Q uando si vedono le fiamme divampare negli edifici e nelle moschee di Baghdad fino bruciarne i bambini e la gente, scrivere analiticamente e razionalmente diventa complicità ed un peccato non minore del coprirsi gli occhi davanti a questa aggressione accusando la leadership irachena e fuggendo dalla responsabilità morale di appoggiare un paese fratello che ha affrontato ed affronta le peggiori carneficine della storia.

Baghdad brucia, e i “fratelli” arabi che posseggono le forze e gli eserciti, stanno a guardare, facendo zapping fra gli schermi delle tv arabe e quelle mondiali alla ricerca dell’immagine più cruda magari sfogandosi a parole su questo crimine essendo questo l’unica cosa che possono fare. E si mettono l’anima in pace sperando che questa guerra sia veloce, che finisca in pochi giorni dopo i quali riprenderanno a scambiarsi baci e abbracci con i “liberatori americani” e a stendere tappeti rossi per i nuovi alleati israeliani, amici del futuro.

Non dubitiamo in alcun modo della spaventosa forza distruttrice americana e non siamo così ingenui da aspettarci la vittoria delle truppe irachene, accerchiate ed insidiate, sul più grande impero del mondo. Ma crediamo che la fine della occupazione americana, che continua ad avanzare, sarà come quella di tutte le occupazioni del passato anzi forse ancora più sanguinosa.

Il presidente iracheno non è stato ucciso nel bombardamento missilistico americano. Le informazioni in possesso del Ministero della Difesa americano erano arrangiate e imprecise perché sono giunte, molto semplicemente, da consiglieri che non conoscono l’Iraq che anzi non conoscono la regione anche quando le appartengono nominalmente.

Uno di questi informatori che lavora al servizio di Donald Rumsfeld, Ministro della Difesa americano, un “professore”, ha affermato, in un’intervista alla televisione kuwaitiana, che il regime iracheno sarebbe crollato dopo due ore dal primo missile lanciato su Baghdad. Una premonizione scodellata in maniera glaciale su giornalisti e sugli spettatori. Ed eccoli 40 missili colpire Baghdad nella prima notte e tremila altri nella seconda mentre Baghdad resiste e il regime sopravvive.

La guerra di Rumsfeld ad al-Qaeda e al suo leader lo shaykh Usama Bin Ladin è entrata nel suo ventesimo mese e non è ancora riuscita ad assicurare la protezione al Karzai di Kabul. Chissà di quanti mesi avrà bisogno Rumsfeld per scovare il presidente iracheno ed assicurare la sicurezza al nuovo Karzai iracheno e alla sua banda.

Le forze americane sono penetrate nelle sacre terre irachene dal Kuwait e ciò che è più importante è che il Ministero della Difesa kuwaitiano ha parlato di scontri tra le sue “forze” e quelle irachene. Sia lodato il Cielo, le forze kuwaitiane riescono addirittura ad affrontare le truppe irachene! [si riferisce alla propaganda di guerra kuwaitiana. E' risaputo che i kuwaitiani hanno un esercito di poco valore ndt.] Sono segni della fine del mondo. Anzi è la fine del mondo stessa.

E’ una guerra psicologica che vuole instillare angoscia e instabilità nelle file irachene, civili e militari, iniziata con la diffusione della notizia della fuga di Tareq Aziz, il vice premier iracheno, poi con l’uccisione del presidente iracheno nel bombardamento inaspettato dell’altro ieri [la notte tra il 19 e il 20.03.03 ndt.]. E quando lo hanno visto in televisione hanno detto che era un “sosia” trovando, nelle televisioni arabe, chi ci ha creduto.

Possiamo capire che ci possa essere un “sosia” che abbia gli stessi tratti, ma non capiamo come faccia ad avere tratti, voce e movimenti identici all’originale. E’ un interrogativo al quale, l’amministrazione americana, i pianificatori della sua campagna propagandistica, i suoi informatori devoti agli arabi e ai musulmani, non daranno mai risposta.

Ci chiediamo: dov’è l’eroico esercito egiziano, dove gli ufficiali e i soldati siriani in questi giorni? Ci chiediamo a cosa siano serviti le centinaia di miliardi di dollari spese per fornire alle forze saudite i carriarmati e gli aerei da guerra più all’avanguardia. Se gli eserciti arabi non si muovono ora per difendere un paese fratello ed un popolo che muore tra le fiamme, quando si muoveranno?
Il silenzio è complicità. Far aumentare il prezzo la produzione del petrolio per abbassare i prezzi è più pericoloso di partecipare militarmente. I leader arabi si sono rifiutati di utilizzare l’arma del petrolio per servire le cause arabe, dicendo che il petrolio è una merce i cui ritorni servono allo sviluppo. Ed eccoli ora utilizzare il petrolio ma per servire l’aggressione americana all’Iraq.
Noi non chiediamo alla monarchia di Abd al-Aziz [l’Arabia Saudita ndt.] di bloccare le esportazioni di petrolio come fece il re Faysal per solidarietà con l’Egitto e la Siria nella guerra del 1973 ma le chiediamo di non aumentare la propria produzione petrolifera di un milione e 200mila barili come sta succedendo attualmente per abbassare e per sostenere l’aggressione americana.
Ci fa soffrire vedere le forze di sicurezza arabe prendersela con chi manifesta contro quest’ ignobile attacco contro l’Iraq. E sentiamo un groppo alla gola nel sentire i leaders arabi giustificare la loro incapacità dando la colpa alla leadership irachena per non aver consegnato l’Iraq, come pasto pronto, agli invasori e spedendola, incatenata e bendata, ad una nuova Guantanamo.

L’Iraq diventerà una base della Resistenza, proprio come lo è stato l’Afghanistan e il Libano. Ma la prossima Resistenza sarà più pericolosa per l’Occidente e l’America di al-Qaeda o del regime Ba’th al potere in Iraq.
Abbattere il regime iracheno non sarà l’inizio della stabilità ma l’incipit di una nuova epoca di caos, di estremismo e un punto di partenza forte per le organizzazioni islamiche che gridano al Jihad, simili ad al-Qaeda.
Forse, dunque, sarà molto facile invadere e dividere l’Iraq. Ben altra cosa sarà ricostruirlo, governarlo e mantenere la pace.