Ecco lo scritto che avevo ricordato qualche giorno fa in un mio intervento:

CONGIUNTURA O EPOCA DI CRISI?

di Gianfranco La Grassa

1. Introduzione

La politica è oggi in una situazione di completo degrado. Ciò riguarda il nostro come la generalità degli altri paesi, in particolare quelli cosiddetti avanzati. Perfino la maggiore potenza mondiale, l’unica a poter sviluppare un’attività compiutamente imperiale a livello globale, manifesta gravi ca-renze di conduzione politica degli affari, in particolare di quelli internazionali. Nel nostro paese, la situazione è particolarmente grave (ma non seria), sia per quanto concerne le forze di maggioranza che di opposizione. Seguire i battibecchi tra i due schieramenti è esercizio inutile quanto improbo, perché mette a repentaglio l’uso di una corretta intelligenza .
La cosa migliore sembra quella di cercare di cogliere, se possibile, alcune di quelle determinanti che un tempo venivano indicate come strutturali. Evidentemente, il teatrino della politica ha tal-mente invaso ogni ambito della comunicazione (TV, stampa, ecc.) che cogliere notizie più fonda-mentali, che non siano magari semplici pettegolezzi, è estremamente difficile. D’altra parte, tutti i cosiddetti dati empirici, di cui abbondano alcuni giornali specializzati, sono del tutto inutilizzabili ove si voglia delineare un quadro appena un po’ più generale, riguardante appunto le strutture . Credo che la cosa migliore sia lanciarsi in una serie di ipotesi generali, che potranno poi essere mo-dificate più avanti. Per intanto, però, esse serviranno da orientamento di massima in mezzo al “rumore di fondo” della comunicazione oggi in uso. Accennerò talvolta al caso italiano come indice di un problema più vasto che concerne l’intera Europa (in specie quella continentale e occidentale); pur se l’Italia ha senza dubbio sue caratteristiche specifiche.
Voglio chiarire subito un problema; e non certo per mettere le mani avanti. Tutti sanno che fare previsioni meteorologiche a lunga gittata (in quel campo, anche solo un mese) è attività in cui si commettono errori di notevole portata. Tuttavia, nessun meteorologo serio vi rinuncerebbe, perché fa parte di un atteggiamento di ricerca di tendenze meno effimere e non calate soltanto nel presente. L’importante è non credere di poter estrapolare passivamente i dati del passato proiettandoli nel lontano futuro; soprattutto, sarebbe ridicolo indicare la necessità di portare l’ombrello o il parasole alla tal ora di quel tal giorno. Le indicazioni debbono essere di massima, indicare le determinanti strutturali che si crede di poter verosimilmente segnalare per quel certo periodo futuro. Le forme specifiche, in cui tali determinanti si manifesteranno giorno dopo giorno, sono affidate al caso, e appaiono spesso persino l’una in contrasto con l’altra; potrà esserci il Sole o invece la pioggia, pur in un periodo caratterizzato, “strutturalmente”, da eccesso di umidità. Si deve rinunciare a sapere se nel fine settimana, da qui a un mese, si sarà o meno in grado di fare quella determinata gita. Se in-vece ci si vuol premunire contro possibili fenomeni da raffreddamento o da eventuali dolori reuma-tici, ecc., la previsione (pur sempre ipotetica, aperta alla correzione di molti errori) può essere utile.
Se parlerò di una probabile tendenza di fondo alla crisi di sistema, non significa che prevedo debba per forza esserci un nuovo 1929 o una lunga stagnazione come nell’ultimo quarto del secolo XIX. Se riterrò molto probabile l’affermarsi della tendenza ad una nuova fase imperialistica, non sosterrò affatto l’inevitabilità di una futura epoca di guerre mondiali. In tal senso, è vero che la Sto-ria non si ripete mai. Tuttavia, non sono d’accordo con coloro che pensano ad una novità tale da impedire ogni ipotesi circa dati caratteri strutturali di fondo, le cui forme di manifestazione saranno certamente del tutto impreviste; e sulle quali, dunque, non mi sogno minimamente di fare previsioni con la certezza dei (falsi) profeti.

2. Lo Stato: concrezione di rapporti sociali

Prima di cominciare a formulare alcune ipotesi di base, ritengo indispensabile una digressione, della cui utilità ci si renderà conto nei paragrafi successivi. Molte volte ho affermato quanto andrò qui di seguito scrivendo, e mi limiterò quindi a brevi cenni. E’ ormai generalizzata la non conoscen-za dell’effettiva posizione di Marx, Engels, Lenin, sullo Stato. Questa ignoranza dipende anche da precise colpe di presunti marxisti che in realtà sono stati, e alcuni sono ancora, seguaci del lassallia-no socialismo di Stato, violentemente criticato da Marx nella sua Critica al Programma di Gotha. Marx, Engels e Lenin (Stato e rivoluzione) avevano chiarito che non vi era differenza tra marxismo e anarchismo per quanto riguarda la previsione della dissoluzione dello Stato; soltanto che il secon-do ne propugnava la distruzione immediata subito dopo la presa del potere, mentre il primo lo rite-neva un male necessario per un certo periodo in vista della transizione dal capitalismo al comuni-smo.
Per di più, il marxismo non si contrappone frontalmente nemmeno rispetto al liberalesimo, poi-ché anch’esso propugna la libertà dell’individuo; non però semplicemente in senso formale, come mera dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Dovrebbe trattarsi di una eguaglianza reale, una egua-glianza, diciamo, almeno nelle condizioni di partenza; ad esempio, per quanto riguarda il marxismo della tradizione, con riferimento alla proprietà (che non dovrebbe essere privata) dei mezzi produt-tivi, ecc. In un certo senso, per Marx & C., il comunismo sarebbe dovuto essere l’inveramento (so-stanziale) di ciò che il liberalesimo pone solo dal punto di vista formale e giuridico. Il marxismo, perciò, si è sempre schierato contro la prospettiva di uno Stato “pesante”, che andasse a “ostruire tutti i pori della società civile”. Naturalmente, lo Stato che, secondo Marx ecc., doveva entrare in “fase di estinzione” era l’insieme degli apparati repressivi, di coercizione, espressione e sanzione del dominio di classe (di quella capitalistica); non invece gli apparati di pura “amministrazione delle cose”, per dirla con Engels. Una simile concezione non aveva proprio nulla di utopistico – secondo quanto sostengono perfino i “marxisti” lassalliani (contraddizione in termini) – se si parte dalla convinzione marxiana dell’esistenza di una tendenza, intrinseca al modo di produzione capitalisti-co, alla formazione del lavoratore collettivo cooperativo, che avrebbe coinvolto, ad un certo punto dello sviluppo della società, la stragrande maggioranza della stessa.
L’inesistenza di simile tendenza, che a mio avviso è ormai del tutto evidente, inficia la conce-zione marxista, e leninista, dello Stato. Tuttavia, ritengo una vera aberrazione, in particolare dopo la prova negativa fornita dal “socialismo reale”, pensare ad un comunismo favorito dall’azione dello Stato, che non ha alcuna possibilità – entro un orizzonte storico minimamente prevedibile – di di-ventare pura amministrazione delle cose. Se i presunti comunisti continuano a pensare nei termini del fallito “socialismo reale”, a credere alla superiorità del “pubblico” (ideologia del presunto per-seguimento di fini generali, collettivi) in quanto difesa degli interessi delle classi dette generica-mente lavoratrici, subiranno in definitiva sconfitte sempre più pesanti e irrimediabili. Tanto più che sembra ormai poco convincente la tradizionale critica marxista alla concezione che dello Stato, nell’attuale società, ha l’ideologia dominante; quest’ultima si limita in effetti a ritenerlo semplicemente un organo neutrale teso al conseguimento di scopi concernenti l’insieme della società. Un’analisi più profonda e realistica, come quella marxista, porrebbe invece in luce la sua natura di strumento di dominio utilizzato dalla classe capitalistica.
Mi sembra più adeguato considerare lo Stato quale luogo, campo, sociale in cui si formano – in correlazione con quanto avviene nelle sfere economica, politica, ideologico-culturale, della “società civile” – concrezioni istituzionali (apparati) strutturate in sistemi di ruoli e funzioni che ripetono, quasi come riflesso speculare (ma con caratteri del tutto particolari), quelli delle sfere in oggetto: ruoli dominanti, “ceti medi”, posizioni di lavoro subordinato, detto in sintesi e con classificazione per grandi linee. I ruoli dominanti nello Stato hanno un collegamento piuttosto diretto con quelli esistenti nelle sfere sociali di cui sopra, in particolare con quelli della sfera politica: partiti in primo luogo.
Se non si tratta dello Stato secondo quest’angolo di visuale, si resta a mio avviso prigionieri di rilevanti mistificazioni ideologiche. Ad esempio, si parla di Stato sociale, come se avessimo a che fare con un insieme di istituti semplicemente addetti all’erogazione della spesa detta pubblica se-condo certe finalità oppure altre, in base al mero rapporto di forze tra le classi (proprietarie e lavo-ratrici) esistenti nella società. In effetti, questo tipo di Stato si cristallizza in apparati in cui allignano particolari gruppi di agenti sociali – con potere assai differente a seconda dei ruoli ricoperti nella scala gerarchica – la cui attività tende alla perpetuazione di particolari oligarchie dominanti che in-seguono loro fini peculiari, e stringono alleanze di un certo tipo con i dominanti delle altre sfere so-ciali (in specie con quelli della sfera economica, decisiva nel modo di produzione capitalistico), e via dicendo. In quest’ottica, lo Stato non è in definitiva sociale – pervaso da scopi d’ordine “pubblico”, secondo quanto sostiene l’ideologia che lo pensa quale strumento di perseguimento di un interesse presunto generale – poiché, nel suo campo d’esistenza, vengono soprattutto riprodotte le posizioni dominanti di una data oligarchia (anche mediante quella ideologia generalista), e si svolgono attività volte alla costituzione di determinati blocchi sociali prevalenti (con loro specifiche rappresentanze politiche); blocchi formati dall’alleanza, trasversale, di particolari gruppi facenti parte degli agenti dominanti nelle varie sfere della società capitalistica, alleanza in cui sono pure presenti spezzoni delle classi considerate dominate (detto meglio: in tali blocchi sono cooptate le oligarchie dirigenti delle associazioni, partitiche e sindacali, costituitesi per difendere gli interessi dei dominati) .
Abbiamo insomma a che fare con qualcosa di estremamente complicato, che non può essere ri-dotto a formulette superficiali del tipo, appunto, dello Stato sociale; o alla considerazione di un’intrinseca superiorità dell’istituzione pubblica rispetto a quella privata, ecc. Mai come oggi si può cogliere la giustezza della polemica althusseriana contro la coppia pubblico-privato in quanto sommamente ideologica. Per il momento mi limito a queste poche considerazioni.

3. Configurazione del “campo” capitalistico prima e dopo l’implosione del “socialismo reale”

In quanto dirò qui di seguito, potrò sembrare al lettore eccessivamente apodittico. Tuttavia, è mio interesse formulare alcune ipotesi di non breve momento, in quanto traccia da tenere presente per analisi anche più contingenti da effettuarsi nelle successive fasi dell’evoluzione dell’attuale epoca. Vorrei insomma costruire una mappa di massima, con una rete stradale provvisoria, non an-cora asfaltata, pronta a successive correzioni dei vari percorsi. Desidero inoltre chiarire che mi atter-rò, il più possibile, ad un punto di vista fondamentalmente neutro e “oggettivo”; voglio dire che al-cune ipotesi che farò non riguardano le mie preferenze in tema di indirizzi politici e sociali, ma solo la previsione di quale sarà, a mio avviso, la dinamica del sistema nel medio-lungo periodo. Solo successivamente potranno eventualmente essere introdotte le “soggettive” scelte di campo.
Dalla fine della seconda guerra mondiale fino al 1989-91, il mondo fu diviso in due gruppi di paesi appartenenti a tipologie della formazione sociale apparentemente contrapposte; due gruppi, comunque, sicuramente antagonisti dal punto di vista politico-militare. Non esiste a tutt’oggi una soddisfacente individuazione dei caratteri specifici di quel gruppo di paesi che si ritenne, per un certo periodo, in transizione verso il socialismo e comunismo, e che poi prese la denominazione di “socialismo reale”; termine che già segnalava l’impasse di quei paesi, la sfiducia crescente che essi potessero mai diventare qualcosa di diverso da società in cui lo Stato-partito pervadeva ogni aspetto dell’organizzazione e della vita. Forse, la meno peggiore delle definizioni di quelle formazioni so-ciali fu quella che attribuiva loro il carattere di capitalismo di Stato; non c’è però da essere gran che soddisfatti . In ogni caso, oggi il capitalismo, nelle sue varie forme, può ritenersi completamente rimondializzato, e non saranno certo residui come la Corea del Nord o Cuba, ecc. a costituire delle eccezioni di rilievo. Se poi qualcuno, anche lui del tutto residuale, vuol ancora ostinarsi a ritenere la Cina un paese “socialista”, penso si possa tranquillamente fare a meno della sua opinione.
Il campo capitalistico tradizionale, in quel periodo (1945-1989/91), fu chiaramente dominato da un paese, gli Stati Uniti, che assunse la posizione centrale nel sistema capitalistico . Una parte degli anni ’50 e soprattutto gli anni ’60 furono contrassegnati da uno sviluppo capitalistico (Giappone in testa) impetuoso, fra i più elevati della storia di questa formazione sociale. Del resto, superata la cri-si petrolifera dell’inizio degli anni ’70, pur in una situazione di inflazione crescente, lo sviluppo di questa parte del mondo continuò ad essere più che apprezzabile. Furono gli anni in cui si sviluppa-rono, anche nell’ambito di certi settori marxisti o comunque da parte di economisti critici delle teo-rie dominanti (ma pure nell’ambito di queste ultime, sia chiaro), tesi vagamente ultraimperialistiche, di un capitalismo ormai organizzato, capace di coordinare la crescita dei vari paesi capitalistici e dei diversi settori produttivi fra loro, nonché di contemperare e rendere non disorganizzante la “normale” competizione concorrenziale fra le imprese.
Due furono gli elementi principali da prendere in considerazione nell’ambito di questa trasfor-mazione, che si presumeva ormai come nuovo stadio del capitalismo. Da una parte l’affermazione del cosiddetto keynesismo , l’importanza attribuita alla spesa pubblica per vincere la tendenza alla stagnazione del sistema, trattata quale effetto della carenza di domanda (consumi più investimenti) provenienti dalla sfera privata. Naturalmente, tutto questo enfatizzava la funzione dello Stato, visto ormai come il vero risolutore delle più gravi contraddizioni del capitalismo. Sia a “sinistra” che a “destra”, tali tesi prevalsero; poche le contrapposizioni da parte di quelli che sembravano residui di un liberismo in stato agonico. Il secondo elemento, che creava maggiori contrasti interpretativi fra gli studiosi, fu l’affermazione di un capitalismo ormai uscito – per la verità già da parecchi decenni – dalla fase concorrenziale, poiché i mercati erano completamente controllati da poche grandi im-prese oligopolistiche in tutti i settori produttivi fondamentali e trainanti (quelli fordisti in primo luogo). Le piccole e medie imprese allignavano ancora in certi settori marginali o comunque non trainanti; oppure si trattava di “subappalto”, di piccole imprese quali satelliti della grandi imprese leader.
Alcuni sostennero la negatività sostanziale dell’oligopolio, poiché l’accordo tra poche grandi imprese produceva una sorta di loro burocratizzazione, una minore spinta alla competizione e dun-que all’innovazione tecnica e organizzativa . Si pensava, comunque, che l’oligopolio avrebbe eli-minato ogni tendenza a gravi crisi economiche, poiché l’accordo interoligopolistico avrebbe smus-sato le punte alte del ciclo, ma anche consentito di attenuare gli sprofondamenti troppo accentuati. Altri studiosi sostennero invece che l’oligopolio, avendo la possibilità di accumulare alti profitti, era in grado di meglio finanziare la ricerca tecnico-scientifica, con forti benefici in tema di accelerazio-ne dello sviluppo del sistema. Il trend dello sviluppo capitalistico, nei decenni immediatamente suc-cessivi alla fine della guerra, pur interrotto da alcune crisi di non grave portata (dette recessioni), sembrava dar ragione a questi ultimi.
Probabilmente a partire dalla metà circa degli anni ’70 del secolo scorso, si è gradualmente af-fermata una nuova concorrenzialità interimprenditoriale all’interno del sistema capitalistico, mentre il sedicente “socialismo reale” – fosse quel che fosse – entrò in un periodo di stagnazione e degrado che condusse infine al suo sbriciolamento. La rimondializzazione del sistema capitalistico creò ini-zialmente, nei “vincitori” (e in coloro che li seguirono rinnegando ogni loro convinzione passata), grandi speranze di un nuovo accelerato sviluppo – e per di più nell’ambito del ritrovato coordina-mento e armonia di interessi tra i vari capitalismi e le varie imprese – a causa del grande allarga-mento (geografico) dei mercati che si supponeva entrassero rapidamente in fase di accelerata espan-sione.
E’ indubbio che, dal crollo del “socialismo”, gli USA hanno conosciuto, fino a pochissimo tem-po fa, un periodo di sviluppo considerevole e assai prolungato; l’Europa si è comportata però assai meno bene e il Giappone è in stagnazione praticamente da un decennio. Attualmente, la “recessione” – chiamiamola ancora così – è generale ed assai resistente alle varie “cure”. Sarebbe errato trarre la conclusione che non ci saranno più anni di sviluppo, e tuttavia l’ipotesi base di que-sto scritto è che siamo entrati in una “epoca di crisi”. Cerchiamo però di capire che cosa si vuol dire con questo.

4. Mono e policentrismo: sviluppo, crisi e blocchi dominanti

In ultimi miei scritti ho parlato spesso di mono e policentrismo per indicare epoche del sistema capitalistico caratterizzate da una relativa organizzazione e coordinamento o dall’affermarsi di una tendenza contrapposta alla precedente, una tendenza al disordine e disgregazione crescenti. L’epoca monocentrica vede la netta supremazia di una parte di detto sistema, che è stato possibile identifica-re nelle sue linee generali, almeno sino ad ora, con un determinato paese; prima l’Inghilterra, poi – dopo la seconda guerra mondiale e con riferimento al cosiddetto campo capitalistico – gli USA. L’epoca policentrica, contraddistinta da acuta competizione e da spinte disorganizzanti, è stata in particolare quella detta dell’imperialismo, tra gli ultimi decenni dell’800 e il 1945. Si tratta di un’epoca in cui le diverse “membra” del sistema – ancora una volta identificabili, sino ad ora, con alcuni paesi di massimo sviluppo e potenza capitalistici – si contendono il predominio nell’ambito dell’intero sistema per riaffermare una nuova fase monocentrica fondata sul controllo e sui decisivi interessi di una di esse.
Il fatto che queste parti del sistema in acuta competizione fra loro per la supremazia complessiva – competizione che conosce l’alternarsi di periodi di lotta tra entità di forza pressoché pari e di pe-riodi in cui una di esse prevale nettamente sulle altre e le subordina al suo coordinamento d’insieme – siano di fatto dei paesi capitalistici particolarmente avanzati ha evidentemente un suo significato, che non può però essere qui discusso in dettaglio. Mi limito ad osservare che questo combaciare tra parte del sistema (capitalistico) e paese rivela come la competizione intercapitalistica – trattata troppo spesso, dai marxisti come dagli studiosi più tradizionali, nel suo più appariscente aspetto di concorrenza economica tra differenti unità produttive di merci (imprese nel loro significato abituale e corrente) – non potrebbe invece mai svilupparsi adeguatamente, se non coinvolgesse ampiamente ed in profondità altri aspetti sostanziali della stessa quali quello politico (e militare) e quello ideolo-gico-culturale. Quanto appena detto apre la strada ad un decisivo approfondimento della teoria so-ciale con riferimento al rapporto tra sfera economica del sistema e le sfere politica e ideologica. La prima è considerata quella dominante nel modo di produzione capitalistico, e dunque nella forma-zione sociale che da questo è caratterizzata; di questa tesi della dominanza ha fatto un cattivo uso l’economicismo (non solo quello di stampo marxista), che ha considerato in modo del tutto estrin-seco i rapporti tra le diverse sfere sociali, dimenticando il loro intreccio unitario, quasi esse fossero effettivamente zone separate dell’insieme societario. Ripristinare il reale senso della dominanza dell’economico nel capitalismo non è però compito di questo scritto “di fase”, non propriamente teorico in senso stretto .
Oggi, malgrado certe apparenze (e speranze) dei primi anni ’90 del secolo scorso, viviamo anco-ra sostanzialmente in un’epoca monocentrica dominata, a partire dal 1945, dagli USA. Tuttavia, la situazione è profondamente mutata dall’inizio di questa fase monocentrica. Credo che per circa un trentennio, nel campo capitalistico tradizionale, il predominio statunitense sia stato ampio e scarsa-mente contrastato. Si ricorda spesso come oltre il 90% delle grandi imprese oligopolistiche di quel periodo (le multinazionali) fosse diretto da capitale USA. Se non vogliamo restare confinati nel più stretto economicismo, dobbiamo ricordare l’enorme potenza militare di quel paese, la sua suprema-zia scientifico-tecnologica, una certa omologazione culturale rispetto ai suoi “modelli di vita” che già allora cominciarono ad affermarsi in “occidente” (ivi compreso il Giappone) ed esercitarono la loro attrazione, pur combattuta dal potere centrale, su strati non ristretti delle popolazioni dei paesi del campo detto socialista.
Tuttavia, non è un caso che gli aspetti meno contrastati della supremazia statunitense siano an-cor oggi quelli militari, tecnico-scientifici, culturali. Nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, il predominio degli USA rispetto agli altri paesi capitalistici fu netto e senza rivali anche dal punto di vista economico-produttivo e finanziario. Il sistema capitalistico, proprio grazie a tale predominio, fu coordinato e si sviluppò non certo in modo perfettamente armonico ma con relativo equilibrio ed una discreta sincronizzazione tra le diverse parti (paesi) e tra i diversi settori produtti-vi. Logicamente, non esiste nel modo di produzione capitalistico una tendenza univoca, e nemmeno prevalente, alla centralizzazione in un Capitale, in un supergruppo di dominio imprenditoriale che organizza e pianifica l’insieme economico-produttivo (magari attraverso una accelerata centralizza-zione finanziaria); questa tendenza fu l’ossessione del 90% dei marxisti della seconda metà del ‘900, ma fu uno dei più giganteschi errori teorici commessi in tutti i tempi e in tutti i rami delle scienze sociali.
Vi furono ancora crisi, ancora tendenze allo “sviluppo diseguale” (per dirla con Lenin). Si trattò, tuttavia, di eventi non troppo gravi, senza grosse lacerazioni e scombussolamenti del tessuto pro-duttivo capitalistico. I ritmi dello sviluppo furono tra i più alti della storia di questa formazione so-ciale . Si crearono organismi economico-finanziari mondiali, si potenziarono quelli commerciali, ecc. Tutto però sotto la netta prevalenza USA; fu questo ad assicurare il relativo coordinamento tra le diverse economie, che fu tuttavia anche e soprattutto – e ancora una volta ricordo che tale fatto indica i limiti di un’interpretazione troppo strettamente economica del potere – un coordinamento tra le politiche dei vari paesi del campo capitalistico, con ferreo controllo statunitense mai vera-mente contestato se non in questioni di dettaglio (e, non a caso, di stampo più specificamente eco-nomico-commerciale o finanziario, praticamente mai in campo politico e militare).
Le non gravi, e brevi, crisi (recessioni) che si verificarono, furono interpretate essenzialmente in senso detto keynesiano: come crisi da domanda rispetto ad un potenziale eccesso di produzione in economie ad alto sviluppo capitalistico, con forti apparati produttivi e di ricerca scientifica, con un ritmo accelerato di innovazioni tecnico-organizzative, ecc. Si misero in cantiere, nei vari paesi ca-pitalistici, politiche di forte espansione della domanda proveniente dallo Stato (spesa pubblica) sen-za preoccupazioni per il deficit di bilancio (e per il Debito Pubblico che concomitantemente cresce-va). Pur se si manifestarono abbastanza presto spinte inflattive, per un buon periodo di tempo non ci si preoccupò in modo eccessivo del fenomeno, salvo attuare di tanto in tanto politiche di blando re-stringimento della suddetta spesa pubblica – e ancor più quelle di tipo squisitamente monetario, con innalzamento dei tassi di interesse, ecc. – ma in senso solo congiunturale. Non mi interessa tanto seguire i destini di questa politica, detta keynesiana, quanto di vederne le interpretazioni (distorte a mio avviso) e soprattutto le conseguenze sociali.
Le interpretazioni si limitano quasi esclusivamente o alla considerazione degli effetti anticon-giunturali della spesa pubblica, o a quella dei suoi effetti sociali in tema di “compromesso” tra le classi (capitalistica e lavoratrice) con il tentativo (riuscito) di contenere il “comunismo” in occi-dente. La spesa pubblica sarebbe una sorta di volano dell’economia capitalistica, in specie nei paesi “opulenti” e a forte apparato produttivo. Tuttavia, svolgendo questa funzione di sostegno anticon-giunturale della domanda, la spesa pubblica migliora nel contempo le condizioni di vita delle grandi masse lavoratrici, costituite da consumatori per eccellenza (la loro propensione al consumo è più alta di quella di altri gruppi sociali). Si prendono due piccioni con una fava: si controlla in modo decisamente migliore ed efficace il ciclo economico e si smussano i motivi di forte contestazione sociale, legati alla povertà o comunque a grame condizioni di vita. La teoria della crisi da sottocon-sumo, formulata fra gli altri dalla Luxemburg, sarebbe la più corretta in campo marxista; solo che essa non contemplava la possibilità che il sistema capitalistico fosse in grado di aumentare consi-stentemente, e per lunghi periodi di tempo, i salari (reali) e di concedere una serie di altre prestazio-ni (pensioni, sanità, ecc.) che migliorano le condizioni di vita dei lavoratori (della “classe”), smus-sandone lo spirito rivoluzionario e facendone i consumatori delle merci capitalistiche, prima di allo-ra prodotte in eccesso tale, rispetto alla domanda, da creare crisi disastrose come quella del ’29.
Interpretazione che oggi appare carente. Un dubbio si insinua subito, osservando la direzione as-sai diversa presa dalla spesa pubblica negli USA e negli altri paesi capitalistici avanzati (Europa e Giappone). Negli Stati Uniti non si è fatto largo posto a spese di tipo sociale, ma è stata sempre en-fatizzata la spesa militare e, in subordine, quella per forti avanzamenti scientifico-tecnici (in gran parte, ma non solo, legati al settore militare) che hanno dato a questo paese un vantaggio, in termini di potenza (non solo bellica), assai cospicuo. Negli altri paesi capitalistici fu invece avvantaggiata proprio la spesa pubblica detta sociale. Quello che noi chiamiamo Stato sociale è una creazione so-prattutto europea, non certo statunitense. Si potrebbe essere tentati di dare di questo fenomeno una spiegazione troppo semplice: l’Europa (e il Giappone) usciva dalla guerra con enormi distruzioni, con forte miseria delle masse. La vicinanza del campo “socialista” imponeva una politica economi-ca atta a favorire la pace sociale o comunque a smussare le potenzialità di rivolta.
Che ci sia stato anche questo elemento non voglio metterlo in dubbio, e tuttavia tale considera-zione non sembra affatto sufficiente alla luce dell’oggi. A partire dal piano Marshall, gli USA di-mostrarono chiaramente l’intenzione sia di incrementare l’ampiezza dei mercati esteri ove vendere le proprie merci sia – e questo è il vero fulcro della loro azione politica – la volontà di subordinare gli altri paesi del campo capitalistico alla ormai indiscussa centralità del loro paese, cioè del loro si-stema complessivo: economico-produttivo, tecnico-scientifico, finanziario, politico, ideologico. Per ottenere simili risultati, non era sufficiente creare un ampio mercato (di prodotti e denaro), il più unificato che fosse possibile ed in forte ripresa; era pure indispensabile un sistema di “alleanze”, cioè di rapporti interstatali che vedessero gli USA in posizioni di strapotere politico-militare (si pensi alla NATO, ma non solo); era necessario che si affermassero forze e strutture politiche e cul-turali confacenti al dominio statunitense. Questo non è comunque un saggio storico. Mi limito a considerare l’effetto principale di questa politica di “unificazione” del mercato capitalistico e di co-stituzione di un sistema “unitario” di alleanze, che vide in ogni caso la schiacciante supremazia statunitense in ogni settore (sfera) della formazione sociale capitalistica internazionale.
Nei paesi non centrali si venne istituendo un peculiare intreccio tra “pubblico” e “privato”, cioè tra sfera politica ed economica della società capitalistica, dunque tra gruppi di agenti dominanti ca-pitalistici in formazione negli apparati politici (Stato, partiti, ecc.) e in quelli economici (imprese in primo luogo). I primi (la cosiddetta borghesia di Stato) allignarono sia nel vasto settore produttivo di tipo statale sia, in specie, negli organi preposti appunto alla spesa pubblica. Nell’ambito di quest’ultima non si sconfinò tuttavia mai, nei paesi non centrali, verso i settori che potevano raffor-zare una politica militare o, detto più in generale, una politica di ritaglio di proprie “sfere di influen-za” (del tipo imperialistico, come quella affermatasi nella precedente epoca policentrica) . Lo Stato detto sociale – o, se si preferisce, quel modello di capitalismo che viene spesso denominato renano – stette ad indicare una particolare configurazione delle classi dominanti.
Da una parte, si affermarono forti gruppi di agenti politici situati in una rete di apparati statali, e pubblici in genere, costituitisi in base alla manovra delle spesa pubblica per fini detti sociali; in que-sti gruppi furono gradatamente cooptate le oligarchie (partitico-sindacali) che ufficialmente rappre-sentavano gli interessi delle classi dominate, cui toccava una certa quota della spesa in questione, che serviva però soprattutto a rafforzare l’insieme delle frazioni dominanti di questo tipo. Natural-mente, si trattava di un rafforzamento sul piano del dominio interno a ogni dato paese non centrale, poiché era di fatto esclusa, e chiaramente impedita, la direzione imperialistica dei flussi di spesa.
A questi agenti dominanti pubblici si “opponevano”, ma in realtà erano con questi in rapporto di tipo simbiotico, gli agenti dominanti facenti capo alle direzioni strategiche delle grandi imprese oli-gopolistiche del settore privato. Anche quest’ultimo godette sempre ampiamente della rilevanza as-sunta dalla spesa pubblica per fini detti sociali. Si può ben parlare di un capitalismo “privato” assi-stito dallo Stato o, forse sarebbe meglio dire, mungitore dello Stato . La spesa pubblica dei diversi paesi capitalistici non centrali, in un’area capitalistica che sempre più si apriva al libero sposta-mento di merci e capitali, ampliava i mercati a vantaggio delle imprese della potenza centrale, ma anche, subordinatamente, di quelle di tali paesi. In più, queste ultime godevano dei vantaggi di uno Stato che le foraggiava continuamente in caso di difficoltà e di scarsa competitività sui “liberi” mercati .
E’ evidente che politiche di questo tipo generavano, nel sistema capitalistico, l’ulteriore raffor-zamento della centralità statunitense, con la concomitante formazione, nei paesi non centrali, di un blocco dominante costituito da tre frazioni fondamentali: a) borghesia di Stato: industria e finanza in mano statale nonché dirigenti (ruoli e funzioni) di tutti gli organi che avevano potere di inter-vento e disposizione sulla spesa pubblica (“a fini sociali”, ma indirizzata anche ampiamente al fi-nanziamento delle dirigenze strategico-imprenditoriali private); b) le suddette dirigenze imprendito-riali private in cui si cristallizzava un atteggiamento spesso poco competitivo, fatto di chiacchiere e di “grandi progetti”, ma soprattutto mirato ad ottenere il massimo possibile dall’alleanza con la borghesia di Stato e dall’erogazione della spesa pubblica; c) oligarchie delle istituzioni partitico-sindacali createsi per difendere, nominalmente, gli interessi delle classi lavoratrici subordinate; oli-garchie avvantaggiatesi dell’erogazione della spesa in oggetto ed entrate alla grande, a volte anche alla pari o quasi , nell’alleanza costituente il blocco (economico-politico-ideologico) dominante.
Questa politica, frutto della formazione (certo non immediata) di una alleanza tra agenti domi-nanti della tipologia appena indicata, è apparsa a lungo quasi un capolavoro, di cui sono state artefi-ci, in particolare, le DC tedesca e italiana (ma anche le forze conservatrici giapponesi non furono da meno). Si raggiunsero alti livelli di sviluppo e vennero gradualmente attenuati i conflitti sociali; o in ogni caso, il carattere di questi ultimi fu sempre meno, come suol dirsi, “antisistema”. L’ampliarsi dei mercati, malgrado la scarsa competitività dei gruppi imprenditoriali mungitori dello Stato, favorì anche nei paesi non centrali la crescita e il potenziamento di settori produttivi (e di grandi imprese in questi settori) del tipo detto fordista, comunque quelli considerati all’epoca come trainanti e deci-sivi per lo sviluppo di un paese capitalistico avanzato; in primo luogo, il settore dell’auto. Nell’ultimo quarto del secolo XX sembrò affermarsi a tutto campo una forte competizione interca-pitalistica (quindi policentrica) almeno a livello produttivo (e anche finanziario). All’inizio degli anni ’90, dopo la rimondializzazione del sistema capitalistico, si parlò addirittura di una situazione di tripolarità: USA, Europa (Germania in testa), Giappone.
In realtà, già da molti anni, forse in modo poco visibile all’inizio, gli USA avevano iniziato a spostare investimenti cospicui verso nuovi settori di punta, che sembrano chiaramente oggi destinati a divenire i nuovi trainanti. La nuova direzione assunta dagli investimenti è stata preceduta, e ac-compagnata, da finanziamenti rilevanti alla ricerca scientifico-tecnologica. All’epoca, il Giappone era in forte sviluppo, si pensava potesse prendere la leadership mondiale nel giro di pochi decenni. Avanzata la sua industria automobilistica che vinceva nella competizione mondiale, notevole la produzione di componenti microelettronici. Particolarmente grandi le dimensioni delle sue princi-pali banche, ancor oggi fra le prime su scala mondiale, ampio il flusso di capitali all’estero; e non solo in Asia, dove il Giappone sembrava poter prevalere nel breve periodo sugli USA, ma anche in quest’ultimo paese, il cui settore immobiliare vedeva la cospicua presenza del capitale giapponese.
Di tutto questo resta oggi ben poco. La prevalenza statunitense si è nettamente riaffermata in ogni area mondiale. E non si tratta solo di quella militare; gli Stati Uniti hanno decisamente sopra-vanzato tutti i paesi non centrali sul piano scientifico-tecnico e per quanto concerne la produzione nei settori di punta delle biotecnologie, telecomunicazioni, ecc. Si è tuttavia manifestato un sinto-mo preciso del mutamento di fase all’interno dell’epoca ancora monocentrica iniziatasi dopo il 1945, mutamento accentuatosi proprio a partire dalla rimondializzazione del capitalismo dopo il 1989-91 (implosione del “socialismo reale” e dissoluzione dell’URSS). Nell’ambito del campo ca-pitalistico (tradizionale), il primo trentennio dell’epoca caratterizzata dalla centralità degli Stati Uniti vide lo sviluppo concomitante e, in un certo senso, coordinato – pur interrotto periodicamente dalle recessioni – di tutti i paesi di quell’area. Negli anni ’90 del secolo scorso, al contrario, gli USA hanno conosciuto un periodo di accrescimento sostenuto e continuo per un buon decennio, mentre – sarà una coincidenza – il Giappone è andato incontro ad una contemporanea lunga fase di stagnazione che perdura, e anche l’Europa non è stata particolarmente brillante.
Oggi siamo in una situazione di crisi (congiunturale?) generale, ma che non sembra esprimere affatto, come un tempo, un andamento economico concomitante, relativamente coordinato e sostan-zialmente complementare fra i vari paesi capitalistici, sia nella fase di crescita che in quella detta di recessione. La sensazione è invece quella di caos, di carenza di controllo, di disorganizzazione, di perdita della capacità di essere coordinati e complementari. In questo senso, mi sembra che siamo all’inizio, ma solo all’inizio, di una “epoca di crisi”. E ancora una volta, una breve digressione si rende necessaria.

5. Recessioni e “vera” crisi

Come ho già affermato, in campo marxista, anche per l’influenza dominante del keynesismo do-po la seconda guerra mondiale, si affermò a lungo quale teoria prevalente della crisi quella di ascendenza luxemburghiana, pur corretta e rivista, in particolare da Sweezy e altri dell’importante rivista americana Monthly review, in parte marxista in parte radical. Nella situazione strettamente monocentrica in cui si trovava allora il campo capitalistico (occidentale), con il relativo coordina-mento e complementarietà dei vari sistemi economici capitalistici strettamente collegati a quello statunitense, tale teoria sembrava funzionare abbastanza bene. Essa, però, troppo spesso previde cri-si catastrofiche del capitalismo del tipo del 1929 o all’incirca simili. Si sostenne che solo la spesa militare del paese centrale ritardava l’evento drammatico, impedendo un cospicuo eccesso di pro-duzione (afferente nei mercati) rispetto alla domanda (di beni di consumo e di mezzi produttivi). Tuttavia, la spesa militare si accompagnava a grandi avanzamenti scientifico-tecnici che innalzava-no rapidamente la produttività del lavoro, con ricadute “virtuose” anche nei settori della produzione non militare; per cui il problema si sarebbe riproposto con maggior gravità ad ogni ciclo produttivo, e la crisi sarebbe stata infine inevitabile. Il corollario di tale tesi era che ogni progresso conseguito dalla lotta per la pace, creando intralci all’accrescimento della spesa militare, avrebbe avvicinato il momento della resa dei conti per il sistema nel suo complesso.
In tutto quel periodo, le crisi furono, come già rilevato, recessioni; non sempre modeste, ma non tali certamente da mettere in ginocchio il capitalismo. Anzi, accadde proprio il contrario: il trend dello sviluppo di tale sistema economico-sociale fu tale da rappresentare uno degli elementi di sem-pre più netta prevalenza del capitalismo rispetto al campo avverso, in preda alla lunga stagnazione del periodo brezneviano e alla inconsistenza delle riforme propugnate da Gorbaciov, che crearono una situazione ancora peggiore , fino al disfacimento finale. Di fronte alle brillanti previsioni for-mulate su base marxista da Lenin agli inizi del XX secolo, la completa débacle del marxismo degli ultimi decenni – e non solo di quello tradizionale, economicistico, ma anche delle sue varianti che si vantavano di essere “moderne” e “innovative” – dovrebbe pur insegnare qualcosa agli anticapitali-sti ancora in grado di ragionare .
Sintetizzo: dopo un periodo di stretto monocentrismo (limitato al campo capitalistico tradizio-nale), iniziò una fase parzialmente policentrica sul piano economico-produttivo ma non su quello militare, scientifico-tecnico, culturale. Approfittando dell’ancora ampia preminenza – e nel mentre affondava il campo avverso e si rimondializzava il sistema del capitale – gli USA hanno nuova-mente sopravanzato ogni rivale nei nuovi settori di punta, quelli che, dopo adeguato spurgo di tanti imprenditori “pescecani” buttatisi sui nuovi affari, diventeranno trainanti e fonte del possibile pro-trarsi della loro centralità. Ritengo tuttavia poco probabile, pur se non si intravedono molti sintomi di un cambiamento d’epoca, la totale acquiescenza dei paesi capitalistici avanzati non centrali nei confronti degli USA in vista di un nuovo coordinamento e complementarietà orientati da tale paese.
Al momento non si constata, lo ripeto, alcuna capacità dei paesi in questione di opporsi adegua-tamente alla supremazia statunitense, per i ritardi accumulati in essi dagli agenti dominanti impren-ditoriali e da quelli politici, uniti nella creazione di un capitalismo assistito dallo Stato. Tuttavia, lo sviluppo di tali paesi è andato troppo avanti, grandi masse di ricchezza sono state create in settori tradizionali, addirittura prefordisti – anche se oggi assistiti da tecnologie informatiche sia nel campo produttivo che in quello del marketing e finanziario – non particolarmente organizzati in senso oli-gopolistico (con dimensioni d’impresa medio-grandi e medie, o addirittura ancora inferiori), che apparentemente, almeno in questa fase, subiscono meno i contraccolpi della crisi incipiente, produ-cendo beni “sempre necessari” (alimentari, abbigliamento, mobilia e legno, vetro, materiali da co-struzione, e molti altri). La crisi però batte, l’eventuale miglioramento di certe economie avviene generalmente a svantaggio di altre; si nota assai meno il reciproco vantaggio di un tempo. I settori tradizionali d’altronde – anche per le minori dimensioni imprenditoriali con difficoltà per ciò che concerne le economie di scala (oggi sono in forte sofferenza tutti i discorsi fasulli di anni recenti sul “piccolo è bello”, ecc.) – rischiano di vedere fortemente ridotti nella crisi i margini di profitto o di subire addirittura gravi perdite. Grazie, fra l’altro, all’intervento del sistema finanziario, è prevedi-bile che, nel medio periodo, investimenti cospicui si sposteranno, anche nei paesi non centrali, verso i settori di punta con la crescita della competizione nei confronti delle analoghe industrie statuniten-si.
L’ipotesi che mi sento di fare – come scommessa, non però fondata a mio avviso su speranze cervellotiche – è che stiamo entrando in quella che ho denominato epoca di crisi, un’epoca di scoordinamento, non equilibrio, disordine crescente (non semplicemente dei mercati), competizione sempre più accanita tra sistemi produttivi in larga parte via via più similari, e non invece comple-mentari. Questo non significa, lo ripeto, che non debbano più esserci anni di sviluppo; ma quest’ultimo sarà generalmente di breve durata, con ritmi blandi e stentati, probabilmente non come avanzata generale dell’intero fronte dei paesi capitalistici avanzati, e con prospettive spesso sfavo-revoli per quelli che si trovano all’inizio del cosiddetto decollo. Le difficoltà dovrebbero quindi cre-scere per tutti – ma per certuni più che per altri – e l’azione “comune” diverrà sempre più un ricordo del passato. Non mi sento di profetizzare crisi del tipo del ’29, e non mi sento di escluderle. Tutta-via, credo alla possibilità di competizioni assai più complessive che condurranno a fenomeni non necessariamente assimilabili alle guerre mondiali del secolo scorso, ma che avranno un aspetto de-finibile militare (in senso lato o stretto che possa essere).
L’importante è comprendere che si sta ripresentando, al di là delle forme concrete che assumerà, una situazione di crisi legata al caos e alla disgregazione che al sistema sono imposti dall’esplodere di una aperta – e con mediazioni sempre più difficili – competizione intercapitalistica, per il mo-mento solo interimprenditoriale (e solo incipiente, iniziale). Non dunque la crisi da sovraproduzione (o da sottoconsumo), ma quella che per Lenin era provocata dall’anarchia mercantile. Certamente, questa dizione è limitativa, andava bene nel capitalismo di libera concorrenza, costituito da migliaia di imprese, di dimensioni modeste rispetto a quelle che oggi conosciamo, in competizione in ogni settore produttivo. Lo Stato, in quel caso, appariva veramente come qualcosa di staccato rispetto al sistema delle imprese; sia che venisse ritenuto organo neutrale addetto al perseguimento di fini ge-nerali, sia che fosse invece combattuto quale “comitato d’affari della borghesia” . In quella situa-zione, ogni rottura del circuito degli scambi mercantili in un dato punto poteva mettere in moto una reazione a catena, con lo scompaginamento dell’intero tessuto economico-produttivo e finanziario.
Una volta sorta la crisi, si presenta evidentemente anche il problema delle merci invendute; vi è quindi un relativo eccesso di produzione rispetto alla domanda. Così pure, cade il saggio di profitto, ma non esattamente per l’aumento tendenziale della composizione organica del capitale. Tutti i vari fenomeni di crisi sono sempre compresenti. Si tratta però di afferrare l’elemento centrale, decisivo, l’anello (logico, non meramente cronologico) da cui si diparte la catena della crisi. E tale anello – Lenin lo colse con la sua solita acutezza – è rappresentato dall’inesistenza del Capitale e dalla pre-senza, invece, dei tanti capitali in lotta acuta fra di loro, lotta che in certe epoche (appunto quelle monocentriche, di relativo coordinamento e complementarietà orientati da un sistema economico preminente) conduce soltanto a crisi minori (se vogliamo, a discrepanze tra produzione e consumo, alle recessioni); mentre nelle epoche di piena fioritura di tale competizione in tutti i settori, senza coordinamento e complementarietà, si verifica la “vera” crisi, quella più radicale, connessa al caos e alla disgregazione di un tessuto prima unitario.
Fin dall’inizio del secolo XX, in una situazione che non era più quella della libera concorrenza, sarebbe stato necessario ripensare lo stretto intreccio tra i gruppi di dominanti delle sfere economi-ca, politica, ideologica. La competizione non poteva certo più essere solo economico-produttiva, in-vestiva ogni ambito sociale; e la crisi che ne conseguiva, la “vera” crisi, quella da caos e disgrega-zione, da incapacità di controllo e coordinamento centrali, non era più soltanto l’anarchia mercanti-le, ma si venne manifestando pure nelle violente forme delle guerre (quelle mondiali in primo luo-go); a mio avviso molto più significative dell’evento del ’29 , in riferimento alla crisi mondiale ca-pitalistica tipica di un’epoca policentrica (e non generale e definitiva, come fu pensata da molti co-munisti di quel tempo). Lenin intravide il mutamento, e il suo saggio sull’imperialismo lo dimostra. Tuttavia, continuo a pensare che non siamo ancora arrivati ad una adeguata analisi dell’intreccio tra i gruppi dominanti delle sfere sopra indicate. Tanto meno lo stiamo facendo oggi, quando la “vera” crisi incombe (non per domani o dopodomani, almeno non credo); probabilmente, essa si manifeste-rà in altre forme, credo non meno dolorose di quelle passate, che saranno “inventate” dalla storia dei prossimi decenni. Io non mi sento di fare il profeta; dico solo di aspettarmi che l’aspetto, più o me-no latamente, militare sarà presente, e immagino con ampiezza, nelle crisi future.
Ma perché la crisi di quest’epoca è in fondo ancora solo incipiente? E sarà molto tormentosa, e lunga, e incerta, con connotati di difficile interpretazione; e perfino con brevi periodi in cui si crede-rà di “avercela fatta” . Proprio come quando l’influenza non si decide ad esplodere in un bel feb-brone, perché l’organismo è assai poco reattivo, ha deficienze immunitarie.

6. Neokeynesismo e neoliberismo: una falsa alternativa

La crisi è soltanto, al momento, incombente, ma non ancora esplosiva, a causa della lentezza con cui si vanno disgregando i blocchi dominanti nei paesi capitalistici avanzati non centrali. Siamo in presenza di una più acuta competizione interimprenditoriale, ma l’aspetto interimperialistico – tra entità di tipo statale, con potenza politico-militare adeguata al tentativo di ritagliare diverse sfere d’influenza all’interno di quello che appare ancora come un impero a dominanza statunitense – è per il momento fortemente carente. Nella considerazione delle tendenze in atto non potranno co-munque aiutarci i soli dati economici o finanziari; dobbiamo tornare alla grande teoria marxista (ri-visitata e riformulata ampiamente), in grado di cogliere sia la dominanza dell’economico nel modo di produzione capitalistico sia, ancor più, la struttura decisiva dei rapporti (e la loro dinamica) che caratterizza detto modo di produzione e la formazione sociale che esso innerva .
La continua querelle tra neokeynesismo e neoliberismo appare assai istruttiva, se letta con lenti diverse da quelle normalmente utilizzate. Non è un caso che i centro-destra europei, quando vanno al Governo, cianciano di liberismo, ma tendono ad applicare ricette anti-crisi che appartengono all’altra scuola; e soprattutto, non sono politicamente in grado di apportare correzioni veramente sostanziali all’organizzazione dello Stato, della spesa pubblica (sanità e pensioni, ma soprattutto foraggiamenti ad industrie private in crisi), del mercato del lavoro, ecc. . L’unico principio del neoliberismo che viene rispettato è quello vigente sul piano internazionale (ma che, in definitiva, non è mai stato veramente contraddetto durante l’intero periodo della centralità statunitense): cioè quello della cosiddetta globalizzazione e della “libera” competizione nei mercati mondiali, per la quale è necessario attrezzarsi….ma non si sa bene come, visto che tale “libertà” avrebbe bisogno, ogni tanto, di installare qualche base militare qua e là, onde contrastare quelle messe dappertutto dagli Stati Uniti.
La “sinistra”, tuttavia, non presenta vere diversità. Difende, a parole e nemmeno tutta unita, qualche vestigia del “pubblico”, ma solo perché vi è l’esigenza di mantenere in piedi certi apparati da cui non sono disposte a “schiodarsi” le oligarchie partitico-sindacali, che sulle briciole date ai dominati erigono il loro potere, che sui voti estorti ai dominati fondano le residue possibilità di continuare a far parte dei blocchi dominanti, dell’alleanza tra gli agenti di questi ultimi che abbiamo già individuato quale tipica dei paesi avanzati non centrali.
Qui “casca l’asino”. Malgrado tutte le “privatizzazioni” – che finora si sono limitate quasi esclu-sivamente alla dismissione di aziende in mano pubblica, cedute ai “soliti noti” dell’industria e fi-nanza private, che hanno spesso conservato in esse lo stesso staff manageriale dell’era pubblica – il vecchio blocco dominante è stato certo intaccato, più per la crisi che avanza che per una politica li-berista, ma non smantellato né in via di radicale ristrutturazione. Si spostano alcuni rapporti di forza interni, ma non avviene la disgregazione dell’intero blocco dominante con la sua sostituzione da parte di uno di nuova formazione. Questo accade perché, ancor più che nell’epoca precedente, la politica (gli agenti dominanti politici) è in stato di soggezione rispetto all’economia (cioè, agli agenti dominanti strategico-imprenditoriali, sia industriali che finanziari).
In particolare nei paesi non centrali, la grande impresa della vecchia epoca (“fordista”), pur sen-za più lo slancio di un tempo, mantiene la preminenza nel sistema economico-produttivo . Quanto ai settori di più “antica” tradizione, con numerose imprese di medie o anche piccole dimensioni che hanno accumulato grandi ricchezze, essi rischiano di entrare in una fase di crescenti difficoltà, se si aggravasse la crisi, ma non hanno capacità e lungimiranza per pensare diversi indirizzi di investi-mento in settori “nuovi”, i potenziali trainanti dell’epoca futura; e già oggi settori importanti, anche se forse non ancora portanti, del sistema strategico-imprenditoriale centrale (statunitense). Nel suo complesso, questo “strato” di agenti dominanti economici (imprenditoriali) dei paesi non centrali può magari a volte mugugnare e tentare di aggirare la pervasiva strategia imperiale della potenza centrale, che – anche (ma non solo) tramite successive operazioni militari – tende ad avvolgere tutto il globo nella sua ragnatela di predominio complessivo; però poi cerca di adattarsi a quest’ultimo, stipula accordi parziali, e in posizione subordinata, onde conseguire vantaggi legati ancora ad un minimo di complementarietà.
Le carenze strategiche (a livello globale) dei gruppi di agenti dominanti di tipo economico, nei paesi non centrali, non possono che riflettersi ormai sempre più negativamente sulla sfera politica. Per questo, viene meno una vera differenza tra “destra” e “sinistra”, per questo le alleanze di “liberisti” e “keynesiani” sono spesso trasversali nei due schieramenti politici. Il vero fatto è che (neo)liberismo e (neo)keynesismo esprimono entrambi – pur azzuffandosi caoticamente, e spesso solo verbalmente, sulla funzione dello Stato, sul “dirigismo” o meno – politiche (economiche) di sostanziale accettazione della centralità statunitense; sono cioè del tutto incapaci di uscire dalla “vecchia epoca”, che sembrava finita – ed è comunque entrata, a mio avviso, in lenta dissoluzione – con il crollo socialistico e la rimondializzazione capitalistica.
Il neokeynesimo è tutto teso al “mercato” (e al potere) interno; non enfatizza perciò la cosiddetta globalizzazione, perché vede la competizione esterna in quanto garantita dal, e come prolungamento del, mantenimento di una sufficiente coesione (anche sociale) all’interno. Esso quindi consente solo gradualmente, ma di fatto rallenta il più possibile, lo sgretolamento del vecchio blocco dominante , tipico del relativo coordinamento e complementarietà dei sistemi economici non centrali rispetto a quello centrale in un’epoca (ormai in sia pur lento superamento) largamente monocentrica. Il neoli-berismo pretenderebbe che lo Stato non assistesse e salvasse imprese decotte e non più adeguate alla competizione nei mercati mondiali, ma se smantellasse veramente lo Stato in ogni sua funzione politica, lascerebbe il complesso imprenditoriale del proprio paese in completa balia di quello cen-trale, che sa invece usare lo Stato a fini di potenza (militare, in primo luogo, ma non solo tale) per creare una sua sfera di influenza tendenzialmente globale (mondiale), cioè più compiutamente im-periale; sfera di influenza in cui gli altri paesi (i loro apparati economici) possono entrare in compe-tizione solo entro i limiti assegnati da quello centrale (imperiale) .
Se vogliamo identificare, in modo però non del tutto esatto, il neokeynesismo con la “sinistra” e il neoliberismo con la “destra”, possiamo dire quanto segue. La “sinistra” tende a mantenere il vec-chio blocco di agenti dominanti, il blocco della vecchia epoca monocentrica – in specie quella ante-cedente al crollo del “socialismo reale” e alla rimondializzazione del capitalismo – che fa dello Stato un organismo di spesa per fini detti sociali, per ammortizzare e smussare cioè lo scontro “di classe”, ma soprattutto per foraggiare abbondantemente un gruppo di agenti dominanti strategico-imprenditoriali, che si sono perciò progressivamente disabituati alla competizione e inseguono con-tinui compromessi e cedimenti nei confronti dei loro affini del sistema centrale. Il neoliberismo, se perseguito con intento radicale, non smantella soltanto l’apparato di grandi imprese mungitrici dello Stato, ma consente tutt’al più lo sviluppo – che, in epoca di crisi, manifesta la sua fragilità, anche a causa di dimensioni imprenditoriali non “ottimali” – di imprese di “nicchia” o quanto meno attive in settori che non intaccano la supremazia complessiva del paese centrale fondata sulla ricerca scienti-fico-tecnica e l’industria di punta.
Difficile quindi che il neoliberismo possa essere applicato integralmente, perché porta a scon-quasso sociale senza dare al sistema (paese), che eventualmente governi, alcuna autonoma robu-stezza nella competizione globale; non raggiunge cioè proprio quel fine per cui dichiarava necessa-ria l’applicazione della sua specifica ricetta. Di conseguenza, se la “sinistra”, e non solo in Italia, appare ormai del tutto inadeguata alla conduzione di una politica che crei, almeno progressivamen-te, basi solide per una futura competizione con gli USA, la “destra” si dimostra un’alternativa non credibile, praticamente inesistente o comunque inefficace, in quanto obbligata – non solo, ma certo in misura consistente, dalle carenze strategiche dei gruppi di agenti economico-imprenditoriali di riferimento – a chinare la testa e a seguire supinamente la politica imperiale del paese centrale.
Se la congiuntura (oggi direi epoca) è economicamente favorevole, allora tutte le magagne ven-gono nascoste: sia quelle del keynesismo (“sinistra”) sia quelle del liberismo (“destra”). Se si en-trasse, come qui si ipotizza, in un’epoca di crisi, né l’uno né l’altro sarebbero la panacea, entrambi mostrerebbero di essere decrepiti. Naturalmente, non siamo in un’epoca realmente policentrica. Non penserei quindi ad una imminente crisi generale e verticale; piuttosto, al momento, ad un’epoca di relativa stagnazione, di sviluppo – quando ci sarà – stentato, difficilmente concomitante e quindi senza avanzata parallela dell’intero gruppo dei paesi capitalistici avanzati. Penso allo scoppio delle cosiddette “bolle”: quella di borsa già avvenuta e magari, fra un po’, quella immobiliare. Penso alla profonda ristrutturazione di grandi gruppi industriali e finanziari, con la fine ingloriosa di alcuni, fu-sioni e concentrazioni nelle mani dei “vincenti”; penso alla fine dell’accumulo di grandi ricchezze in settori più tradizionali, secondo il modello della piccola e media impresa (tipo nord-est italiano), che incontrerà qualche buona difficoltà in più e smarrirà i toni trionfalistici. Penso a grosse diffi-coltà per i paesi detti emergenti, già in affanno per la verità, salvo poche eccezioni (fra cui indub-biamente la Cina, almeno per il momento).

7. Tornare all’analisi dei rapporti (e blocchi) sociali

Quanto è stato sostenuto nei paragrafi che precedono non è legato a discussioni intorno a feno-meni solo economici: produzione, investimenti, domanda, consumi, risparmi, ecc. Non ho fatto rife-rimento a politiche monetarie – certo in funzione di obiettivi non solo monetari – di espansione o contenimento del deficit e del Debito pubblico, ecc. Ho voluto scegliere una direzione, per il mo-mento certo ancora per linee molto generali, che è stata sempre la grande assente nei dibattiti politi-co-economici, sia fra gli studiosi dell’establishment sia fra quelli marxisti e critici del capitalismo. Nell’immediato dopoguerra, nel periodo di massimo fulgore dell’impostazione keynesiana, tutta la discussione verteva sulle tendenze alla stagnazione del sistema capitalistico se lasciato alla “mano invisibile” del mercato, quindi sulla funzione dello Stato come risolutore della crisi. I dibattiti in oggetto – forse anche per la presenza della competizione tra i “due campi” (capitalistico e presunto socialista) – mettevano in ombra quali strutture di rapporti sociali si andavano affermando nei di-versi paesi capitalistici, quale configurazione dei differenti blocchi dominanti era effetto, ma anche garanzia, dell’emergere degli USA quale centro del capitalismo, poi rimondializzatosi.
Nel paese capitalistico centrale (e imperiale), lo Stato manteneva tutte le sue tradizionali caratte-ristiche di potenza e di coercizione, sul piano interno ma soprattutto esterno, con l’estrinsecazione di una attività volta alla supremazia nell’ambito del campo di sua pertinenza e all’attacco (e sgreto-lamento graduale) dell’altro campo (“socialista”). Una volta conseguito tale ultimo obietivo, la po-litica statunitense si pose quello della preminenza a livello mondiale. Una simile politica aveva, e ha, come suo fondamento sociale – e nel contempo rafforza ulteriormente – una ben precisa allean-za tra agenti dominanti: a) quelli strategico-imprenditoriali sempre innovativi e aggressivi, quindi particolarmente competitivi; b) quelli politici, attivi in particolare nella sfera sociale denominata Stato, che coadiuvano, in simbiotico intreccio, i precedenti con particolare riguardo al rafforza-mento della potenza militare, all’incremento della ricerca scientifico-tecnica, all’esportazione e im-posizione di ben precisi modelli ideologico-culturali adeguati a riaffermare la supremazia statuni-tense anche su questo piano.
Nei paesi non centrali, lo Stato, in quanto campo di formazione di dati rapporti sociali, si struttu-rò in ruoli ricoperti, ai vertici, da agenti dominanti politici che agirono pur sempre in forte intreccio con quelli della sfera economico-imprenditoriale, ma con finalità molto differenti da quelle sussi-stenti nel paese centrale: attenuazione del conflitto “di classe” (o, come si è poi detto, migliora-mento delle relazioni industriali, concertazione, ecc.), sostegno pubblico del settore imprenditoriale, sia con intervento manageriale diretto sia “assistendo” (finanziando, ecc.) il “privato”. Tutto ciò diede quindi alla spesa pubblica non tanto dimensioni quanto direzioni di investimento del tutto di-verse rispetto a quella USA. Fu perseguito il rafforzamento del blocco dominante, pubblico-privato, soprattutto sul piano interno, ponendosi sotto l’ala protettiva del centro imperiale per quel che con-cerne la politica militare e di potenza.
Dopo il crollo del “socialismo reale”, proprio quando molti pensavano ad un grande allarga-mento degli spazi mercantili a vantaggio di tutti i paesi capitalistici avanzati, si sono verificati fe-nomeni di scollamento, disordine, carenza di controllo mondiale. Il tipo di sviluppo del capitalismo detto renano, in particolare, ha mostrato la corda. In realtà, non si tratta semplicemente della crisi di un “modello di sviluppo”; sono entrati invece in disfacimento i blocchi dominanti in auge nei paesi non centrali (che sono appunto quelli del modello “renano”), non più in grado di fruire della com-plementarietà e coordinamento con la potenza centrale. Essi, malgrado la loro subordinazione, ave-vano comunque parzialmente approfittato nell’epoca precedente della competizione tra i due campi e, in particolare, della rivalità tra USA e URSS . Dopo il 1989-91, tale minimale “rendita di posi-zione” cadeva, ed entravano in crisi in forme diverse le forze politiche che ne avevano goduto; non si mise in moto però nessuna reale formazione di nuovi blocchi dominanti completamente diversi dai precedenti.
I liberisti puntarono il dito contro la spesa pubblica e il Debito che ne conseguiva, sostenendo che ciò dava impulso all’inflazione con perdita di competitività dei vari sistemi economico-imprenditoriali dei paesi capitalistici europei. In realtà, l’inflazione era già decrescente rispetto alle punte degli anni ’70 e ’80. Inoltre, ciò che conta sono i differenziali nei tassi di inflazione, ed una politica europea non dovrebbe essere incapace, volendo, di armonizzare questi tassi anche in pre-senza di politiche di spesa espansive. Si è ripiegato spesso, ipocritamente, sulla necessità di una maggiore competitività dell’Europa rispetto agli USA, ma sia questo paese che il complesso dei paesi stretti nell’Unione Europea sono, dal punto di vista del rapporto produzione-domanda, aree largamente autocentrate, nel senso che almeno l’85% della produzione di ognuna di esse, se non ri-cordo male, è venduta all’interno della stessa. Anche in tal caso, dunque, il differenziale di inflazio-ne tra USA ed Europa unita non è decisivo per una competitività in puri termini economici (di costi e prezzi). Del resto, il fatto che la “destra” (tendenzialmente, anche se non omogeneamente, liberi-sta), una volta al Governo ed in presenza di fattori di crisi, abbia fatto ricorso a ricette tutt’altro che coerenti con i principi sostenuti dimostra, indirettamente, quanto di ideologico e di falso vi sia nell’apologia delle virtù della “libera competizione nel mercato”.
Il problema cambia aspetto se pensiamo alle fonti di energia (petrolio e gas in testa), ma – più in generale – a qual è il fine di ogni classe (blocco) dominante. Questo fine è il potere in tutte le sue espressioni e con la tendenza a volerlo espandere il più possibile in ogni “area”, da intendersi sia in senso geografico che politico e sociale. Non ci si può accontentare di una determinata “quota di potere”, perché chi si fermasse comincerebbe a perdere posizioni; anzi, come nelle avventure di Alice, anche solo per restare fermi è necessario correre sempre più velocemente. Ora, è vero che, nel modo di produzione capitalistico, il potere è in diretta correlazione con la ricchezza (in termini di denaro); e proprio per questo si realizza in esso la dominanza dell’economico. Non bisogna però trarne l’errata conclusione che il fine sia soltanto la ricchezza, poiché essa è semplice mezzo per il potere . Il problema non è allora costituito esclusivamente dal mercato e dalla sua ampiezza, dall’equilibrio tra produzione e domanda che deve consentire la profittevole vendita delle merci. La competizione intercapitalistica non è una “bella” concorrenza tra imprese, ognuna delle quali inno-va “virtuosamente” al fine di abbassare i costi, battere le avversarie e/o incrementare la differenza (profitto) tra i prezzi e questi ultimi. L’ideologia dell’economica dominante sostiene simili tesi, ma si tratta di puro mascheramento e imbellimento dell’assai più ruvida realtà.
E’ decisivo mettere sotto la propria disposizione una serie di fattori di potere, che possono esse-re economici ma rinviano anche al controllo di aree geografiche, di entità politiche (organizzate o meno in Stati che debbono essere resi “vassalli”). Tipico è appunto il caso delle fonti di energia di cui si è detto, che non a caso vedono in questi ultimi anni ampi movimenti sfocianti in guerre di ag-gressione aperta da parte del paese centrale. Insomma, la questione decisiva della competizione in-tercapitalistica non è la quota di mercato di cui ci si appropria in quanto impresa X oppure Y, bensì la sfera geografico-politica (e sociale) su cui viene esercitata la propria influenza. Per questo motivo va bollata come semplice sciocchezza – se non addirittura come tentativo di confondere le idee ai dominati e favorire così i dominanti – la tesi della fine della funzione degli Stati. Che essi siano o meno nazionali nel vecchio senso del termine, poco importa. L’importante è che sussista una entità politica del tipo statale capace di esercitare le sue prerogative in funzione della competizione inter-capitalistica, che è concorrenza per i mercati surdeterminata, cioè dominata, dal conflitto per le sfe-re d’influenza.
La cosiddetta “fine degli Stati nazionali” è puramente e semplicemente la fase di incipiente esaurimento dell’epoca monocentrica caratterizzata dal relativo coordinamento e complementarietà dei capitalismi avanzati di vari paesi, subordinati alla “regolazione” (d’imperio ove occorresse) da parte degli Stati Uniti. Fase di esaurimento tuttavia ancora in bilico, in una situazione di stallo o di lenta transizione, che non vede (ancora), nei paesi non centrali, la destrutturazione radicale del vec-chio blocco dominante e la costituzione di uno nuovo, più simile a quello del paese centrale e quindi in grado di riattribuire all’entità politico-statale le sue specifiche funzioni in merito all’estrinsecarsi di un’autentica e completa competizione intercapitalistica, che diventa allora interimperialistica in quanto simbiosi di concorrenza interimprenditoriale per i mercati e di conflitto interstatale per le sfere d’influenza. Se si vuole, parafrasando Gramsci (“egemonia corazzata di coercizione”), potrei dire: concorrenza interimprenditoriale corazzata di conflitto interstatale, poiché tale intreccio è il ca-rattere precipuo dell’imperialismo tipico di un’epoca compiutamente policentrica , che è tuttora in gestazione: una gestazione lenta, lunga e assai dolorosa (e ancor più lo sarà, ne sono convinto, nei prossimi due decenni o giù di lì).
In poche parole, gli Stati nazionali “in crisi” sono quelli dei paesi non centrali, non certamente l’apparato politico della potenza imperiale centrale, sempre più forte e in via di ulteriore rafforza-mento sotto tutti i punti di vista (militare, ma anche ideologico-culturale, scientifico-tecnico). Que-sti Stati nazionali, tuttavia, possiedono funzioni (quelle di cui si dichiara la fine) solo sul piano in-terno, per gestire il “compromesso sociale” e foraggiare il proprio apparato imprenditoriale (so-prattutto quello grande-imprenditoriale) poco competitivo e scarsamente innovativo, naturalmente salvo eccezioni, rispetto a quello del paese centrale. Le funzioni di tali Stati erano, e sono, dunque in larga parte connesse alla gestione della spesa pubblica per i fini già più sopra considerati. Le fun-zioni in oggetto, come si constata bene oggi, non sono affatto finite; certamente sono in crisi perché esse sono frutto della formazione – e ne protraggono l’esistenza – di blocchi dominanti non più adatti a risollevare nemmeno le sorti economiche dei vari paesi, in un’epoca in cui non sussiste più coordinamento e complementarietà – controllate dal centro – con reciproco vantaggio di tutta l’area capitalistica avanzata. Oggi ci sarebbe bisogno di rispondere ai colpi inferti dalla potenza imperiale, ma i blocchi dominanti degli altri paesi avanzati, pur essendo in declino (irreversibile a mio avviso) – e siano essi diretti da “destra” o “sinistra” – non rispondono minimamente al bisogno in questio-ne.
Tanto più dolorosa sarà la gestazione della nuova epoca – cioè la transizione ad essa – quanto più “destra” e “sinistra” europee, pur azzuffandosi per il “potere” (cioè per le briciole di governo della cosa “pubblica” su cui possono contare), si alimenteranno della sviante diatriba su keynesismo e liberismo, che lascia in fase di disgregazione priva di ristrutturazione radicale – quindi lascia in effetti putrefare – i vecchi blocchi dominanti pubblico-privati dei paesi non centrali, blocchi tipici dell’epoca compiutamente monocentrica; epoca ormai alla fine nei suoi caratteri di coordinamento e complementarietà tra i sistemi economico-politici capitalistici, aperta quindi a disordine, mancanza di controllo, caos crescente (non solo economico, sia chiaro), e che tuttavia non vede precisarsi i se-gni di un compiuto policentrismo con lotta chiara ed aperta per la preminenza mondiale, al mo-mento ancora appannaggio dell’unica potenza imperiale (statale e imprenditoriale insieme) esi-stente.
Per questo, chi appoggia “destra” o “sinistra” ritarda la transizione, la rende sempre più doloro-sa, impedisce che ci si prepari adeguatamente al “nuovo che (comunque) avanza” e che non è quello che pensa certa sinistra pasticciona e inconcludente. La crisi morderà, e non necessariamente in termini esclusivamente economici, come semplice riduzione dei redditi delle grandi masse e, tanto meno, con una miseria crescente, quasi con la “fame” (queste sono sciocchezze). Il disordine e l’insicurezza si faranno però strada e “faranno paura” a molti; i divari di ricchezza tra vari strati di popolazione diventeranno stridenti e insopportabili per molti. Se non ci penseranno gli, diciamo co-sì, “anticapitalisti”, ci penserà “qualcun altro”. La situazione non è destinata a marcire in eterno. Questo indecente quadro politico europeo (italiano in specie) – espressione di classi dirigenti (agenti dominanti “pubblici” ed economico-imprenditoriali “privati”) ormai invecchiate, degradate, incapaci di competizione e di slancio produttivo e innovativo, senza visioni e prospettive strategiche – verrà prima o poi spazzato via. Altrimenti l’Europa diventerà in pochi decenni un’area di profon-do degrado economico e sociale. Non credo avverrà. Ci si pensi in tempo o, appunto, ci penseranno “altri” (non faccio nemmeno qui il profeta; non so chi saranno, ma ci saranno).

8. Conclusioni

Spero si sia compreso il discorso fin qui condotto, anche se sarà necessario approfondirlo attra-verso analisi successive e, spero, discussioni con altri. Gran parte degli avvenimenti, sempre più gravi, cui stiamo assistendo, dovrà essere presa in attento esame tenendo conto di quanto detto in riferimento ai diversi blocchi dominanti esistenti nel paese (imperiale) centrale e nei paesi (non an-cora imperialisti al momento) non centrali. Sarà comunque anche d’obbligo ripensare l’articolazione tra agenti “pubblici” (politico-statali) dominanti – una parte dei quali esplica ancor oggi, nei paesi non centrali, funzioni manageriali imprenditoriali – e agenti direttivi strategico-imprenditoriali, in modo del tutto particolare quelli delle grandi concentrazioni oligopolistiche (in-dustriali e finanziarie).
La cosiddetta dominanza dell’economico nel modo di produzione capitalistico si gioca sull’articolazione suddetta. Le classi dominanti di ogni formazione sociale – quindi anche quella al vertice della società innervata dal modo di produzione capitalistico – hanno fini di potere comples-sivo (appunto, di “egemonia corazzata di coercizione”). Nel capitalismo, il fine del potere ha un suo mezzo specifico, la ricchezza (nella sua peculiare forma monetaria), che emerge dalla sfera econo-mico-produttiva. Anche le sfere politica e ideologica (i loro apparati) svolgono attività per mezzo della ricchezza monetaria. Il potere politico e ideologico deve guadagnarsi “un consenso” maggio-ritario, ma questo, senza esserne strettamente determinato, è comunque largamente influenzato dalle possibilità finanziarie a disposizione degli apparati che funzionano a tal fine. Il potere nella sfera economico-produttiva (“creatrice” della ricchezza monetaria) è dunque la “base” del potere tout court – denominiamolo potere generale – della classe dominante nella società capitalistica. Tutta-via, se non vi è egemonia – potere ideologico-culturale – e coercizione, con capacità di mediazione – potere politico (con l’appendice militare) – il potere economico, da solo, non sarebbe capace di conseguire il fine del potere generale.
Di conseguenza, gli agenti dominanti di tipo politico e ideologico non debbono essere semplici “servi” di quelli della sfera economico-imprenditoriale, pur se la loro attività dà, “in ultima analisi”, buona prova di sé quando sia in grado di favorire l’azione di questi ultimi in vista della creazione di una maggiore ricchezza (manifestantesi in forma monetaria), dalla quale trae alimento pure l’attività politico (militare)-ideologica. In definitiva, il potere generale è il fine, l’economico (profitto, ecc.) è il mezzo principale utilizzato nella formazione sociale capitalistica ; ma senza il potere (fra l’altro, di sintesi) del politico-ideologico, il fine non viene raggiunto o lo è solo in modo monco, parziale, instabile. Quando gli agenti politico-ideologici, dunque, si trasformano in semplici “servi” di quelli economici – il caso dell’Italia d’oggidì è il paradigma per eccellenza – la situazione diventa di una pericolosità estrema, perché la disgregazione sociale, con la perdita di consenso di un dato blocco dominante (“pubblico” e “privato”, politico-ideologico ed economico), potrebbe porsi rapidamente all’ordine del giorno, se dovesse aumentare l’insicurezza, se si andasse incontro ad un qualche peg-gioramento delle condizioni di vita, ecc.
La mia sensazione è che solo l’affermazione di nuovi agenti dominanti di tipo “pubblico” avrebbe possibilità di opporsi ad un degrado, non ineluttabile ma assai probabile, della situazione sociale nei paesi non centrali. In questi ultimi, nella nuova epoca che è in via di “apertura”, le gran-di imprese – dei settori già trainanti nella passata fase dello sviluppo capitalistico – sono in stato di decozione o comunque in affanno considerevole; le piccole e medie (o anche, in alcuni casi, grandi) imprese di settori più tradizionali – tipici di fasi di sviluppo della formazione sociale capitalistica ancora precedenti – hanno conseguito ottimi risultati, si sono fin qui dimostrate vitali, in certi perio-di dell’epoca monocentrica “in crisi” hanno costituito addirittura il nerbo dell’accumulazione (e dell’occupazione), e hanno permesso l’arricchimento e la formazione di ampi strati di “ceto medio-alto”. Siamo però, a mio avviso, ormai ai “limiti” di questo cosiddetto “modello di sviluppo” che ha caratterizzato per alcuni decenni i paesi capitalistici avanzati non centrali; e non soltanto, come si ritiene troppo spesso, il nostro paese, che ne è stato al massimo l’alfiere. In definitiva, siamo all’esaurimento del miracolo compiuto da specifici blocchi dominanti formatisi nell’ambito di quella forma di Stato detta sociale. Esaurimento (“storico”) non significa fine immediata, né impos-sibilità di improvvisi colpi di coda che qualcuno potrebbe interpretare, in una congiuntura breve (breve in termini storici), quale rinascita di quel “modello di sviluppo”.
Tuttavia, le illusioni, per quanto dure a morire, dato che i mutamenti d’epoca sono assai lenti e caratterizzati da densa vischiosità, infine cadranno. Le mort saisit le vif, ma non per sempre; pena, lo ripeto, il degrado irreversibile, e cui non credo , del nostro Continente. Ripetere il coordinamento e la complementarietà, tra sistemi economici, della superata epoca monocentrica, non mi sembra più moneta corrente. Ormai chi vuol svilupparsi, lo deve fare a detrimento degli altri. L’apertura dei “nuovi mercati” (est europeo, parti dell’Asia, ecc.) non ha allargato gli spazi, nell’ambito dei quali “tutti” sarebbero in grado di cercare la loro soddisfacente collocazione. Proprio perché il problema non è semplicemente la quota di mercato, ma quest’ultima deve essere “corazzata” dalla conquista di sfere di influenza; ed oggi, su questo piano, gli USA – preoccupati per un loro incipiente declino – assegnano “botte” in sempre più rapida successione, e con una sfrontatezza e arroganza prive di adeguati mascheramenti.
I quadri politici che rappresentano i blocchi dominanti, nei paesi non centrali, sono in sfacelo tanto quanto lo sono i rappresentati. La “sinistra” è il più autentico elemento conservatore (il pila-stro) del vecchio assetto tipico dei paesi non centrali, nell’epoca monocentrica in via di supera-mento, con la sua spesa pubblica diretta al (tentativo di) mantenere il coordinamento e la comple-mentarietà fra i diversi sistemi economici, in ultima analisi funzionale al dominio del paese impe-riale centrale. La “destra” si dimostra una non alternativa. O è assolutamente servile nei confronti degli USA (tipica quella italiana) perché spera di meglio legittimare così il proprio Governo; o è imbelle, come quella francese, perché non è comunque in grado di proporre e attuare una “riforma dello Stato” nella direzione di flussi di spesa per acquisire le potenzialità necessarie ad una politica di conquista di sfere di influenza, e di ricerca scientifico-tecnica, atta a garantire lo sviluppo di grandi imprese nei nuovi settori trainanti (biotecnologie, telecomunicazioni, aerospaziale, ecc.) in effettiva competizione, per le quote di mercato, con i colossi statunitensi degli stessi settori.
Al di là della vischiosità storica dianzi ricordata, dello stanco protrarsi della situazione in cui cresce disagio e insicurezza, al di là perfino della possibilità di qualche ritorno di fiamma, io credo che il disastro, in una prospettiva strategica, sia ormai irreversibile. Questa “sinistra” e questa “destra” debbono essere spazzate via, e penso lo saranno; non parlo nemmeno, al momento, dei tentativi di prolungare l’agonia con la ricerca, come in Italia, di non del tutto improbabili, ma certo catastrofiche (sempre strategicamente), soluzioni “centriste”, magari sbilanciate un po’ più verso “sinistra” come nel periodo delle alchimie democristiane di un tempo che fu.
Verranno forze – non so indicarne la struttura e la configurazione politica e ideologica, perché anch’esse sono ancora nelle catacombe – che infine prevarranno. Vi sono momenti storici, anche lunghi, in cui gli agenti dominanti di tipo politico, con l’importante supporto di quelli della sfera ideologica, hanno il compito di intuire e quasi anticipare il passaggio d’epoca. In quella che sta aprendosi, essi dovranno – ove si rimanesse, come prevedo, entro l’ambito della formazione sociale capitalistica – battere in breccia l’imbelle liberismo, ridare fiato alla forte presenza dello Stato, che tuttavia non sarà quello “sociale” (keynesiano) del passato, non inseguirà il “compromesso tra clas-si” né tanto meno foraggerà grandi imprese poco innovative, disabituate alla competizione. Nem-meno, però, essi alimenteranno l’illusione di una prosecuzione dell’accumulazione capitalistica ad opera delle imprese più tradizionali, di dimensioni inferiori. Invece di dilapidare la ricchezza già creata, tali agenti politici dovranno imporre il suo dirottamento verso i nuovi settori trainanti nonché l’accrescimento delle dimensioni almeno delle nuove imprese di punta.
Logicamente, si tratterà certamente di nuove direzioni dell’accumulazione, ma non affatto di un nuovo “modello di sviluppo”. Anzi, poiché verrà potenziata la competizione intercapitalistica nella forma di un neoimperialismo, cioè di una più agguerrita concorrenza interimprenditoriale per le quote di mercato – concorrenza, come già detto, “corazzata” di competizione interstatale per le sfere di influenza – ne seguirà un’epoca di profondo disordine e scollamento dell’insieme, quindi di crisi, le cui forme specifiche non mi sento di prefigurare, ma che senza dubbio non sarà “puramente” economica, avrà invece connotati politici, sociali, e in ultima analisi anche militari (non necessa-riamente, ulteriori guerre mondiali). Potranno esserci brevi periodi di sviluppo, ma contrassegnati, come già rilevato, da mancanza di coordinamento e di complementarietà, dalla non concomitanza dello stesso per tutti i vari paesi avanzati capitalistici. Senza poi considerare le conseguenze disa-strose per le popolazioni dei paesi più deboli; e anche molti dei paesi che sembravano in via di de-collo pagheranno un duro scotto all’epoca che avanza. Pensare a nuove armonie, a reciproci vantag-gi, ecc., sarà certo il battage ideologico delle classi dominanti, dal quale non ci si deve lasciar irreti-re. Se permane il capitalismo, queste nuove “armonie” potranno ripresentarsi solo alla fine di un lungo percorso di lotte interimperialistiche per una nuova supremazia mondiale.
D’altra parte, dato il tradizionale ritardo di quella “sinistra” che ama definirsi comunista o anti-capitalistica, temo proprio che la prima mossa spetterà a forze filocapitalistiche che siano in grado di creare in Europa nuovi centri imperialistici (almeno uno) in antagonismo con gli USA. Esse in-terpreteranno il disagio, il malessere, le preoccupazioni e l’insicurezza crescenti presso quote im-portanti della popolazione; in particolare tra il ceto medio e medio-basso, tra gli amplissimi strati di lavoratori autonomi, tra quelli altrettanto numerosi di operai non sindacalizzati.
E coloro i quali – e non credo siano pochi – continuano a pensare in senso anticapitalistico (oltre ad essere nemici dell’imperialismo statunitense)? Francamente, non so che dire. Mi sembra di ascoltare troppi discorsi già sentiti fino alla nausea. Tuttavia, è anche vero che nemmeno da parti avverse (filocapitalistiche in quanto favorevoli a nuovi centri imperialistici) si sentono al momento molte novità. Quelle forze politiche che, secondo il mio parere, dovrebbero pur nascere dalla crisi attuale, dalla necessità di arrestare il degrado europeo, non sembra stiano in questo momento ren-dendosi visibili. Nel contempo, vi è una certa crescita di consapevolezza circa l’ormai inaccettabile ferocia e arroganza dell’imperialismo statunitense (l’unico impero che si conosca al momento; e molto “centrato”, non diffuso e disseminato come qualcuno pensa); pare cresca anche la non sop-portazione per la criminale azione di Israele, senza più farsi ricattare dal fatto che ogni opposizione a questo paese sarebbe antisemitismo, rimessa in discussione dell’Olocausto. Sembra esserci infine maggiore attenzione a vari problemi, teorici e politici (e anche morali, perché no), che forse prelu-dono a nuove soluzioni. Dall’eremo, da cui scrivo, non sono in grado di emettere un significativo giudizio sulla capacità degli anticapitalisti – penso a quelli che lo sono comunque con sincerità – di far prevalere, nel loro pensiero e nella loro azione, il nuovo sul vecchio.
Non ho intenzione, fra l’altro, di sostenere che tutto ciò che ho sopra affermato sia nuovo, né che sia senz’altro corretto. Credo però che una qualche dose di novità vi sia; e che essa abbia anzi, in certe parti, dimensioni tali da obbligarmi ad una discreta dose di genericità, perché – come av-vertito all’inizio – non posso asfaltare sentieri appena tracciati e il cui percorso andrà via via cor-retto, man mano che avanzerà – se avanzerà, come credo – un’epoca di crisi; incipiente, dai tempi lunghi, e proprio per questo tormentosa. Non voglio imporre a nessuno, sia chiaro, la discussione intorno ai temi qui trattati, così come non mi farò imporre da nessuno argomenti che ritengo, in quanto mia personale convinzione, dell’era paleolitica; o tanto “avanzati” e “postmoderni” da as-somigliare, secondo la comprensione che posso averne, alle effimere faville di un falò.