Da: http://immaginario.net/ouroboros/riv...na_imperii.htm

Arcana Imperii (per una lettura anarchica de"Il Signore degli Anelli")
di Fritz Tegularius


(L'autore porge un doveroso ringraziamento agli amici del gruppo di discussione it.fan.scrittori.tolkien, senza i quali questa riflessione non avrebbe mai visto la luce)

"Sarebbe stato l'Anello, alla fine, il vero padrone."

(J.R.R. Tolkien)



1 Giustificazione

Scopo di questo articolo è proporre un'interpretazione forse un po' provocatoria del grande romanzo di Tolkien.
Non ci limiteremo, come opportunamente è stato fatto, a segnalare l'avversione di Tolkien per autoritarismo, oppressione e sfruttamento, ma individueremo alla base della sua opera una critica radicale nei confronti di ogni autorità umana (terrena) e di ogni principio di organizzazione razionale (si legga: autoritaria) dei rapporti umani.
Prendendo le mosse dal più cospicuo riflesso terreno della compromissione col potere, cercheremo di ricostruire a partire dall'effetto la causa nella sua essenza. Di essa, del potere inteso nella sua radicalità avremo una percezione ancora più nitida quando lo vedremo contrapposto - nell'opera stessa di Tolkien - a modalità comportamentali di segno opposto (in apparenza irrazionali - ben più razionali in verità).



2 Alle radici dell'invisibilità

Accade talvolta che chi giunge al termine di "Il Signore degli Anelli" (ISdA, d'ora in avanti) resti perplesso (e in qualche misura deluso) per non aver mai incontrato il personaggio fulcro della vicenda, il motore immobile (e invisibile) dell'infinito peregrinare delle varie figure che affollano il palcoscenico della Terra di Mezzo.
Sauron, il Signore degli Anelli, resta costantemente dietro le quinte. Da lì scruta il mondo, tesse le proprie trame, impartisce crudeli comandi; ed è sempre lì, al riparo da ogni sguardo, che in solitudine cade.
Perchè Sauron non si manifesta? Perché mancano nel romanzo chiari riferimenti al suo aspetto fisico? Perché è così forte nel lettore l'impressione che una sorta di invisibilità sottragga l'Oscuro Signore al suo sguardo?
Il motivo di questa scelta di Tolkien deve essere cercato nell'impianto ideologico del romanzo, in quei principi, cioè, che trovano nelle vicende e nei personaggi la propria articolazione narrativa. È a questo livello che le idee dell'autore - ben definite o appena accennate che siano - interagiscono fra loro e si uniscono in una struttura che regge la narrazione nella sua interezza, garantendone la coerenza a un livello superiore a quello della "semplice" (anche se importante) creazione del mondo secondario.
In una lettera in cui analizza le conseguenze di un eventuale uso dell'Anello da parte di Gandalf contro Sauron, Tolkien scrive che: "Se Gandalf fosse uscito vincitore, il risultato per Sauron sarebbe stato identico a quello che si sarebbe venuto a creare con la distruzione dell'Anello; per lui l'Anello sarebbe stato come distrutto, gli sarebbe stato tolto per sempre. Ma l'Anello e tutte le cose che aveva creato avrebbero continuato ad esistere. Sarebbe stato l'Anello alla fine il vero padrone" (lettera a Mrs. Eileen Elgar, settembre 1963).
Quest'ultima frase è fondamentale. L'Unico Anello appare dotato di una sorta di autonomia essenziale nei confronti del suo creatore e - più in generale - di coloro che lo portano. Esso, in apparenza, si caratterizza come un centro di potere autonomo: un manufatto magico che sfugge di mano a chi lo ha imprudentemente forgiato. Ma è possibile andare oltre questa interpretazione immediata, e proprio grazie alla dialettica invisibilità - visibilità che caratterizza un po' tutto il romanzo.
Non è infatti Sauron l'unico personaggio il cui aspetto risulta incerto (o inafferrabile): anche gli Spettri dell'Anello (i Nazgûl) sono invisibili (eccezion fatta per i loro vestiti) e invisibile diventa ogni portatore dell'Anello nell'istante in cui lo infila al dito.
L'invisibilità è dunque strettamente connessa all'Anello.



3 Celarsi dietro il potere

L'Unico Anello è un oggetto di potere (esso fu forgiato al fine di controllare gli altri anelli). Ed è - lo abbiamo visto - un centro autonomo di potere. Ma cosa è il potere?
Possiamo considerarlo come una modalità di organizzazione dei rapporti umani, uno dei modi cioè in cui si può entrare in rapporto con gli altri. In particolare, mediante il potere si riduce il nostro prossimo a uno strumento, utilizzabile per raggiungere un certo scopo. Stando così le cose, non si è più obbligati a istituire con gli altri un rapporto personale. Di uno strumento basta conoscere tutte le caratteristiche, al fine di poterlo usare nel modo più efficace ed efficiente.
Si pensi al modo in cui si sceglie un utensile per svolgere un lavoro: si considerano le sue caratteristiche, non ciò che quell'utensile significa per noi, in rapporto cioè alla nostra personalità. Ma così facendo, non è solo l'utensile che diventa uno strumento; a diventarlo è anche colui che lo usa, che "sceglie" di collocarsi in una relazione di potere con qualcuno o qualcosa.
Per fare un esempio, nel momento in cui si pianta un chiodo nel muro per appendere un quadro, esauritasi la fase di "libera" scelta del punto in cui posizionare il quadro 1, si diventa una semplice appendice del martello, così come il martello lo è di noi: lo si deve usare nel modo più razionale, secondo quelle che sono le sue caratteristiche tecniche, e quindi nell'atto di manovrarlo non si è affatto più liberi di lui - e se si cerca di esserlo si rischia di piantare il chiodo in malo modo, o di farsi del male.
Orbene: lo stesso, su una scala più ampia e più in profondità, accade a colui che "decide" di entrare in rapporti di potere con gli altri individui. Il capo considera i propri sottoposti come dei semplici strumenti di cui conosce perfettamente capacità e attitudini, e come tali razionalmente li usa per il conseguimento dei propri scopi, secondo criteri di efficacia ed efficienza. E non può fare altrimenti, se non vuole fallire!
Ma in tal modo è il capo stesso che si colloca in un sistema altamente razionale finalizzato al conseguimento di scopi. È il capo stesso (Sauron, in ISdA) a essere al vertice di una piramide gerarchica - e il vertice non è esterno alla piramide, ma di essa fa parte a pieno titolo. Sauron lo sa bene, dato che egli stesso, in altri tempi, non occupava quel vertice ed era sottomesso a chi si trovava in quella posizione (Morgoth, in "Il Silmarillion"); oggi - e cioè nel presente di ISdA - la sua posizione è migliorata, ed è lui al vertice.
È quindi la struttura di potere in sé che conta, non chi personalmente occupa una certa posizione al suo interno. L'identità di chi ricopre un certo ruolo può variare, mentre il ruolo stesso, razionalmente legato alla struttura e alle sue funzioni, è immutabile (a meno che non sia la struttura stessa a mutare). In tal senso acquista un significato particolare anche il prolungamento della vita cui va incontro chiunque porti l'Anello: l'individuo perde la propria personalità e i limiti naturali di essa - fra i quali la morte - e scivola nella sfera della pura astrazione, nella sfera cioè delle funzioni di cui si compone la struttura di potere.
Quindi: non sono solo gli orchi a non possedere un volto per Sauron (in quanto strumenti intercambiabili a parità di capacità/attitudini) ma è Sauron stesso che non lo possiede per loro e per tutti gli altri. Perché, lungi dall'essere più una persona, egli svolge (è) ormai solo una funzione in una struttura che lo trascende. Una struttura animata da un'alta razionalità che non si cura dei caratteri dei singoli, quanto piuttosto delle loro caratteristiche (si pensi agli orchi dotati di diverse attitudini - e addirittura di una diversa conformazione fisica: ad es. i "segugi" [ISdA pagg. 1104 - 1105] e i possenti Uruk-hai che non temono il sole [ISdA pagg. 544 - 563] - e a come essi siano identificati con un nome e un numero - massima negazione dell'individualità [ISdA pag. 1106]).
Non è un caso, io credo, che in "Il Silmarillion", riferendosi a fatti precedenti a quelli narrati in ISdA, Tolkien parli di un'opera di corruzione condotta personalmente da Sauron ai danni dei fabbri dell'Eregion prima e degli uomini di Numenor poi. In entrambe le occasioni Sauron si trovava in una situazione molto precaria: nel primo caso non aveva ancora consolidato il suo potere nella Terra di Mezzo, nel secondo era stato ridotto all'impotenza dalle armate dei numenoreani. In assenza di una salda struttura di potere, Sauron doveva agire personalmente (e addirittura si dice che quando si spacciava per Annatar, Signore di Doni, "il suo sembiante era pur sempre quello di uno bello quanto saggio" ["Il Silmarillion", pag. 361]; e presumo che le cose non stessero diversamente durante la sua permanenza forzata a Numenor).
Nel momento in cui (ri-)fonda la struttura di potere, Sauron si sottrae alla vista degli altri e diventa una pura incarnazione del potere, un puro meccanismo nascosto nella grande macchina di potere che ha costruito.
Non è di nuovo un caso che Sauron torni a mostrarsi quando viene messo alle strette, quando cioè la sua macchina di potere viene frantumata: in occasione dell'assedio di Barad-Dûr da parte di Gil-Galad ed Elendil. "Alla fine, tuttavia, l'assedio si fece così stretto, che Sauron in persona uscì fuori..." ["Il Simarillion" pag. 371]. Perché non aveva altra scelta, immagino (e infatti lo scontro sulla Piana della Battaglia si era già concluso a suo svantaggio). E quando Sauron esce allo scoperto (come persona), cade.
È opportuno quindi sottolineare che il male puro - non assistito o svincolato dalla struttura di potere - non riesce a imporsi; e che la manifestazione in una struttura del genere è per il male una vera e propria necessità. Due esempi ce lo dimostrano: da un lato (ISdA, pagg. 1010 - 1012) il Signore dei Nazgûl viene sconfitto nell'istante stesso in cui accetta di confrontarsi direttamente con Éowyn, in una sorta di duello (da individuo a individuo, quindi), al di fuori delle rispettive strutture militari; dall'altro lato (ISdA pagg. 1188 - 1214), Saruman, in un ultimo guizzo di malvagità, istituisce nella Contea un regime autoritario, vera e propria incarnazione sociale del male - e testimonianza della sua tendenza ad assumere forme istituzionali (organizzate).
In sostanza: per comprendere il senso della invisibilità/impersonalità di Sauron (e di tutti coloro che con l'Anello hanno a che fare o che, comunque, della struttura di potere che attorno a esso si è costituita fanno parte - si pensi, ancora, alla "Bocca di Sauron", l'araldo che aveva dimenticato il proprio nome [ISdA pag. 1065]) si deve tenere presente l'oggetto della critica di Tolkien: non il male in senso stretto, né il potere inteso come oppressione o sfruttamento determinati da una volontà malvagia (moralmente parlando); ma qualcosa di molto più sottile (e più inquietante, attuale e interessante, credo): e cioè la ferrea razionalità, il principio di "efficacia ed efficienza", il grande sistema di organizzazione di uomini e risorse (uomini quali risorse) che caratterizza il mondo contemporaneo (ma solo quello?) e che Tolkien ebbe l'occasione di vedere all'opera per ben due volte nella sua vita, nell'ambito di due "mostruose" manifestazioni di esso: le due guerre mondiali, con la mobilitazione generale di uomini e mezzi che in occasione di esse fu posta in essere, secondo i dettami della "sapienza di questo mondo" 2.
Ma si rammenti che non è l'eccezionalità del fenomeno a testimoniare della sua gravità. La razionalità del mondo, le metodologie di organizzazione delle forze umane e materiali si sottendono a ogni forma assunta dalla vita associata: dalla più oscena (la "catena di macellazione" del fronte) alla più familiare e inavvertita. Si ponga attenzione, in tal senso, alle insegne delle forze del male concepite da Tolkien: l'Occhio rosso di Sauron e la Mano bianca di Saruman evocano certamente nell'immaginazione del lettore il "grande potere" che cerca di impadronirsi dell'individuo in tutti i suoi aspetti (riducendolo, in una parola, a quantità calcolabile, utile in un processo produttivo), ma sono anche, più semplicemente (e in modo più inquietante), un occhio e una mano: gli strumenti dell'azione umana nel mondo (lo sguardo che precede il gesto): incarnazioni della razionalità in apparenza più innocua (e più necessaria).



4 Sapienza e follia

Non è un caso, io credo, che in ISdA le forze del Bene appaiano piuttosto disorganizzate, quanto meno in confronto allo schieramento nemico. Si pensi a certi contrasti fra i personaggi più importanti: la diffusa sfiducia - per non dire sospetto - nei confronti di Gandalf; gli attriti fra Faramir e Denethor; le voci circa l'ambigua linea politica tenuta da Rohan nei confronti sia di Saruman che di Sauron; il debole - almeno in apparenza - controllo del sovrintendente di Gondor sui vari vassalli del regno (si ponga mente a quanto siano scarsi i rinforzi mandati a difendere Minas Tirith, e a come la causa di ciò stia nei timori nutriti dalle varie popolazioni di un possibile attacco dal mare, e nella loro decisione di provvedere in primo luogo alla propria difesa: se a Gondor avesse regnato una organizzazione più ferrea, i soldati sarebbero stati fatti affluire con la forza nel luogo del maggior bisogno); l'assurda mini-guerra civile che scoppia in seguito al crollo mentale di Denethor; si pensi infine al carattere sommamente irrazionale (leggi imprevedibile) della sconfitta dell'Anello, e cioè alla estraneità dell'atto finale della tragedia (la caduta di Gollum nel cratere di Monte Fato) rispetto a ogni logica di potere o razional-organizzativa: è un puro caso che liquida l'Anello, e il caso è quel fattore di cui ogni organizzazione cerca di minimizzare l'influenza sulle proprie dinamiche. Ma - ed è importante tenerlo presente - l'accadimento casuale-irrazionale in questione trae la propria origine da due premesse a loro volta esplicitamente irrazionali: la decisione di non servirsi dell'Anello e di distruggerlo - atto che rappresenta una vera e propria follia alla luce di una visione del mondo informata da una volontà di dominio e organizzazione -; e l'atto di pietà nei confronti di Gollum, che non è stato ucciso quando la prudenza (e cioè la razionalità) lo avrebbe preteso. Il Bene, in sostanza, vince perché non accetta di conformarsi alle regole del male, perché rigetta il principio stesso dell'organizzazione razionale di tutte le risorse. Perché, potremmo concludere, preferisce la strada della follia a quella della razionalità, aprendo così le porte all'intervento del caso - o di altro.
A questo punto è interessante riportare alcuni passi della prima Lettera ai Corinti di San Paolo (1, 20 - 25; 2, 6): "Dio ha ridotto a pazzia la sapienza di questo mondo. Gli uomini con tutto il loro sapere non sono stati capaci di conoscere Dio e la sua sapienza. (...) Perché la pazzia di Dio è più sapiente della sapienza degli uomini e la debolezza di Dio è più forte della forza degli uomini. (...) Anche noi però, tra i cristiani spiritualmente adulti, parliamo di una sapienza. Ma non si tratta di una sapienza di questo mondo né di quella dei potenti che lo governano, e che presto saranno distrutti"; e confrontarli con alcune frasi tratte da ISdA, cap. "Il Consiglio di Elrond" (pag. 339): dopo che si è giunti alla conclusione che l'Anello deve essere distrutto, Erestor dice: "- È la via della disperazione..., della follia direi, se la profonda saggezza di Elrond non me lo impedisse. - Disperazione, o follia? - disse Gandalf. - (...) Ebbene, che la follia sia il nostro manto, un velo dinanzi agli occhi del Nemico! Egli è molto saggio, e soppesa ogni cosa con estrema accuratezza sulla bilancia della sua malvagità. Ma l'unica misura che conosce è il desiderio, desiderio di potere, ed egli giudica tutti i cuori alla stessa stregua". Il concetto viene ripreso (sempre da Gandalf) nel capitolo "L'ultima discussione" (pag. 1055): "- Noi non abbiamo l'Anello. Per saggezza o per grande follia l'abbiamo mandato ad essere distrutto, affinché non distruggesse noi -".
L'idea è che l'Anello incarni un tipo particolare di saggezza: quella di Sauron (e quella degli uomini in generale, potremmo aggiungere, visto che i potenti non umani della Terra di Mezzo [Gandalf, Galadriel, Bombadil] stanno ben attenti a non cadere in tentazione o non subiscono affatto il fascino dell'Anello, mentre delle "noie" verranno proprio da un uomo che appartiene a uno dei sistemi di potere più saldi che la Terra di Mezzo conosca: Boromir di Gondor, che nell'ambito del Consiglio dissente dal progetto di non usare l'Anello e cerca in seguito di sottrarlo a Frodo con la violenza). Gandalf esprime con le proprie parole l'ambiguità essenziale insita nel rifiuto di usare l'Anello: saggezza e follia a un tempo. Saggezza "divina" da un lato (quella di Gandalf non era certo saggezza di questo mondo: egli proveniva da Valinor e non era un essere umano) e follia umana dall'altro (rifiuto del potere, dell'ordine del mondo). Che poi l'Anello (il potere) sia una "cosa di questo mondo" è esplicitamente detto in ISdA: "...per il bene e per il male esso appartiene alla Terra di Mezzo" (pag. 336). I parallelismi col passo paolino appaiono sconcertanti 3.
Ora, a cosa porta la scelta di non usare l'Anello?
Se guardiamo al risultato diretto, dovremmo dire che l'esito è la caduta di Frodo, il suo soccombere alla tentazione. E in effetti, logicamente, era prevedibile che le cose andassero così, per quanto gli hobbit potessero essere resistenti all'influenza malvagia (Tolkien stesso lo afferma, in una lettera del 27 luglio 1956: "...seguendo la logica della trama, [il fallimento di Frodo] era un avvenimento chiaramente inevitabile.").
Su questo, che è l'esito logico dell'aver messo l'Anello in mano a uno hobbit che scontava tra l'altro le conseguenze di una ferita da pugnale Morgul, su questo logico esito disastroso si innesta la svolta salvifica: l'intervento di Gollum e, soprattutto, la sua accidentale caduta nel vulcano.
Ricapitolando:
1) scelta "irrazionale" (contro la saggezza del mondo) di non usare l'Anello;
2) suo "irrazionale" affidamento a una creatura debole e indebolita (e qui l'irrazionalità è in apparenza doppia: da un lato che rapporti ha un piccolo hobbit con l'Anello, alla luce della razionalità stessa dell'Anello? e dall'altro lato: se anche si vuole rifiutare la razionalità dell'Anello, non è tuttavia necessario essere imprudenti: l'Anello, per esempio, potrebbe portarlo un altro hobbit, meno indebolito, o tutti gli hobbit a turno);
3) esito "razionale" di tutto ciò: l'Anello prende il sopravvento;
4) svolta inattesa e casuale (e - in quanto tale - irrazionale, sfuggente alla razionalità): l'intervento e la caduta di Gollum.
A questo punto, potremmo ipotizzare che la fatalità tale non sia (già altri hanno parlato al riguardo di Provvidenza), e sia in realtà un intervento divino risolutivo, che supera con un balzo miracoloso quell'abisso che l'uomo non poteva attraversare senza perdervisi, senza cioè affidarsi alla saggezza (razionalità) del mondo (dell'Anello). E questo perché, nel mondo, quell'abisso non era oggettivamente superabile con le sole forze dell'uomo (dello hobbit) e solo affidandosi all'irrazionalità - alla follia - sarebbe stato possibile superarlo con un balzo.
Il mondo ha le sue leggi, la sua saggezza, appunto. Rifiutarle significa fallire: la conseguenza è che o si cede alla tentazione o ci si condanna all'insuccesso. Ma se si è compiuto il proprio dovere fino alla fine, se si è sperato (avuto fede) fino alla fine, sarà la Provvidenza stessa (intervento di Eru) a combattere la nostra battaglia e a vincere inaspettatamente per noi contro un nemico che non possiamo battere senza divenire uguali a lui.
In conclusione: si persegue un fine nel modo più irrazionale possibile e proprio da questa irrazionalità degli sforzi e dei preparativi deriva in ultima analisi la vittoria, come dono (ricompensa?) dall'Alto.
Dalla follia la vittoria, quindi. Proprio perché anche nella disperazione più nera si è - incomprensibilmente - continuato a procedere sulla strada prescelta (e quindi si è continuato irrazionalmente a sperare, ad avere fede).



5 I rischi della razionalità ordinatrice

Abbiamo parlato della contrapposizione fra follia/saggezza divina e saggezza/follia umana (i due termini gettano l'uno sull'altro una luce ostile e rivelatrice). Crediamo sia il caso di aprire una parentesi al fine di affrontare un problema che si impone con una certa insistenza alla nostra attenzione.
Incarnazione somma - massimo esempio - della saggezza umana sono i potentati del mondo. Anche il mondo subcreato da Tolkien conosce confini e organizzazioni statali. Coverrà perciò dedicare qualche parola ai potentati umani ed elfici della Terra di Mezzo e, più in generale, alla rappresentazione che Tolkien offre della sovranità (vera punta di diamante - sommità dell'organizzazione sociale).
La sovranità (quella in qualche modo legittima, perché non merita spendere tempo e parole per la tirannia di Sauron) è presentata in ISdA in un duplice modo:
1) salda e gloriosa nel mondo elfico (il primato di Elrond a Imladris, di Galadriel in Lothlorien e di Cirdan nei Porti Grigi è percepito dal lettore come un dato di fatto tanto naturale da essere del tutto indiscutibile - nel senso che, nell'ambito del romanzo, esso non è né discusso né messo in discussione);
2) debole o addirittura assente nel mondo umano, sia da un punto di vista statico - in relazione cioè al quadro che l'autore offre di essa (il re di Rohan è vittima di un pessimo consigliere, ed è divenuto debole e pauroso; quello di Gondor è addirittura assente) - sia da un punto di vista dinamico - vale a dire nello sviluppo delle due strutture di potere messo in scena da Tolkien: Theoden ritrova vigore e coraggio, ma perisce sul campo di battaglia e la salita al trono di suo nipote Eomer è se non passata sotto silenzio quanto meno relegata in secondo piano a causa della battaglia in corso; per ciò che attiene Gondor, basti dire che se è vero che la cerimonia di incoronazione di Aragorn costituisce un episodio ben definito, è altrettanto vero che l'attenzione dell'autore si allontana poi rapidamente dai fasti - un po' avulsi dalla narrazione - della restaurazione del regno e si concentra sullo scioglimento della Compagnia dell'Anello, sulla piccola ma concreta tragedia della Contea e sulla partenza di vari personaggi dalla Terra di Mezzo, tanto che si può dire senza tema d'errore che proprio questi ultimi sono gli episodi-chiave del finale del romanzo.
Come interpretare tutto ciò?
Si può ipotizzare una sorta di disagio da parte dell'autore nel rappresentare un potere saldo, incontrastato, glorioso e allo stesso tempo benevolo e saggio. È come se una tale immagine, in special modo nel contesto di un romanzo incentrato sulla lotta contro il potere quale centro organizzante e sul rifiuto di esso, corresse il rischio di apparire stereotipa, vuota e in sostanza menzognera.
ISdA è un romanzo di uomini e hobbit (questi ultimi ancora più umani dei primi, se possibile) e Tolkien li ammonisce a non considerare mai la sovranità perfetta e il potere che orienta a sé ogni cosa quali entità di questo mondo. Gli elfi conoscono ancora l'uno e l'altra (o meglio: ne hanno conosciuto l'essenza nelle ere più antiche e ne hanno appreso dolorosamente le regole terrene - e potremmo dire che da questo punto di vista "Il Silmarillion" svolge nei confronti di ISdA una funzione di ulteriore svelamento e, al limite, di demistificazione, mostrando come solo il potere dei Valar, quello cioè in senso lato divino, potesse dirsi pienamente legittimo e giusto e come alla luce di esso i dominii degli elfi spiccassero per la loro imperfezione tutta terrena), ma il tempo degli Eldar nella Terra di Mezzo è giunto ormai a conclusione. Nel mondo, ormai, il potere al suo grado più alto può caratterizzarsi soltanto come evento eccezionale - tanto eccezionale da apparire quasi irreale, estraneo, al pari di una festa (l'incoronazione di Aragorn), alla naturale concatenazione degli eventi (e alla stessa narrazione) - o come un'immane o odiosa sciagura (il dominio di Sauron, quello di Saruman nella Contea).
Senza voler risolvere l'articolata visione del mondo di Tolkien nei termini di una banale proporzione, possiamo ipotizzare quanto segue: il "ruolo negativo" che tocca agli elfi in rapporto ai Valar in "Il Silmarillion", è assegnato in ISdA agli uomini di fronte agli elfi; e se pensiamo a come il potere stesso dei Valar, paragonato a quello di Eru, appaia a suo modo auto-contraddittorio (tacendo dei contrasti che talvolta dividono gli stessi signori angelici di Aman, è in fondo un Vala, Melkor, a introdurre il male nel mondo ed è contro di lui che gli altri Valar combattono, portando in Arda la guerra), riusciamo forse a farci un'idea dell'acuto pessimismo che caratterizza la filosofia politica di Tolkien.
Forse, se lo sguardo dell'autore si distoglie dal restaurato regno di Gondor e si concentra sul coraggio degli hobbit e sulle malinconie di chi viaggia fino ai Porti Grigi, è solo perché un intimo, nascosto convincimento gli impedisce di credere alla possibilità stessa di un potere umano (elfico, angelico) non tirannico.



6 Il male assoluto

Torniamo adesso, dopo una parentesi che speriamo non abbia spezzato il ritmo di questa riflessione, al nostro tema principale; e cerchiamo di trarre alcune conclusioni.
L'Anello, lo si è visto, incarna la saggezza (umana) che è razionalità calcolante e organizzatrice, che dona un'invisibilità interpretabile come conseguenza dell'assorbimento nella struttura di potere, della riduzione dell'individuo a funzione, a meccanismo più o meno importante (l'ultimo orco come Sauron, quindi; l'uno utilizzabile e sacrificabile al pari dell'altro, in prospettiva: e non è di nuovo un caso che l'Anello si cerchi portatori sempre nuovi, da allettare con illusioni o promesse precise e tradire subito dopo; e non si periti quindi a tradire, in prospettiva, il suo stesso creatore, Sauron. Perché un portatore dell'Anello vale l'altro, purché il potere - la razionalità che tutto organizza e sfrutta - possa autoperpetuarsi).
Si noti come violare questa regola segreta del Potere (l'invisibilità di colui che lo esercita, il superamento dell'individualità nell'ambito della struttura di governo) comporti un danno per la stessa organizzazione che dal Potere trae la propria forma. Ogni residuo di individualità, ogni tendenza o scopo non riconducibile all'autoperpetuazione dell'organismo di potere ne mina le fondamenta. Anche se le intenzioni fra loro concorrenti sono entrambe essenzialmente malvagie. Tra gli orchi di Saruman e quelli di Sauron scoppia un conflitto (ISdA, pagg. 545 - 547) proprio perché Isengard costituisce un centro di potere autonomo rispetto a Barad-Dûr; un centro di potere non integrato nella più ampia struttura di potere organizzatasi attorno all'Anello. E il fatto che Saruman possieda ancora un'individualità (benché si sia asserragliato - nascosto - in una fortezza e abbia quindi deciso di farsi capo, e quindi di annullarsi in un sistema gerarchico) e coltivi degli scopi personali (incompatibili in quanto tali con quelli dell'Anello) è indicativo della sua essenziale disorganicità rispetto al potere dell'Anello. Da qui, inevitabilmente, la contesa, che, se si fosse sviluppata fino alle proprie estreme conseguenze, avrebbe portato o alla assimilazione di Saruman nella struttura di potere (sotto forma di un nuovo schiavo dell'Anello - e cioè di una nuova articolazione della gerarchia, simile del resto alle antiche) o alla sua eliminazione.
La disorganizzazione è figlia dei caratteri individuali sopravvissuti al processo di organizzazione. Finché perdura l'individualità (anche animata da intenti malvagi) non ci potrà essere un perfetto funzionamento dell'istituzione, del sistema di Potere.
Per riprendere e completare l'interpretazione dei dati narrativi alla luce della dialettica visibilità-invisibilità, vorrei sottolineare un elemento della trama di ISdA che spesso colpisce (e talvolta lascia perplesso) il lettore: la relativa facilità con cui il portatore dell'Anello riesce a penetrare nel territorio nemico e a giungere fino al Monte Fato. Pare, si direbbe, che Frodo sia invisibile a Sauron tanto quanto quest'ultimo lo è per tutto il mondo (e per gli stessi lettori). Certo, ci sono motivazioni (narrative) logiche e strategiche che giustificano tutto ciò, ma non posso fare a meno di pensare che come chi cede al potere perde se stesso in quanto individuo e diviene invisibile, così chi lo rifiuta (e sceglie vie alternative) diviene a sua volta invisibile agli occhi del potere, perché si ritrova al di fuori del suo sistema, della sua razionalissima struttura.
A questo punto dovrebbe essere chiaro il senso dell'invisibilità di Sauron. Mostrarsi, per lui, equivarrebbe ad abbandonare la struttura di potere, tradire l'Anello, fare appello alla propria individualità, negare il principio stesso del potere.
L'organizzazione (la struttura di Potere, l'Anello) è più forte (più pericolosa) anche del male morale allo stato puro. Quest'ultimo può conoscere il pentimento, il perdono e la redenzione, mentre il male organizzato, fattosi scheletro di una società, può solo autoperpetuarsi - o perire insieme a coloro che gli si sono affidati.



7 Postilla terminologica

Stupirà forse il lettore il fatto che in questo articolo, in cui si propone una lettura a suo modo anarchica di ISdA, non sia mai stato usato il termine "anarchia".
Lasciamo questo onore allo stesso Tolkien.
"Le mie opinioni politiche inclinano sempre più verso l'anarchia (intesa filosoficamente come abolizione di ogni controllo, non come uomini barbuti che lanciano bombe) - oppure verso una monarchia non costituzionale. Arresterei chiunque usi la parola Stato (...)." 4



**********************************



Note:

1. Che poi sussista davvero questo ambito di discrezione è tutto da dimostrare. Chiunque abbia provato a piazzare un quadro su una parete - magari alla presenza di altre persone - sa bene quali e quanti siano i condizionamenti, spesso non trascurabili, di cui si deve tenere conto: dalla struttura del muro alla posizione degli altri quadri ai consigli dei presenti. ^^

2. Scrive Tolkien a suo figlio Christopher, in merito alla misera vita del soldato: "...l'unico rimedio (oltre ad una trasformazione universale) è che non ci siano più guerre - né programmazione, né organizzazione, né irreggimentazione" (lettera a Ch. Tolkien, 4 maggio 1944) [neretto nostro]. ^^

3. Tra i due passi, per altro, si nota un secondo interessantissimo punto di contatto. Scrive infatti San Paolo che "Dio ha scelto quelli che gli uomini considerano ignoranti per coprire di vergogna i sapienti; ha scelto quelli che gli uomini considerano deboli per distruggere quelli che si credono forti. Dio ha scelto quelli che, nel mondo, non hanno importanza e sono disprezzati o considerati come se non esistessero, per distruggere quelli che pensano di valere qualcosa." (I Cor 1, 27 - 28) e alle sue parole fa eco quanto dice Elrond: "Né la forza né la saggezza ci condurrebbero lontano; questo è un cammino che i deboli possono intraprendere con la medesima speranza dei forti." (ISdA, pag. 340). Che Tolkien avesse presente le parole di San Paolo quando scrisse il capitolo "Il Consiglio di Elrond" e, in generale, concepì il ruolo degli hobbit in ISdA? ^^

4. Lettera a Christopher Tolkien del 29 novembre 1943. ^^



Indicazioni bibliografiche:

"Il Signore degli Anelli", J. R. R. Tolkien, Rusconi, 1986
"Il Silmarillion", J. R. R. Tolkien, Rusconi, 1988
"La Realtà in Trasparenza. Lettere 1914 - 1973", J. R. R. Tolkien, Rusconi, 1990
Per il concetto di "razionalità organizzatrice" si legga "Eclisse della Ragione. Critica della Ragione strumentale", di Max Horkheimer, Einaudi, 2000 (prima ed. americana 1947), soprattutto i capitoli I ("Mezzi e Fini") e II ("La Rivolta della Natura").