazionalità, di condizioni particolari legate all'età, alle infermità, alle disabilità) e non neutro geograficamente (si insedia con particolare asprezza nel sud e acuisce le differenze tra le diverse aree del Paese).
    L’evidenza di questo fenomeno è tale che ormai neanche i dati ufficiali degli Istituti di ricerca riescono a nasconderla.
    Quasi 2 milioni e 700 mila famiglie vivono al di sotto del limite di povertà, pari a quasi 8 milioni di persone.
    Di queste, il 66 % vivono nel Meridione, con una marcata tendenza all’acuirsi delle distanze tra il centro nord e il sud del Paese (fonte ISTAT: La povertà in Italia nel 2001).


    Verso la recessione economica

    L’economia italiana, al pari di quella internazionale, è entrata in una fase di stagnazione che minaccia di trasformarsi in aperta recessione.
    Nel corso del primo semestre di quest’anno la crescita economica è stata pari a zero. Le previsioni (ottimistiche) ipotizzano una crescita annua per il 2002 dello 0,4%-0,6%.
    Causa principale del forte rallentamento economico è il basso livello dei consumi delle famiglie, a cui fa seguito una dinamica negativa degli investimenti delle imprese.
    Le esportazioni sono in calo per la debole domanda estera. Siamo ad un passo da una crisi economica profonda e duratura.
    E’ questo il risultato di un decennio di politiche neoliberiste. In tutta l’area dell’euro il tasso di disoccupazione è tornato a salire (8,3% ad agosto, + 0,3% rispetto all’anno precedente).
    In Italia la situazione è ancora peggiore con un tasso di disoccupazione pari all’8,7%, concentrato in particolare nel Mezzogiorno (17,9%) e tra i giovani tra i 15 e i 24 anni (26,1% in Italia, addirittura 49% nel Sud). Il Governo Berlusconi è stato colto completamente impreparato dal peggioramento dell’economia. L’anno scorso il Governo prevedeva una crescita addirittura del 3% per il 2002 e fino al luglio scorso le stime governative indicavano una crescita più che doppia (1,3%) rispetto a quella reale.

    I prezzi tornano a salire…

    Sul fronte dei prezzi, la crescita segnalata dai dati ISTAT descrive una tendenza che, nella realtà, è assai più marcata, come dimostra l’esperienza reale di milioni di famiglie di lavoratori e pensionati. La polemica, rilanciata da tutte le associazioni dei consumatori, riguarda la composizione del paniere sulla cui base l’ISTAT rileva le variazioni dei prezzi e la diversa incidenza sociale e territoriale che gli aumenti hanno in relazione ai livelli di reddito familiare (in particolare a causa del peso maggiore che hanno determinati generi di consumo, quali l’alimentazione e la casa, per le fasce di redditi bassi).

    …e i salari e le pensioni rimangono al palo

    Negli ultimi dieci anni il valore reale delle retribuzioni nette è diminuito di oltre il 5%, mentre la produttività del lavoro (cioè la ricchezza prodotta da ogni lavoratore) aumentava in media del 2% all’anno (dati Banca d’Italia). Ad appropriarsi della nuova ricchezza prodotta sono stati esclusivamente il profitto e la rendita. Infatti, negli ultimi 20 anni, la quota del monte salari sul PIL diminuisce di quasi il 10% (dati Eurostat) e raggiunge i livelli degli anni 50. E’ stato questo il frutto perverso per i lavoratori e per i pensionati dell’abolizione della scala mobile. Fissando un tasso di inflazione programmata falso (pari all’1,4% nel 2003, contro un’inflazione reale attuale del 2,7%), a cui dovranno adeguarsi le dinamiche contrattuali, il Governo continua a ridurre il potere d’acquisto dei lavoratori e dei pensionati.
    Per il Mezzogiorno la situazione è ancora peggiore. Tra il 1989 e il 1998, le differenze nelle retribuzioni nette tra il centro nord e il sud passa dal 2% a quasi il 15%, l’incidenza dei bassi salari sul monte retribuzioni è cresciuta in tutto il Paese, ma in particolare nel Sud: si passa dall’8% omogeneo sull’intero territorio nazionale nel 1989 al 14% nel centro nord e al 28% nel Mezzogiorno alla fine degli anni 90 (Indagine di Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane).

    In Europa: moneta e prezzi uguali, salari diversi

    Le differenze salariali tra il nostro Paese e i principali Paesi europei sono molto grandi e sono divenute evidentissime dopo l’entrata in vigore dell’euro, testimoniando una acuta differenza di potere di acquisto dei salari.
    Ormai, come dicono i dati sopra indicati, abbiamo prezzi omogenei a quelli dei principali Paesi europei mentre i nostri salari sono inferiori di circa un terzo.

    La politica industriale

    Si ripropone nel nostro Paese una grave situazione occupazionale che la propaganda del governo ormai non riesce a nascondere. Aumenta solo la precarietà del lavoro (gli incrementi dell’occupazione segnalano questa tipologia di assunzioni temporanee, attraverso le varie forme di precarietà introdotte in questi anni). Diminuisce, invece, il “lavoro buono”, quello stabile.
    Il caso FIAT mette in luce l’ assenza di una politica industriale nel nostro Paese, che non sia quella di favorire la finanziarizzazione dei capitali, le privatizzazioni delle industrie e dei servizi pubblici, i progetti di grandi opere inutili se non dannose per la vita sociale e per l’ambiente, la facilitazione per l’ingresso dei capitali delle multinazionali.

    La legge finanziaria

    La legge finanziaria aggrava ulteriormente tutti i dati della crisi: è una finanziaria che ha tagliato lo stato sociale direttamente (attraverso i tagli alla sanità e alla scuola) e indirettamente (attraverso i tagli alle regioni e agli enti locali), è una finanziaria che ha finto di dare qualcosa con la riduzione dell’IRPEF (aumenti ridicoli per i redditi più bassi, rimangiati con gli interessi dall’aumento dei prezzi, dai tagli allo stato sociale, dalla riduzione del potere di acquisto dei salari e delle pensioni) e ha dato largamente alle imprese con risorse a fondo perduto e con i condoni, è una finanziaria immorale e che ha avvantaggiato gli speculatori e chi ha imbrogliato, attraverso il varo del condono fiscale “tombale” e delle altre sanatorie (a partire da chi la illegalmente esportato i capitali all’estero), è una finanziaria recessiva perché non ha previsto alcun intervento in favore dell’occupazione e non ha proposto minimamente, a partire dalla vicenda emblematica della FIAT, alcun ruolo dell’intervento pubblico.

    Ma gli italiani non ci stanno

    Una recente indagine del CNEL “L’agenda degli italiani 2002”, i cui dati sono stati anticipati lo scorso 20 gennaio, getta una luce assai interessante sulle reali opinioni degli italiani in merito agli interventi necessari nelle politiche economiche e sociali. Esce uno spaccato del “Paese reale” assai diverso da quello rappresentato dal cosiddetto “Paese legale”.
    Dai dati del CNEL, emerge come la principale preoccupazione degli italiani sia il lavoro, che aumenta l’opposizione a una maggiore flessibilità delle imprese di licenziare o assumere (si passa dal 45% del 2001 al 52% nel 2002), mentre i favorevoli scendono dal 39% al 32%. Il 52% degli intervistati sono convinti che lo Stato debba garantire il lavoro mentre solo il 37% pensano che le imprese debbano essere libere di operare. Ben il 63% dei cittadini, ritiene che non si debba intervenire con modifiche sul sistema previdenziale e il 65% sono per il mantenimento della gestione pubblica della sanità contro le ipotesi di privatizzazione. Sulle dismissioni pubbliche e le privatizzazioni, i fautori sono appena il 16% e i contrari ben il 71%.
    Possiamo, così, comprendere come il senso profondo del referendum (l’estensione dei diritti del lavoro e di quelli sociali) vada incontro a un vero e proprio sentimento popolare. Dentro quel sentimento profondo, dobbiamo calare le nostre iniziative per il referendum.


    2. Lo statuto dei diritti dei lavoratori

    Lo statuto dei lavoratori è il risultato degli anni di grande fermento sociale e civile che vanno sotto il nome di autunno caldo.
    Sono gli anni del conflitto e del grande protagonismo operaio e della contestazione giovanile e studentesca, gli anni dei grandi conflitti industriali nelle fabbriche, gli anni della partecipazione, della spontaneità e della radicalità. Le lotte hanno come principali protagonisti: l’operaio massa, il lavoratore dequalificato impiegato nella produzione taylor-fordista, spesso immigrato dal sud, la cui rabbia e il cui disagio sociale si incontra con l’avanguardia operaia che ha resistito agli anni 50, grazie a una travagliata rielaborazione politica e alla capacità di proporre un coraggioso dibattito interno e lo studente massa, proveniente dalle classi meno abbienti, fino a poco tempo prima escluse dall’accesso all’istruzione superiore.
    Sono gli anni dell’unità sindacale. Il primo maggio del 1970, per la prima volta dal 1948, le tre confederazioni celebrano insieme la festa dei lavoratori e preparano, dopo decenni di aspri conflitti, il processo che nel 1972 porterà all’unificazione organizzativa.
    Sono gli anni dei consigli di fabbrica. La struttura sindacale vive in questi anni un processo di profonda trasformazione da cui nascono forme di rappresentanza dirette dei lavoratori, in grado di intervenire efficacemente nella messa in discussione dei livelli di sfruttamento nel posto di lavoro.
    La Statuto dei lavoratori garantisce il rispetto delle libertà costituzionali in fabbrica, promovendo e sostenendo la piena cittadinanza del sindacato nei luoghi di lavoro.
    L’articolo 18 integra la disciplina prevista dalla legge 604 del 1966 in materia di licenziamento individuale.
    Esso prevede che il giudice, rilevando l’inefficacia di un licenziamento perché privo di giusta causa o giustificato motivo possa ordinare al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.
    Il valore principale dell’articolo 18 è nella sua funzione di contenere preventivamente un utilizzo disinvolto della procedura di licenziamento individuale da parte dei datori di lavoro. Anche se in Italia il numero dei licenziamenti individuali impugnati e conclusi con sentenza di accoglimento attraverso la reintegrazione è relativamente scarso, è evidente che l’abolizione dell’articolo 18, esporrebbe i lavoratori alla privazione delle tutele fondamentali e alla minaccia alla dignità personale.
    La tutela in materia di licenziamento rappresenta un principio di emancipazione e un valore decisivo ed è condizione essenziale per garantire il processo di sindacalizzazione nei posti di lavoro. Esso regola i rapporti di potere all’interno dell’impresa e attenua in parte lo squilibrio tra lavoratori e datori di lavoro.


    3. L’articolo 18

    In Italia non si licenzia?

    Non è assolutamente vero che in Italia non si licenzino i lavoratori. Secondo l’Istat, negli ultimi 10 anni, vi sono stati 2 milioni e mezzo di licenziamenti, con una media, quindi, di 250 mila licenziamenti all’anno. Questi licenziamenti rientrano nella stragrande maggioranza nella fattispecie dei licenziamenti collettivi, derivanti da processi di ristrutturazione aziendali.
    Va ricordato, invece, che l’articolo 18 può essere attivato esclusivamente nei casi dei licenziamenti individuali.

    Le norme sui licenziamenti

    Le norme che, nel nostro Paese, regolano i licenziamenti individuali dei lavoratori dipendenti, si differenziano a seconda della “soglia dimensionale” del datore di lavoro (il numero dei dipendenti dell’impresa), ad esclusione di situazioni assai particolari per le quali sussiste il cosiddetto regime di “libera recedibilità” (i dirigenti, i prestatori di lavoro domestico, gli sportivi professionisti, i lavoratori assunti in prova).
    La disciplina vigente distingue tra “tutela reale”, prevista dall’articolo 18 dello statuto dei diritti dei lavoratori e “tutela obbligatoria”, prevista dalla precedente normativa (la legge 604 del 1966).
    Nel primo caso (tutela reale), il datore di lavoro, nell’ipotesi di licenziamento illegittimo o ingiusto, ha l’obbligo di reintegrare il lavoratore (a meno che, quest’ultimo non preferisca farsi liquidare un’indennità sostitutiva della reintegrazione), nel secondo caso è il datore di lavoro che può scegliere tra reintegrazione e corresponsione di un’indennità, stabilita tra un minimo di 2,5 fino a un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione.
    Il primo caso (obbligo della reintegrazione - la cosiddetta “tutela reale”) si applica nei confronti dei datori di lavoro che occupino più di 15 dipendenti (ovvero 5 dipendenti per gli imprenditori agricoli) in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento.
    Il secondo caso (cosiddetta “tutela obbligatoria”), si applica per le imprese fino a 15 dipendenti nonché ai datori di lavoro non imprenditori, che svolgono attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o culto.

    A proposito di “giusta causa”o “giustificato motivo”

    L’articolo 18 parla di licenziamenti senza “giusta causa o giustificato motivo.”
    Cosa vogliono dire questi termini?
    Per giusta causa (art.2119 del codice civile), si intende il verificarsi di una causa che”non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro”. Il medesimo articolo del codice civile, stabilisce che non costituisce giusta causa il fallimento o la liquidazione dell’azienda (le due fattispecie rientrano nel concetto di “giustificato motivo”).
    La “giusta causa”, quindi, fa riferimento al ricorrere di fatti che, valutati oggettivamente e soggettivamente, sono tali da configurare una grave ed irrimediabile negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro (possono, quindi, verificarsi anche esternamente alla sfera del contratto, per esempio una condanna penale del lavoratore).
    Per giustificato motivo (art. 3 della legge 604 del 1966) si intende un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore (cosiddetto giustificato motivo soggettivo) ovvero ragioni inerenti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento della stessa, come per esempio la soppressione di un reparto o di una lavorazione (cosiddetto giustificato motivo oggettivo).
    Frequentemente, nei contratti di lavoro di categoria si è provveduto alla tipizzazione delle condotte che legittimano il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo.
    E’, comunque, sempre l’autorità giudiziaria a valutare la legittimità o la giustificazione del licenziamento, dopo aver sentito le parti in causa.

    Il valore deterrente dell’articolo 18

    Possiamo citare a tale proposito la valutazione dei giuristi della consulta giuridica della CGIL a commento della delega al governo per il mercato del lavoro. Essi parlano di triplice valenza positiva dell’articolo 18:
    tTutela della dignità e della sicurezza del lavoratore al momento in cui perde il lavoro per un motivo ingiusto. Un licenziamento arbitrario non può essere compensato con un rimborso meramente economico (in più assai modesto e tale da non poter compensare il danno del licenziamento);
    tTutela preventiva del lavoratore contro la rappresaglia datoriale per esercizio da parte del lavoratore degli altri diritti sanciti dalle leggi e dai contratti di lavoro. In pratica, solo chi ha la ragionevole certezza di non subire la rappresaglia del licenziamento, possiede le condizioni oggettive per richiedere altri diritti negati (riconoscimento di mansioni, pagamento straordinari, misure di sicurezza ecc.);
    tEfficacia diffusiva delle migliori condizioni di lavoro. L’esercizio del fondamentale diritto a non essere licenziato ingiustamente favorisce la diffusione di norme di protezione e tutela anche in altri ambiti che regolano la vita lavorativa (salute, orario, agibilità sindacale ecc.)

    Come funziona in pratica?

    La reintegrazione è ordinata dal giudice con l’emanazione di una sentenza che dichiara inefficace il licenziamento per mancanza della forma scritta o della comunicazione, sempre in forma scritta, delle motivazioni del licenziamento o annulla il licenziamento, perché intimato senza giusta causa o giustificato motivo o, infine, dichiara nullo il licenziamento in quanto discriminatorio (perché motivato da ragioni di credo politico, religioso, razziali, di lingua, sesso ecc.). Con la medesima sentenza, che è immediatamente esecutiva, il datore di lavoro è condannato al risarcimento del danno, che non può essere inferiore a 5 mensilità di retribuzione globale. Fermo restando il suddetto risarcimento economico, il lavoratore ha la facoltà di chiedere, al posto della reintegrazione in servizio, la liquidazione di un’ulteriore indennità pari a 15 mensilità di retribuzione globale.

    Cosa cambierebbe con il referendum

    La vittoria del referendum estenderebbe anche alle imprese fino a 15 dipendenti l’applicazione della cosiddetta “tutela reale”, ovvero l’obbligo della reintegrazione in caso di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo.
    Inoltre, si eliminerebbe la deroga prevista per partiti, sindacati, ordini religiosi e così via. Quindi, di fronte alla medesima ingiustizia, di un licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo (decretata da una sentenza emessa da un giudice), si avrebbe il medesimo diritto al risarcimento del “danno reale”, ovvero il reintegro in servizio (salvo la facoltà per il lavoratore di optare per un’indennità di 15 mensilità).

    Le modifiche del governo peggiorative all’articolo 18

    Come è noto, le destre al governo vogliono modificare in peggio l’articolo 18, introducendo una deroga alle tutele attualmente previste, che, nella sostanza prefigurano la cancellazione del diritto.
    Questo è il testo delle modifiche all’articolo 18, contenute nel cosiddetto “Patto per l’Italia” e che sono in discussione al Parlamento:
    “Ai fini del sostegno della occupazione regolare e della crescita dimensionale delle imprese, il governo è delegato ad emanare in via sperimentale uno o più decreti legislativi, entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, nel rispetto dei seguenti principi e direttive:
    tAi fini della individuazione del campo di applicazione dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, non computo nel numero dei dipendenti occupati dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, anche se a tempo parziale, o con contratto di formazione lavoro, instaurati nell’arco di tre anni dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi.”
    Tradotto in termini più semplici, ciò vuol dire che un’impresa che, in forza di nuove assunzioni, nell’arco del prossimo triennio, superi la soglia dei 15 dipendenti è comunque esclusa dal campo di applicazione dell’articolo 18.
    Si crea un “vulnus” gravissimo nella normativa esistente (a parità di dipendenti, non vi sarebbe più un’uguaglianza dei trattamenti) che prepara, evidentemente, una manomissione ancora più profonda della tutela della reintegrazione in servizio in caso di ingiusto o illegittimo licenziamento. Non solo, ma i dipendenti esclusi dal computo rimarrebbero tali anche una volta scaduto il periodo di sperimentazione. Ciò significa che verrebbe stabilita in modo permanente una differenza di trattamento e di diritti tra i lavoratori. Questo testo (disegno di legge 848 bis) è stato stralciato dalla delega sul mercato del lavoro, e deve essere ancora approvato dal Parlamento.
    Anche qui, il referendum sarebbe risolutivo: eliminando la soglia dei 15, cadrebbe la possibilità di qualsiasi deroga. Il si al referendum per l’estensione dell’articolo 18 allarga i diritti, affossa il “patto per l’Italia” e impedisce definitivamente la manomissione prevista nelle proposte di legge che il governo vuole fare approvare dal Parlamento.

    Il campo di applicazione dell’articolo 18 e della sua estensione

    A fronte di una media annua di 250 mila licenziamenti, le sentenze per la reintegrazione nel posto di lavoro sono meno di 1800 all’anno in tutta Italia (lo 0,72% del totale dei licenziamenti emessi). Questa cifra non deve trarre in inganno in quanto i licenziamenti individuali senza giusta causa o giustificato trovano una forte limitazioni proprio dall’esistenza dell’articolo 18 che li rende inefficaci .
    E’ evidente, inoltre, il significato simbolico connesso alla limitazione (o, al contrario, come vuole il referendum, all’allargamento) delle tutele previste dall’articolo 18 è fortissimo.
    Per fare un esempio, basti ricordare l’intervento di Craxi per l’eliminazione dei 4 punti di scala mobile congelati, agli inizi degli anni 80. Dal punto di vista economico, erano in gioco cifre modeste (infatti, per minimizzare, veniva affermato che si trattava di “un caffè al giorno”). Dal punto di vista simbolico, però, la cosa era incredibilmente importante: infatti, da quella prima manomissione, si è passati dopo pochi anni all’eliminazione totale della scala mobile e, quindi, a un più deciso attacco al potere di acquisto delle retribuzioni.
    Oggi si vuole percorrere la stessa strada della scala mobile: si inizia con una parziale manomissione oggi, per giungere alla cancellazione domani.
    Il referendum che estende le tutele dell’articolo 18, al di là del numero dei lavoratori coinvolti e delle sentenze che saranno emesse in futuro per la reintegrazione dei lavoratori ingiustamente e illecitamente licenziati, ha un fortissimo impatto simbolico: aumentare le tutele e le garanzie per una nuova stagione dei diritti sociali estesi a tutti.

    Quanti lavoratori sono coinvolti dall’estensione dell’articolo 18?

    In Italia, circa il 92% delle imprese conta meno di 15 dipendenti, quota di 2,23 volte superiore alla media europea, (e anche questo dovrebbe dire qualcosa circa l’arretratezza della struttura economica e della polverizzazione della produzione). La maggior parte delle imprese con meno di 15 dipendenti è collocata al sud (95% in Calabria, 94% in Sardegna e Sicilia), mentre i settori più interessati sono quelli delle costruzioni e dell’edilizia (il 60,6% dei dipendenti è in imprese sotto la soglia delle 15 unità). L’estensione dell’articolo 18 non si applicherebbe a tutte le “microimprese”, essendo moltissime di queste costituite da liberi professionisti, coadiuvanti familiari, con contrattazione atipica e così via. L’estensione dell’articolo 18 riguarderebbe direttamente le figure di lavoro dipendente in imprese con meno di 16 dipendenti (secondo le varie stime tra 3 milioni e 3 milioni e 500 mila lavoratori, che si aggiungerebbero ai circa 9 milioni oggi tutelati).
    Naturalmente, l’estensione dell’articolo 18 non ha solo un enorme valore politico simbolico.
    Riguarda direttamente una porzione di lavoratori (circa tre milioni e mezzo) ma parla, più generalmente, del tema dell’allargamento dei diritti a tutti i lavoratori esclusi dalle tutele (circa 14 milioni, il 62% del totale degli occupati), indipendentemente dalla tipologia contrattuale con la quale sono stati assunti.

    4. A proposito del referendum, ma è proprio vero che…

    …si irrigidirebbe il mercato del lavoro mentre invece serve maggiore flessibilità

    La flessibilità del lavoro con il referendum non c’entra nulla. Il tema del referendum, infatti, riguarda esclusivamente la disciplina dei licenziamenti individuali mentre il tema della flessibilità è regolato da altre norme e leggi.
    E’ chiaro, però, che il referendum solleva un problema più generale. Qui, lo scontro contro i liberisti di destra e di centro sinistra deve essere condotto a viso aperto. C'è già troppa flessibilità: in Italia è tra le più elevate d'Europa e noi la contrastiamo per affermare i diritti sul lavoro e del lavoro. Attraverso il referendum si vuole, quindi, affrontare criticamente il tema della precarizzazione delle condizioni di lavoro. Il tema dell’allargamento delle tutele dell’articolo 18 alle piccole imprese parla dell’apertura di una nuova stagione di diritti del lavoro e di diritti sociali. Si collega, per esempio, alla proposta di salario minimo intercategoriale e allo stabilire una soglia di diritti di cui debbono godere tutti i lavoratori, a prescindere dalla tipologia del contratto (deve riguardare, quindi, i cosiddetti co.co.co, i soci lavoratori ecc.). Effettivamente, quindi, proponiamo l’introduzione di nuove rigidità contro la precarietà determinate dalle politiche neoliberiste.
    Nel Parlamento è stata approvata la “legge delega” sul mercato del lavoro, tratta dal cosiddetto “libro bianco” del ministro Maroni. E’ un intervento totalmente destrutturante dell’insieme delle garanzie e delle tutele del lavoro. Con la sua approvazione la precarietà si estende fino a farne l’elemento sostanziale di qualsiasi rapporto di lavoro: si liberalizza il collocamento, si cancella la norma che vieta l’intermediazione di mano d’opera e si introducono nuove flessibilità come il lavoro a chiamata, il “lavoro in affitto” viene ulteriormente ampliato e reso condizione stabile di lavoro. In uno stesso stabilimento, addirittura nel medesimo reparto, potranno essere impiegati perennemente lavoratori con stipendi, orari, condizioni di lavoro e tutele del tutto differenti tra loro. In pratica, si arriva all’obiettivo di eliminare il contratto nazionale di lavoro. Anche, rispetto a questo intervento, il referendum costituisce un argine di grande valore politico proprio perché indica una strada opposta: rendere il lavoratore titolare di diritti fondamentali e inalienabili, indipendentemente dal tipo di azienda e dalla condizione contrattuale.

    …aumenterebbe il lavoro nero

    Il lavoro nero in Italia c’è ed è due volte superiore a quello di Francia e Germania. Secondo i dati forniti dagli istituti di ricerca, l’economia che è sorretta dal lavoro nero si aggira a quasi il 25% del Prodotto Interno Lordo. L’evasione contributiva in Italia è di alcune decine di migliaia di miliardi di vecchie lire (almeno 20 milioni di euro) e i dati delle poche ispezioni che vengono effettuate dimostrano che, specialmente nell’edilizia, il ricorso al lavoro nero è superiore al 50%.
    Non è un caso che l’Italia è, tra i Paesi con maggiore ricchezza in Europa, quello con la più alta incidenza di incidenti e morti sul lavoro (oltre 1000 l’anno).
    Eppure, oggi, non c’è l’estensione dell’articolo 18.
    Il lavoro nero, in realtà, si va estendendo a causa della politica del governo delle destre. Quando si approvano in Parlamento tutta una serie di condoni e di sanatorie in favore dell’evasione fiscale, anche di quella contributiva, il messaggio è chiaro: è un incentivo ad evadere e ad aggirare le normative sulla regolarità del lavoro. Il risultato di tutte le sanatorie e dei cosiddetti incentivi all’emersione è stato insignificante. Il lavoro nero si contrasta con le leggi, gli strumenti per applicarle, gli Ispettorati del lavoro, la sindacalizzazione, efficaci politiche del lavoro, ecc.
    Inoltre, purtroppo, esistono molte forme giuridiche di rapporto di lavoro diverso dal tempo indeterminato, ma neppure a queste accedono quanti sfruttano il lavoro nero. La vittoria del referendum non estenderà l'area del lavoro nero, al contrario estendendo la tutela fondamentale del diritto al reintegro se licenziato ingiustamente, favorirà la sindacalizzazione e, quindi, l’introduzione di tutele maggiori.
    Servirà, anche, solo per fare un esempio molto concreto, a dare la possibilità a un lavoratore di una piccola impresa (quelle dove si condensano il maggior numero di morti bianche) di poter rivendicare le norme sulla sicurezza senza correre il rischio di essere licenziato.

    …danneggerebbe l’economia

    Questa critica è veramente assurda. Cosa c’entra, infatti, una norma che tutela i lavoratori dai licenziamenti ingiustificati con lo sviluppo economico del Paese? In realtà, chi avanza questa obiezione lo fa in nome di un ragionamento che possiamo così sintetizzare: lo sviluppo economico ha bisogno che vengano tolti tutti i “lacci e laccioli” che vincolano la libertà dell’impresa di competere sul mercato globale.
    Parliamo, quindi, dell’impianto fondamentale delle politiche neoliberiste: privatizzare qualsiasi forma di intervento pubblico, liberalizzare il mercato da qualsiasi regola, inseguire il costo del lavoro al più basso livello possibile, deregolamentare tutele e garanzie del lavoro, estendendo ogni forma di precarietà possibile.
    Contro questa impostazione, anche con il referendum, avanziamo una critica di fondo e lanciamo una sfida aperta.
    Questa politica, infatti, è allo stesso tempo iniqua e sbagliata, crea ingiustizie e disuguaglianze e neanche è in grado di saper affrontare i nodi di fondo dello sviluppo economico.
    Infatti, come abbiamo già detto precedentemente, siamo entrati in fase di stagnazione e di vera e propria recessione. In Europa sale il tasso di disoccupazione e si riduce la domanda a causa della perdita del potere di acquisto delle retribuzioni, cresce la fascia della popolazione che vive sotto la soglia della povertà (ormai 8 milioni di persone) che comprende, ormai, non solo i disoccupati e i pensionati al minimo ma, anche, porzioni crescenti di lavoratori dipendenti (basta leggere i dati recenti dell’indagine dell’Eurispes).
    Il caso della FIAT è emblematico. L’azienda torinese, in questi anni, ha potuto fare ciò che voleva: attraverso le ristrutturazioni ha potuto drasticamente ridurre la forza lavoro e ha introdotto forme estreme di flessibilità (vedi Melfi), ha goduto di ingenti finanziamenti pubblici: il risultato è sotto l’occhio di tutti, la crisi e il fallimento. Il punto di fondo è che le politiche neoliberiste hanno fallito nella promessa fondamentale che, tagliando regole e garanzie e ogni forma di controllo pubblico, si sarebbe assicurato sviluppo e progresso.
    Occorre cambiare quella politica: un nuovo intervento pubblico, regole e garanzie per tutti i lavoratori, sottrarre alla logica del profitto i beni e i servizi essenziali (l’acqua, l’energia, i trasporti ecc.).
    L’estensione dell’art. 18, inoltre, coglie un elemento fondamentale collegato ai processi di ristrutturazione dell’apparato produttivo: diminuiscono gli occupati nelle grandi imprese e le produzioni vengono sempre di più polverizzate (a questo proposito, si vedano i dati dell’allegato 1) sono sempre meno i lavoratori tutelati dal diritto al reintegro in caso di licenziamento ingiustificato e si espande l’area della non tutela. Il referendum coglie, quindi, un elemento fondamentale delle modificazioni intervenute nel mondo del lavoro. A chi, poi, parla tanto di Europa, va ricordato che la Carta Europea, approvata a Nizza (malgrado i limiti e i difetti che contiene e che sono tali da determinare la nostra opposizione), prevede che :
    "OGNI LAVORATORE HA DIRITTO ALLA TUTELA CONTRO OGNI LICENZIAMENTO INGIUSTIFICATO" e non fa alcuna distinzione tra pubblico e privato, tra aziende con più o meno di 15 dipendenti, tra lavoratori a termine o a tempo indeterminato, tra subordinati e atipici. Inoltre afferma, art.51,1, che l'esercizio del diritto deve essere effettivo e non mera enunciazione di principio.

    …si creerebbero enormi difficoltà alle piccole imprese, che non potrebbero più licenziare

    E’ assolutamente falso che estendere l’articolo 18 impedirebbe alle imprese di licenziare. Chi usa questo argomento fa disinformazione. In Italia, si fanno circa 250.000 licenziamenti l’anno e, di questi, meno dell’1% è sanzionato attraverso lo Statuto dei diritti dei lavoratori. L’articolo 18, infatti, riguarda solo i licenziamenti individuali senza giusta causa o giustificato motivo, circostanza che viene accertata dal giudice attraverso un’udienza nella quale le parti hanno la facoltà di far sentire le proprie ragioni.
    Come ricordato, il valore principale dell’articolo 18 consiste nel prevenire comportamenti scorretti da parte dei datori di lavoro.
    Se, come dicono le associazioni di categoria delle piccole imprese e delle associazioni artigiane: “Nelle microimprese, al di sotto dei 15 dipendenti, a differenza di quanto sostengono i referendari, non sono mai venuti meno i diritti fondamentali e non ci sono stati licenziamenti individuali indiscriminati” (comunicato del 17 gennaio 2003 della Cgia - Associazione artigiani e piccole imprese), perché tanta ostilità all’estensione dell’articolo 18 che si applica esclusivamente a quella tipologia di licenziamenti?
    Se, inoltre, dalla propaganda si passa alla realtà dei fatti (si veda l’allegato n. 2), si vede come, in realtà, l’estensione dell’articolo 18 riguarda direttamente solo i lavoratori dipendenti in imprese sotto i 16 dipendenti (compresi tra circa 3 milioni e 3 milioni e mezzo di lavoratori), mentre la maggior parte delle imprese artigiane, commerciali e dei lavoratori autonomi (le piccolissime imprese) hanno rapporti di lavoro che non rientrano nella categoria “lavoratori dipendenti”.
    Quindi, anche l’accusa contenuta in un recente articolo di Eugenio Scalfari (“diverrebbe impossibile rompere il rapporto di lavoro nell’azienda familiare della fioraia che divorzia dal marito”) rimane solo una battutaccia un po’ misogina ma, nel merito, è irrisoria e pretestuosa.
    Esiste certamente un problema di aiuto alle piccole imprese e all’artigianato. La questione, però, non può essere risolta con la diminuzione dei diritti. Al contrario, sono necessarie misure di politica economica e industriale a favore delle piccole e medie imprese come, ad esempio, la creazione di utili infrastrutture sul territorio, la riforma dell’accesso al credito bancario, l’estensione degli ammortizzatori sociali nei periodi di crisi, la garanzia di una formazione dei lavoratori garantita dal sistema.

    …divide le sinistre

    Potremmo semplicemente rispondere che sarebbe importante che tutte le sinistre si unissero per sostenere il si, tanto più che il governo ha deciso di scendere in campo direttamente guidando i comitati per il no. Se, infatti, si è condotta la battaglia contro il governo, sostenendo che l'art. 18 è un elemento di civiltà, perché non è giusta la battaglia per estenderlo a quella metà di forza lavoro che non ha mai avuto questa protezione? La civiltà non si ferma al di sotto di una soglia.
    In realtà il centro sinistra è diviso sulle questioni del lavoro, del mercato del lavoro e della democrazia sui luoghi di lavoro. Le ipotesi di D'Alema e quelle contenute nella proposta di legge Amato-Treu non sono alternative a quelle del libro bianco di Maroni e sono assai diverse da quelle avanzate dalla CGIL e da altri esponenti dei DS.
    Il centro sinistra si è diviso nel giudizio sullo sciopero generale della Cgil. Le divisioni attraversano i sindacati, Cgil e Cisl Uil e anche quelli dei meccanici.
    La CGIL ha scelto di dividersi dalla CISL e dalla UIL e ha fatto degli scioperi generali in contrasto con gli altri sindacati confederali.
    La FIOM ha presentato una piattaforma sindacale per il rinnovo del contratto differente da quella presentata dagli altri sindacati metalmeccanici.
    Tutto questo avviene indipendentemente dall'esistenza o meno del referendum. Anche nei confronti del referendum, le posizioni del centro sinistra sono assai diversificate (si va da un no secco di Fassino e Rutelli, al ritenere valide le finalità dei referendari senza condividere lo strumento del referendum, come nel caso di Cofferati, alla dichiarazione a favore del si di molti esponenti della sinistra DS per giungere al sostegno pieno, fin dall’inizio, di un’altra parte della sinistra DS, l’area di Salvi e dei Verdi).
    L’unità tra le sinistre non si costruisce sulla base di uno schieramento pregiudiziale e a prescindere dai contenuti concreti ma, al contrario, sulla base delle scelte di fondo, va costruita la più ampia unità. I promotori del referendum appartengono già a uno schieramento pluralistico (Rifondazione Comunista, i Verdi, Socialismo 2000, la FIOM, la sinistra della CGIL, i COBAS, le RdB, altre organizzazioni sindacali di base, associazioni e comitati). Questo schieramento si è ulteriormente allargato e sono già diversi gli esponenti della sinistra politica, sindacale e di movimento che si sono schierati. Nelle realtà territoriali, interi settori di delegati di posti di lavoro e di strutture territoriali sindacali si pronunciano per il si. Anche le organizzazioni sindacali confederali, in primo luogo la CGIL, pur nella distinzione della posizione, mantengono un’attenzione e hanno rifiutato di fare la campagna per il no.
    Il referendum esprime, quindi, una grande spinta unitaria per il cambiamento.

    …non tutela i lavoratori con contratti atipici

    Questa critica è davvero un po’ “pelosa” allorché ci viene rivolta da quanti (è il caso di molti esponenti del centro sinistra) non hanno alcuna intenzione di estendere le tutele.
    Noi sappiamo bene che l'effetto giuridico, in caso di vittoria del referendum, amplia i diritti solo al lavoro a tempo indeterminato ( e si parla di una cifra consistente, tra i 3 e 3 milioni e mezzo di lavoratori). Ma, questo, per noi, è solo il primo passo: fin dall'inizio il referendum è stato promosso con l'obiettivo di unificare sul terreno dei diritti tutto il mondo del lavoro, incluso quello con contratti atipici. Consideriamo il SI al referendum, quindi, un passo concreto e gigantesco verso un si ad una legge che estenda le tutele ai lavoratori e lavoratrici con contratti diversi dal tempo indeterminato. Sono presenti proposte di legge in Parlamento, presentata da Rifondazione e da altri esponenti della sinistra DS, e la Cgil ha raccolto circa 5 milioni di firme con l'impegno a proporre una legge di iniziativa popolare per estendere un arco di diritti ai lavoratori oggi non tutelati.
    Questo obiettivo, per ragioni sociali e politiche, di materiali condizioni di vita di milioni di persone (in particolare, giovani e donne) con lavori incerti , senza diritto al posto di lavoro, previdenza, ferie, malattia, salario minimo garantito, è sicuramente importante quanto la stessa estensione dell'art.18 e certamente altrettanto dirompente.
    Questo obiettivo è, però, lontanissimo dalla possibilità di essere recepito da un Parlamento dominato dalle destre e, nel quale, anche una parte consistente del centro sinistra è ostile.
    Oggi, grazie al referendum, è veramente possibile imprimere una svolta.
    La vittoria al referendum è una vittoria per tutti perché apre una nuova stagione dei diritti: questo è il messaggio decisivo che il referendum consegna alle coscienze dei lavoratori e dei cittadini italiani, in altre parole, i diritti si estendono a tutti e tutte o verranno complessivamente ridotti.
    Votare Si è primo passo in questa direzione, va controcorrente perché estende diritti quando il Governo vuole comprimerli anche nelle grandi fabbriche e pone le basi per estenderli a tutti e tutte.

    …lo strumento del referendum è sbagliato, sarebbe meglio una legge

    E’ un’argomentazione assai pretestuosa e del tutto fuori tempo: oggi che il referendum c'è, che senso ha la separazione tra obiettivo e strumento?
    Inoltre, il referendum è uno strumento dato dalla Costituzione per abrogare leggi esistenti o parti di esse: il voto popolare può quindi svolgere una vera funzione legislativa in forma che viene definita di democrazia diretta in quanto può pronunciarsi anche in contrasto con le rappresentanze elette, cioè il Parlamento. Esiste una proposta maggiormente realistica? Non sarebbe meglio, oggi che il referendum è stato dichiarato valido e manca solo l’indicazione della data, che tutti coloro che condividono le intenzioni del referendum si uniscano per far vincere il SI?
    La vittoria del SI al nostro referendum non lascia alcun vuoto legislativo: la tutela del reintegro si applica semplicemente a tutti i lavoratori dipendenti, senza, quindi, alcun riguardo al numero degli addetti.
    Le proposte di legge presentate dal centro sinistra, occorre ricordarlo di nuovo, sono tra loro assai diverse e si muovono in direzioni contrastanti: per fare un solo esempio, la proposta contenuta nel disegno di legge Amato - Treu è assai diversa da quella presentata da alcuni esponenti della sinistra DS e dalla medesima proposta CGIL. In ogni caso (oltre alla valutazione nel merito) è evidente che, con l'attuale maggioranza parlamentare, nessuna legge proposta dall'opposizione può essere approvata . L’unica legge che l’attuale Parlamento, visti i rapporti di forza, potrebbe essere costretto ad approvare è quella peggiorativa che il governo ha presentato, come la legge delega che estende la precarietà del lavoro, recentemente approvata, dimostra chiaramente. Quindi, anche chi preferirebbe un intervento legislativo per aumentare le tutele del lavoro in caso di licenziamento illegittimo non può che convenire che l’unica possibilità è data dalla vittoria referendaria.


    5. Conclusione

    Al fondo delle critiche, c’è una valutazione politica che va affrontata direttamente: tutti gli argomenti a favore del referendum sono giuste, però alla fine si perde.
    E’ la sindrome della sconfitta, malattia senile di una sinistra che ha smarrito la propria identità e ha deciso di non proporsi come alternativa di fondo alle destre, finendo per assumerne i riferimenti di fondo nelle grandi scelte di politica economica e sociale.
    Senza voler parlare a nome dei lavoratori, è lecito affermare che la grande maggioranza è favorevole all'estensione del diritto a non essere licenziato ingiustamente e che, se correttamente informata, possiamo conquistare il consenso della maggioranza dei cittadini. Nel contenuto, chi mai può essere favorevole ad un licenziamento e per giunta ingiustificato? Tutti i sondaggi, finora pubblicati, parlano chiaramente di una maggioranza favorevole a recarsi al voto e di un orientamento degli elettori assai diverso da quello del “cielo della politica”.
    Dunque, esiste una maggioranza sociale favorevole al SI e una grande attenzione sul terreno dei diritti, prodotta dalle mobilitazioni dello scorso anno, (dalla manifestazione del 23 marzo a Roma agli scioperi generali , promossi dalla Cgil).
    Il governo, al contrario, è sceso direttamente in campo per guidare direttamente i comitati per il no. Già questa circostanza, non chiarisce le cose?
    All’inizio di questo documento, abbiamo parlato di una recente ricerca del CNEL, “L’agenda degli italiani 2002” in cui si rende chiaro come il Paese reale la pensa assi diversamente dal Paese legale nel merito di scelte fondamentali come il sistema previdenziale, la sanità, le privatizzazioni. Così come sulla guerra, la maggioranza degli italiani, la pensa diversamente da chi la governa.
    Sarebbe necessario che tutte le sinistre, e più in generale le opposizioni, si mettessero in sintonia con questo vero sentimento popolare. Questo facciamo con il referendum per l’estensione dell’articolo 18 contro i licenziamenti ingiustificati.
    Il nodo dello scontro è chiaro e semplice: andare nella direzione dell’estensione dei diritti sociali o, al contrario, alla loro ulteriore compressione e a un ulteriore inasprimento delle politiche neoliberiste che già tanti danni hanno recato alle classi popolari e all’intera società.
    “Un nuovo mondo possibile”, nel nostro Paese, passa anche dall’esito del referendum

  2. #2
    Hanno assassinato Calipari
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    da LIBERAZIONE del 30/04/03
    Art. 18, il Comitato per il No incontra Rifondazione comunista

    Diritti e piccole imprese

    Gemma Contin
    Confindustria, Confcommercio e le organizzazioni delle aziende minori: referendum pericoloso. Ma chi difende i lavoratori?
    «E' stato un confronto positivo, civile. Abbiamo esposto le nostre posizioni. Ovviamente non c'è convergenza sull'obiettivo finale, essendo uno il promotore del referendum e gli altri quelli che hanno costituito il Comitato per il No».
    Escono in fila per uno, alcune facce scure, altre rilassate, come di un compito portato a termine nonostante tutto. Si sono presentati ieri, puntuali, nella sede del Prc, i rappresentanti di tutte le sigle imprenditoriali che hanno costituito i Comitati per il No al referendum sull'art. 18: gli uomini della Cna, la confederazione "rossa" degli artigiani; le organizzazioni delle imprese agricole Coldiretti e Confagricoltura; e gli uomini di Confapi, l'associazione delle piccole imprese, le più coinvolte dall'estensione dei diritti anche ai dipendenti di aziende con meno di 15 addetti. E naturalmente Confartigianato, Confcommercio e Confesercenti.

    In Viale del Policlinico, sede della direzione nazionale di Rifondazione Comunista, nella lunga fila di "auto blu" manca solo la Confindustria, anche se il presidente degli industriali ha apposto pure lui la firma in calce a una lettera inviata a Fausto Bertinotti in cui c'è scritto: «Signor Segretario, le Organizzazioni che rappresentiamo hanno costituito il Comitato per il No alla consultazione referendaria... intendiamo dar voce e tutelare i diritti degli elettori orientati al No, promuovendo con ogni mezzo le ragioni di milioni di cittadini e di imprenditori che con il loro lavoro producono ricchezza e occupazione nel nostro Paese... Le chiediamo cortesemente di essere da Lei ricevuti per significarLe le ragioni delle nostre scelte».

    L'incontro è durato un'ora e mezza. Poi le dichiarazioni: «Sui temi del lavoro in generale si è aperta una discussione che può trovare delle convergenze su alcune questioni di merito del referendum» dicono i rappresentanti delle organizzazioni datoriali, cercando di svicolare. Ma i giornalisti vanno all'assalto, e cercano di farsi dire se nel vis à vis quantomeno "inusuale" l'obiettivo fosse quello di raggiungere il quorum, per arrivare a un confronto nell'urna. «Noi abbiamo detto che vogliamo che ci sia attenzione su questo referendum - afferma il rappresentante di Confcommercio - poi ognuno deciderà come votare. Noi cercheremo di convincere a votare No. Abbiamo costituito un Comitato per il No, quindi partiamo da questo».

    Un altro capitolo "dolente" riguarda l'informazione radiotelevisiva, che continua a praticare un ostinato silenzio. «In questi ultimi giorni abbiamo visto che sta crescendo l'attenzione sul referendum - sostengono gli imprenditori - oscurata prima dalla guerra, poi dalla Sars. Certamente la guerra ha influito, ma ora si comincia a sentire più attenzione. Noi faremo la nostra parte - affermano - con una campagna fatta sia di manifesti che di dibattiti televisivi, in cui porremo le questioni che abbiamo posto a Bertinotti; cioè di tenere conto delle diversità tra grande e piccola impresa, del rapporto fiduciario tra titolare e dipendente di una piccola azienda, del fatto che ci sono 350mila ditte che ogni anno chiudono e che espellono un milione di persone».

    In un clima abbastanza tranquillo e ciarliero si parla degli ultimi sondaggi, che sembrano ribaltare il dato sull'astensione. L'indice Eurisko pubblicato ieri da "Repubbica" dice che il 69% degli intervistati ha intenzione di andare a votare. I rappresentanti delle imprese sembrano soddisfatti. Qualcuno ipotizza che tra il 51 e il 65% vincerebbero i Sì, ma che superando tale soglia la vittoria andrebbe ai No. Non si capisce bene secondo quale alchimia elettorale. Ma gli imprenditori sostengono che «dai sondaggi c'è una larghissima proprensione al voto. In qualche modo ciò rende meno drammatico l'andare a votare. Siamo stati preoccupati e continuiamo a esserlo semmai di non arrivare al quorum. Tutto il resto va bene». E a chi chiede se ciò potrebbe riposizionare le scelte del centrosinistra, rispondono con sorisetti di compatimento: «Ci sono forze del centrosinistra che sembrano impermeabili a tutto. Se dovessimo fare una previsione, non saremmo in grado di dedurre dal mutamento rispetto al quorum i cambiamenti dei soggetti in campo, che non sembrano impressionati neppure del fatto che la Cgil si disponga al Sì. Così la tesi della libertà di voto risulta ancora più insostenibile».

    Fin qui le posizioni sul fronte imprenditoriale, ma della "strana visita" si è continuato a parlare in un incontro che il segretario di Rifondazione comunista ha poi avuto con la stampa, alla quale ha detto che «questo incontro dimostra l'affermarsi di una tendenza degli ultimi giorni a considerare il superamento del quorum largamente possibile e probabile». E a chi gli chiedeva un commento su "l'astensione" dell'informazione, Bertinotti ha detto che «nonostante anche l'aperto oscuramento operato dal servizio pubblico, il dato di partecipazione è persino sorprendente. Quello che esce dai sondaggi costituisce un atto di accusa alla risoluzione del Comitato di vigilanza sulla Rai e alla Rai medesima, perché quando un sondaggio rileva e rivela che quasi il 70% si dispone a votare e gli strumenti di comunicazione di massa ignorano totalmente il fatto».

    E ha affermato che, nei confronti della Commissione di Vigilanza e dei vertici Rai, il rappresentante del Prc «denuncerà questa situazione e chiederà alla presidente della Rai qual è la sua interpretazione del precedente deliberato del Consiglio di sorveglianza. In particolare rispetto ai talk show che, se davvero venissero impediti di esercitare l'informazione e il confronto sul referendum dell'art. 18, vorrebbe dire che siamo di fronte a un atto di una gravità inaudita: sostanzialmente alla deliberata volontà di cancellare dall'informazione il referendum»
    «Tra l'altro, abbiamo appena appreso - ha detto Bertinotti - che la prevista riunione di oggi tra Consiglio di sorveglianza e nuovi vertici Rai è stata rinviata al 6 maggio. Ciò significa che dovremo ricorrere direttamente al Parlamento contro un comportamento ingiustificabile, dato che verranno a mancare i giorni per fare una corretta informazione referendaria».

    Infine, avendo alcuni rappresentanti delle imprese sostenuto che se dovesse vincere il Sì potrebbe esserci un blocco delle assunzioni, il segretario del Prc si è lasciato andare, finalmente disteso, a una battuta: «Sono stati gentili, perché quando venne votato lo Statuto dei lavoratori la Confindustria disse che si sarebbero chiuse centinaia di aziende; cosa che poi non è accaduta. E gli stessi imprenditori, fino a qualche tempo fa, dicevano che se avesse vinto il Sì ci sarebbe stata la chiusura di tante piccole fabbriche. Se adesso siamo alle non assunzioni, contiamo che tra qualche settimana arriveremo tranquillamente alla indifferenza delle politiche aziendali rispetto a una conquista di civiltà».

  3. #3
    live long and prosper
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    chissà che ne pensasno di questi discorsi quelli della margherita, dei Ds, dello sdi, dell'udeur ????

  4. #4
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    Io sono contrario alla modifica dell'art 18, lavorare senza sicurezza e serenità è psicologicamente difficile. Non si può mettere l'economia al centro della società, ci sono necessità più importanti da salvaguardare, come garantire una vita dignitosa e il più possibile serena al lavoratore, all'essere umano. L'America non è un modello da seguire, ma purtroppo la direzione intrapresa da questo governo è quella.

  5. #5
    I amar prestar aen
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    Predefinito Così Schroeder vuol cambiare l'art. 18 tedesco

    Berlino. Se una piccola azienda con cinque dipendenti ne assumerà un sesto, solo il lavoratore con l'anzianità più alta sarà tutelato dal Kündigungsschutz, l'equivalente tedesco dell'articolo 18. Se l'azienda conta sette dipendenti, saranno i due più anziani ad essere protetti dal licenziamento senza giusta causa. E se ne ha dieci, i garantiti saranno cinque. In tutti i casi però il ricorso davanti al giudice del lavoro non sarà più possibile. Sono queste alcune delle novità che potrebbero essere introdotte in Germania dal prossimo anno se il pacchetto di riforme contenuto nel programma «Agenda 2010» di Gerhard Schroeder riuscirà a completare il suo iter legislativo, a dispetto delle proteste di frondisti e Verdi, postcomunisti e sindacati.
    Un primo passo intanto è stato compiuto lunedì sera, durate la prima delle quattro conferenze regionali organizzate dalla direzione Spd per sondare gli umori della base, in vista del congresso straordinario dei socialdemocratici tedeschi convocato per il 1 giugno. La mozione che infatti è stata approvata e sarà oggetto di discussione nei prossimi appuntamenti di partito, ha ripreso in forma sostanzialmente inalterata le proposte avanzate dal cancelliere, da ultimo nell'intervento al parlamento dello scorso 14 marzo, in materia di flessibilizzazione delle tutele anti-licenziamento. L'unica novità, semmai, è stata nella riduzione del campo di applicazione della riforma: nel caso venissero trasformate in legge, le modifiche non avrebbero infatti valore retroattivo. Insomma, tutti i lavoratori che oggi godono del Kündigungsschutz, continuerebbero a beneficiarne anche dopo.
    I passaggi fondamentali del progetto rimangono dunque quelli che il superministro dell'economia e del lavoro, Wolfgang Clement, aveva esposto in un'intervista alla seconda rete Zdf a fine febbraio. Oltre allo scardinamento delle soglie di dipendenti dopo le quali scattano le norme anti-licenziamento, verrebbe introdotta una regola generale che consentirebbe ad ogni lavoratore, anche nelle grandi aziende, di poter scegliere, in caso di licenziamento senza giusta causa, tra la richiesta di una buona uscita (il cui ammontare sarà determinato dalla legge, a partire da un minimo che dovrebbe attestarsi sul 50 per cento dell'ultimo stipendio lordo, per ogni anno di impiego) e il ricorso in tribunale per il reintegro. La riforma Schroeder prevede inoltre una semplificazione dei «criteri sociali» che oggi debbono essere osservati dai datori di lavoro nella scelta dei dipendenti da licenziare in caso di crisi. Si tratta di un argomento delicato, uno dei tanti tabù della sinistra tedesca, dai risvolti morali e dagli esiti non sempre felici, almeno da un punto di vista economico: perché sono quasi sempre i lavoratori più giovani, ed efficienti, a dover pagare il prezzo delle ristrutturazioni. In futuro potrebbe non essere più così: nei piani del governo dovrebbero restare solo tre criteri, anzianità aziendale, età e famiglia. In alternativa la materia potrebbe essere anche lasciata alla contrattazione aziendale. Quanto alle assunzioni a tempo, le società di nuova costituzione potrebbero beneficiare della possibilità di estendere la durata dei contratti a termine fino ad un arco di quattro anni. Per tutte le altre aziende, invece, resterebbe in vigore il limite dei due anni.
    Si tratta di modifiche che come lo stesso ministro Clement ha più volte sottolineato, hanno una portata più che altro «simbolica»: l'impatto in termini di creazione di posti di lavoro, lo ripetono anche gli economisti, sarebbe infatti minimo. Ma la riforma del Kündigungsschutz contribuerebbe comunque, sono parole sempre di Clement, a dare un segnale sulla reale capacità del paese di riformarsi, a tutto beneficio del potere d'attrazione di capitali stranieri. La vera partita Schroeder dovrà però giocarsela su un altro fronte, quella della riforma di ammortizzatori sociali, sanità e pensioni. In programma ci sono: tagli drastici dei sussidi di disoccupazione (da 32 a 12 mesi), privatizzazione di molte prestazioni, innalzamento dell'età pensionistica a 67 anni. E lo scontro con la sinistra radicale e i sindacati è appena cominciato. Ma lo scoglio più duro è rappresentato da un'opinione pubblica che - lo rivelano i sondaggi - ancora fatica ad accettare la necessità delle rinunce prospettate dal governo. Come osservava amaramente il settimanale Die Zeit: «In ogni tedesco si nasconde un socialdemocratico: il populismo sociale di ieri si è trasformato oggi nel rifiuto delle riforme».

    Tratto dal riformista di oggi.

    Cordiali Saluti
    E voi tutti, o Celesti, ah! concedete,
    Che di me degno un dì questo mio figlio
    Sia spendor della patria, e de Troiani
    Forte e possente regnator. Deh! fate
    Che il veggendo tornar dalla battaglia
    Dell'armi onusto de' nemici uccisi,
    Dica talun: NON FU SI' FORTE IL PADRE:
    E il cor materno nell'udirlo esulti.

  6. #6
    Hanno assassinato Calipari
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    Predefinito Re: Così Schroeder vuol cambiare l'art. 18 tedesco

    In Origine Postato da locke
    Berlino. Se una piccola azienda con cinque dipendenti ne assumerà un sesto, solo il lavoratore con l'anzianità più alta sarà tutelato dal Kündigungsschutz, l'equivalente tedesco dell'articolo 18. Se l'azienda conta sette dipendenti, saranno i due più anziani ad essere protetti dal licenziamento senza giusta causa. E se ne ha dieci, i garantiti saranno cinque. In tutti i casi però il ricorso davanti al giudice del lavoro non sarà più possibile.
    E se passo dal Via, posso fare un albergo in Bastioni Gran Sasso?

    Torniamo a cose serie, meglio...

    Sul merito, ovviamente, caro Libero, nulla da dire?

    Berlusconi: "L'art 18 è una questione marginale, non era una cosa importante"...

  7. #7
    I amar prestar aen
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    Predefinito Re: Re: Così Schroeder vuol cambiare l'art. 18 tedesco

    In Origine Postato da yurj
    E se passo dal Via, posso fare un albergo in Bastioni Gran Sasso?

    Torniamo a cose serie, meglio...

    Sul merito, ovviamente, caro Libero, nulla da dire?

    Berlusconi: "L'art 18 è una questione marginale, non era una cosa importante"...
    L'art 18 serviva per dividere isindacati e il csx.

    Obbiettivo pienamente conseguito

    Cordiali Saluti
    E voi tutti, o Celesti, ah! concedete,
    Che di me degno un dì questo mio figlio
    Sia spendor della patria, e de Troiani
    Forte e possente regnator. Deh! fate
    Che il veggendo tornar dalla battaglia
    Dell'armi onusto de' nemici uccisi,
    Dica talun: NON FU SI' FORTE IL PADRE:
    E il cor materno nell'udirlo esulti.

  8. #8
    Hanno assassinato Calipari
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    E le TT le ha buttate giù la Cia con un complotto.. si si le conosciamo le teorie

 

 

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  5. Referendum sull'art. 18: perché noi di Destra dobbiamo votare si
    Di La sentinella nel forum Politica Nazionale
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