Sull’orlo del baratro?

Editoriale di Marco Tarchi del n. 257 di Diorama Letterario www.diorama.it

Ridurre la tragedia che sta per aprirsi con l’attacco militare angloamericano all’Iraq – sempre più probabile, malgrado il giochi di scacchi in atto mentre scriviamo all’Onu – ad un semplice wargame è cinico e assurdo; eppure, è in quest’ottica che gran parte degli organi di informazione si accingono ad affrontare gli eventi. Si ipotizzano i tempi e i modi dell’azione; si passano in rassegna i dispositivi bellici, dai missili agli apparecchi elettronici che dovrebbero deviarli dai bersagli; si disegnano gli scenari probabili del conflitto partendo dal numero dei morti previsti e degli impianti di interesse strategico (ponti, linee elettriche, condotte di acqua, reti di comunicazione) che verranno distrutti dai bombardamenti aerei e mettendo in campo variabili che spaziano dal grado di fedeltà dei generali dell’esercito di Saddam alle possibilità degli aggrediti di animare una guerriglia casa per casa a Baghdad. Sul retroscena della rappresentazione bellica si preferisce, in genere, glissare, quasi che parlarne significasse per forza scivolare sul terreno delle mere illazioni o, peggio, del complottismo. Tutt’al più, a disposizione del lettore o dello spettatore viene aggiunta una sorta di libretto di istruzioni storico-geografiche per interpretare meglio le immagini e le notizie che ad ostilità scatenate, previa adeguati filtri, giungeranno dal fronte.

Ovviamente, non tutto il panorama della carta stampata, della televisione e della radiofonia è così limitato: temi e interrogativi meno superficiali si fanno strada qua e là. Si parla – seppur di rado con argomentazioni documentate e toni pacati – di geopolitica e di controllo delle fonti energetiche. L’iniziativa franco-tedesca spalleggiata dalla Russia ha portato persino, attraverso un’enfasi strumentale sulla “lacerazione” della Nato (il cui ricompattamento sarà questione di settimane, se non di giorni, mancando ai dissenzienti qualunque volontà di limitare il controllo politico e militare statunitense sull’Europa), a porre sul tappeto la questione delle divergenze di interessi fra gli alleati collocati sulle opposte sponde dell’Atlantico. Latita però, salvo assai sparute eccezioni, la riflessione sulla posta più alta in gioco almeno dal 1989 sul quadrante delle tensioni internazionali e dei loro sfoghi bellici: gli ulteriori passi in avanti di quella occidentalizzazione ed omogeneizzazione culturale, psicologica e comportamentale del pianeta che, in atto da tempo, ha trovato nell’attacco dell’11 settembre 2001 ad alcuni simboli dell’egemonia nordamericana un fattore di formidabile accelerazione – e di più esplicita esternazione.

Parlando di posta più alta, non intendiamo sottovalutare i dati specificamente politici ed economici della vicenda irachena. La partita in corso si gioca simultaneamente su più piani concomitanti e nessuno di essi, se preso singolarmente, ci può fornire indizi sufficienti a capire perché la si sia voluta aprire. Ma a noi pare che, passando in rassegna le spiegazioni tendenzialmente monocausali della prova di forza ingaggiata dagli Usa, anche a prenderle assieme non si giunga a trovarle empiricamente plausibili; cosicché, dal momento che nelle azioni e reazioni politiche la dimensione razionale non è mai del tutto assente, è d’obbligo supporre che in questa trama agisca almeno un altro fattore interveniente.

Per sincerarsene, basta fare mente locale sulle varie ipotesi affacciate dagli analisti e dagli stessi attori di questa vicenda.

L’interpretazione che considera elemento scatenante della “reazione” statunitense la pericolosità dell’Iraq fa acqua, sul piano logico, da ogni parte. Ammesso che il regime di Baghdad detenga una forte quantità di armi batteriologiche e chimiche, non si capisce come e contro chi potrebbe essere invogliato ad usarle, stretto com’è in una condizione di marginalità ed inferiorità plasticamente esemplificata dalla privazione del diritto di sorvolo di oltre la metà del proprio territorio nazionale, sui cui cieli sfrecciano invece ininterrottamente dal 1991 – seminando con puntualità i loro carichi esplosivi – gli aerei angloamericani. Qualche dubbio sulla reale consistenza degli arsenali “di sterminio” iracheni è peraltro lecito, dal momento che nessun uso ne venne fatto neppure nella fase estrema della prima guerra del Golfo, subendo passivamente la strage dell’esercito in ritirata sull’autostrada fra Bassora e Baghdad: se nemmeno allora le famigerate testate chimiche vennero lanciate, quale uso ne dovrebbe avere in mente oggi Saddam Hussein? Mera deterrenza? Probabile: ma, come anche il più sprovveduto cultore di studi strategici sa, la deterrenza è l’arma del più debole, di chi teme le iniziative ostili altrui, di chi punta sul “secondo colpo” di risposta, non certamente dell’aggressore. Si ricorda che i gas sono già stati usati per debellare una rivolta kurda, facendo strage in un villaggio. Così è stato: ma in un contesto del tutto diverso dall’attuale, in cui l’Iraq godeva del tacito avallo o della neutralità degli Stati Uniti d’America, avversi tanto al suo “nemico storico” iraniano quanto all’ipotesi di uno stato kurdo indipendente indigesto soprattutto all’alleato turco. Non è neppure lontanamente pensabile che oggi Saddam di quei gas possa far uso per aggredire chicchessia senza vedersi piovere addosso l’onda d’urto di una coalizione militare mondiale. Le supposizioni di questo o quell’esperto della Cia o del Pentagono sui missili di lunga gittata in possesso del raìs che potrebbero colpire Londra o Berlino – si è letto persino questo! – non hanno dunque alcuna consistenza, e servono solo come strumento propagandistico ad uso di chi neanche sa dove sia collocato sulla carta geografica il paese di cui si sta parlando, per incollare sul bersaglio da colpire l’etichetta del pericolo pubblico numero uno.

Tutto ciò dovrebbe essere evidente a chiunque soppesi agli argomenti oggi in discussione con un minimo di distacco e di senso critico; ma, come è noto, i toni allarmistici servono proprio ad impedire una riflessione pacata e consapevole – e, per di più, sono funzionali alla tendenza dei media a dividere l’opinione in “pro” e “contro” senza sfumature, vie di mezzo o avvicinamenti reciproci. Quindi il gioco della propaganda è soggetto a un continuo rialzo, e non stupisce che si sia spinto fino ad affrontare la questione della potenziale capacità di produzione di una bomba atomica, che finirebbe in mano a un “pazzo”. Sul punto, la malafede di chi brandisce l’illazione è particolarmente evidente. C’è infatti da domandarsi – al di là dell’estrema labilità della congettura, che i bombardieri israeliani hanno azzerato da un abbondante ventennio distruggendo l’unico reattore nucleare di cui gli iracheni disponevano – come mai la minaccia ipotetica di Baghdad venga ritenuta più grave di quella effettiva di Pyong Yang (la Corea del Nord l’atomica già la possiede) o di quella potenziale di Lahore, visto che Musharraf potrebbe essere da un giorno all’altro spodestato a profitto di attori politici e militari legati all’Islam fondamentalista. Senza considerare che, evidentemente, in questo caso il processo alle intenzioni prevale di gran lunga sui dati della realtà, poiché Israele, stato della cui vocazione guerriera non è possibile dubitare, un arsenale atomico lo possiede da decenni, lo ha sviluppato grazie ad una stretta collaborazione con il Sudafrica dell’apartheid senza che alcuno si stracciasse le vesti e si guarda bene dal rivelarne l’effettiva consistenza e lasciarlo sottoporre ai controlli delle agenzie internazionali, il tutto con il pieno accordo statunitense.

Israele però, proclamano i sostenitori dell’atto di forza americano, è una democrazia, e verso le democrazie si è in dovere di usare un altro metodo di giudizio: ad esse talvolta è lecito ciò che è sempre sconsigliabile, o proibito, ad un regime autoritario. Verrebbe da chiedere perché, dal momento che un atto bellico è o no pericoloso oppure ingiusto in sé, per le ragioni che ha alle spalle e/o per le conseguenze che provoca; che venga compiuto da un governo legittimato dal voto popolare oppure no non fa, sul piano degli effetti, alcuna differenza: le bombe sono bombe, e chi le riceve non è portato a fare sottili distinzioni di ordine politologico sul mittente; inoltre da che mondo è mondo le masse hanno spesso vigorosamente sostenuto, nelle urne o in altre forme, governi che compivano massacri – incluso quello della popolazione pellerossa negli Usa: un genocidio che pare essere stato assoggettato ad una data di scadenza (ormai oltrepassata) dal consorzio massmediale e dagli attivisti dei diritti dell’uomo e quindi non è il caso di rievocare. Ma questo non è l’unico argomento logico che milita contro l’accettazione di una tesi di questo tipo. Ci sono infatti regimi autoritari – e ce ne sono stati molti anche in passato – che, sebbene armati fino ai denti e negatori delle fondamentali libertà civili, godono di una dichiarata simpatia da parte nordamericana. Del Pakistan, governato da un generale golpista provvisto di bombe atomiche, s’è detto; e la lista delle situazioni analoghe da citare sarebbe lunga: qualcuno ricorda, ad esempio, l’Indonesia di Suharto, con il suo mastodontico sterminio di oppositori delle cui “urla dal silenzio” nessuno pare aver inteso l’eco? Per ricondurla ad un solo caso di attualità, giova ricordare quel Kazakistan in cui, come ha scritto di recente Jas Gawronski – fonte difficilmente sospettabile di furori antiamericani, in quanto già influente uomo Fiat ed europarlamentare di Forza Italia – gli avversari politici del governo sono oggetto di repressione e anche di omicidi, ma i rapporti con gli Usa sono sempre più stretti e cordiali[1]. Pensare che la guerra all’Iraq – e quelle che presumibilmente la seguiranno, perché la lista degli obiettivi stilata a Washington è lunga – verrà fatta per esportare la democrazia è dunque un segno di ingenuità o di malafede. Appare semmai plausibile il contrario: che questa “missione” venga sbandierata, e sia stata sancita dalla nuova Dottrina di sicurezza nazionale del Pentagono, per fare velo ai veri scopi di operazioni militari che possano essere presentate come “atti morali”[2].

Se quindi la guerra che si sta aprendo non è motivata da paure di aggressioni – tantomeno terroriste: non solo fra Al Qaeda e l’Iraq non corre buon sangue, ma un assalto a Baghdad non può che rinforzare, come si è già iniziato a vedere, quella denuncia della “crociata” che è il cavallo di battaglia di bin Laden per procurarsi proseliti; tutti gli analisti concordano nel ritenere che, annientato Saddam Hussein, l’ostilità islamista verso gli Usa aumenterà notevolmente – né da una insofferenze verso le dittature, i suoi fattori d’innesco vanno individuati altrove.

Il più accreditato è, come noto, il desiderio dell’amministrazione statunitense di controllare la produzione petrolifera dell’Iraq per servirsene direttamente e come strumento di ricatto verso l’Opec. I progetti di occupazione del territorio iracheno e di imposizione al paese di un protettorato militare di almeno diciotto mesi – facilmente prorogabili alla bisogna – paiono avallare questa interpretazione, che è del resto ormai ammessa anche da numerosi sponsors intellettuali della guerra stars and stripes. Il quotidiano confindustriale italiano “Il Sole-24 ore” si è fatto eco di analisi prodotte negli stessi Stati Uniti da cui risulta che per i think tanks economici americani l’appropriazione dei pozzi di petrolio iracheni è una priorità non più differibile[3]. Il teorico delle guerre umanitarie Alain Finkielkraut, francese, ha sostenuto che “la dipendenza energetica degli Stati Uniti nei confronti dell’Arabia Saudita è estremamente pericolosa, tenuto conto del doppio gioco di quel regime che sovvenziona il terrorismo”[4]. Ernesto Galli della Loggia si è spinto oltre, equiparando il petrolio ai farmaci anti-Aids o all’acqua come bene essenziale la cui gestione non può essere lasciata alle dure leggi del mercato e facendo capire che ogni azione che miri ad assicurarne una distribuzione “equa” (leggi: favorevole ai paesi occidentali, Usa in testa) non fa che sanare un’ingiustizia (letteralmente: “uno dei mali del mondo”)[5]. Di fronte ad ammissioni di questo tenore, non c’è alcun motivo valido per lasciar cadere questa ipotesi. Ma dietro lo scenario della guerra che si approssima c’è dell’altro.

C’è, sicuramente, un interesse diretto strategico e geopolitico. A ricordarcelo sono gli stessi fautori dell’attacco all’Iraq, quando sostengono che in alcuni recenti interventi militari, Kosovo in testa, gli Stati Uniti non sono stati mossi da semplici appetiti petroliferi. È vero. Ma se a metterli in azione fossero state le dichiarate ragioni umanitarie, Camp Steel, la vera e propria cittadella fortificata ed ultraequipaggiata su cui Danilo Zolo ha svolto acute riflessioni nel suo coraggioso libro Chi dice umanità (Einaudi), sarebbe stata smantellata da un pezzo, perché la Serbia democratica dei Kostunica e, soprattutto, di un incondizionato sostenitore dell’Occidente come il primo ministro Djndjic, non costituisce certo un così grave pericolo per gli albanesi della ragione da motivarne la permanenza e la ingente spesa. Invece Camp Steel è lì, come lo sono le molte teste di ponte che Washington ha sparso nel corso dei decenni un po’ in tutto il mondo per garantirsi il ruolo che ambisce svolgere ora che l’Urss è debellata, quello di unica potenza condizionante per gli assetti politici ed economici del pianeta. La si chiami vocazione imperiale o in altro modo, questa linea di condotta è sempre più trasparente e, per affermarsi, necessità di periodiche dimostrazioni di una duplice capacità di intimidazione: verso i potenziali rivali (qualcuno forse ricorderà ancora il bizzarro “errore” dei piloti Nato che centrarono l’ambasciata cinese di Belgrado per un presunto errore di documentazione topografica…) e verso gli alleati. Quest’ultimo dato è negato con toni che sfiorano l’isteria dai giornalisti il cui tasso di infatuazione verso il gendarme planetario eccede i limiti della pericolosità sociale e della decenza, ma non imbarazza affatto i diretti interessati, se è vero che la convinzione dell’ex consigliere della Casa Bianca Brzezinski secondo cui l’Europa “è di fatto un protettorato militare degli Stati Uniti”[6] è ormai diffusa in tutti gli ambienti che contano oltre Atlantico. Se anche affermazioni così franche non bastassero per convincersene, sarà opportuno soppesare le reazioni degli Usa ai segni di insofferenza di Germania e Francia, dalle pressioni per intralciare la riuscita del cruciale progetto tecnologico Galileo alla minaccia di sanzione economica indiretta attraverso il trasferimento (di cui, ovviamente, noi saremmo ben lieti) delle basi militari americane dal territorio tedesco a quello della docile e allineata Polonia.

In questa prospettiva di dominio strategico, l’infissione di un altro pilone in terra nemica lancerebbe un segnale di grande forza, tantopiù che ad esserne rafforzata direttamente sarebbe Israele, pedina-chiave del grand jeu di Bush e dei suoi predecessori, “sentinella dell’Occidente” su un limes insidioso. L’alleato-cardine turco, avviato a perturbare i processi di formazione di una coscienza comune del Vecchio Continente con la prossima entrata nell’Ue, acquisterebbe ulteriore peso (al modesto prezzo dell’annientamento delle residue speranze curde di autogoverno) e anche la Russia dovrebbe rassegnarsi all’esclusione per un lungo periodo dai maneggi diplomatici nell’area mediorientale. Anche per questo la guerra americana si farà. Ma, ancora una volta, non solo per questo.

La guerra si farà perché gli Stati Uniti d’America, per estendere la qualità del loro dominio planetario, puntano soprattutto sull’influenza del proprio modello politico, sociale e culturale (promosso ormai alle dimensioni di un vero e proprio mito) sulla coscienza collettiva di un sempre più dilatato Occidente. Perché il successo di questa strategia si perfezioni, dell’Occidente essi debbono incarnare l’anima, il motore e il residuo di virtù, ormai neglette dai vecchi e imbelli alleati europei. E come ha ben sintetizzato uno dei portavoce di questa missione, l’ex “nuovo filosofo” francese André Glucksmann, “l’Occidente si riconosce nel momento in cui sa chiamare per nome il suo nemico, cioè il Male”[7]. Ne consegue che lo scontro tra la civiltà del Bene e del Vero e tutte le altre, negato a livello di atti visibili con qualche visita di Bush a una moschea newyorkese, viene quotidianamente riaffermato dalle voci dei mezzi di comunicazione di massa, con gli accenti e i toni adatti ad ogni caso.

Questa è, come dicevamo in precedenza, la componente più subdola e potenzialmente devastante della guerra che sta per aprirsi, la sua dimensione già da tempo in atto, quella che coinvolge obiettivi assai più ambiziosi della devastazione dei palazzi di Saddam Hussein o dell’estirpazione fisica del Tiranno. Dietro il lato grandguignolesco della propaganda, che non rifugge dall’impiego di spregiudicati controsensi – sulle pagine della cultura del “Corriere della Sera”, Hitler è diventato il Saddam degli anni Trenta, invertendo i termini dell’inflazionato paragone applicato a ogni Malvagio che si pone sulla strada degli States, mentre per Gad Lerner Osama bin Laden è assurto a capofila del “fascismo islamico”! – c’è il disegno di costruire un acuto complesso di inferiorità nel pubblico “occidentale” non toccato dalla grazia della nascita nel Paradiso Terrestre d’oltreoceano, per stimolarne ad un tempo l’emulazione e la deferenza verso il Fratello Lontano sempre pronto a tendere la mano protettrice e caritatevole verso i congiunti increduli e ignavi e salvarli dal Nemico incombente.

Nessun argomento è ormai troppo estremo per questa opera di colonizzazione culturale e psicologica. La tolleranza verso le opinioni dissidenti, con buona pace del pluralismo a lungo invocato come fondamento della democrazia, è equiparata ad un cedimento verso la barbarie. L’incommensurabilità delle culture è messa al bando: una sola di esse garantisce il rispetto dei diritti umani, la proliferazione del benessere materiale, la libertà di espressione; le altre sono malepiante da sradicare in fretta per il bene di un’umanità creata ad escusiva immagine e somiglianza dell’homo consumans occidentale. Al multiculturalismo si imputa nientemeno che di essere l’anticamera della segregazione e dell’oscurantismo[8]. Il nuovo diritto (ma anche, nel contempo, dovere) proclamato è quello di affermare che “in certe società si sta meglio che in tutte le altre” e che, di conseguenza, alle seconde va data la possibilità di adottare i valori, le convinzioni e gli stereotipi comportamentali delle prime, eventualmente imponendoli se gli indigeni non sanno appropriarsene da soli. La versione surgelata e sterilizzata del colonialismo ottocentesco viene così immessa sul mercato con il dovuto sostegno pubblicitario della grancassa giornalistica, televisiva, cinematografica, senza ricorrere a metodi sgradevolmente plateali; tanto più che di riempire di schiavi le navi dei negrieri non c’è davvero più alcun bisogno: la manodopera a basso costo si reca da sola a domicilio, su altrettanto disumane carrette del mare, spinta dalla povertà non meno che dalla fabbrica degli idoli pubblicizzati via etere e parabola.

È a questa opera di conquista in profondità e di lungo periodo che la guerra all’Iraq, come le precedenti più recenti, è funzionale. E se il mondo rischia, come da più parti si ipotizza, di danzare sull’orlo del baratro, non è per le conseguenze che lo scontro sul terreno lascerà dietro di sé. Gli scenari apocalittici delle centinaia di migliaia di morti e dei milioni di profughi probabilmente (e fortunatamente non si realizzeranno). Come si è letto negli scorsi giorni, anche le ansie di molti pacifisti ad oltranza potranno essere placate da un succedersi “ moderato” degli eventi bellici: “non siamo ancora alla guerra e non sappiamo come essa sarà. Se sarà rapida, se non farà troppe vittime civili, se le truppe americane saranno accolte con sollievo dalla popolazione irachena repressa dai miliziani di Saddam (dagli applausi degli sciiti del sud, e dei curdi del nord), se non ci sarà una battaglia casa per casa nella capitale, se insomma tutto andrà via liscio, e risulterà una guerra di liberazione, le opinioni pubbliche non resteranno insensibili. Gli umori di molti cambieranno”[9].

Lo pensiamo anche noi. E pensiamo che, se così andranno le cose, il progetto di dominio imperiale degli Usa avrà fatto un altro decisivo passo avanti, che frantumerà un’altra delle fragili barriere psicologiche che gli si oppongono. Non come “antiamericani”, termine che non ha alcun significato se non quello dell’epiteto mistificante e legittimante scagliato addosso all’avversario per paralizzarne la capacità di reazione, ma come europei e come amanti della ricchezza delle molteplicità, delle specificità e delle sfumature che la natura, e Chi per essa, ha voluto donare al mondo, giudichiamo questa eventualità come l’annuncio di una catastrofe assai difficilmente rimediabile, dell’incubo di una civiltà ad una dimensione.

Questa – la scomparsa della natura plurale degli odierni scenari di civiltà, con il connesso addomesticamento delle coscienze all’idea orwelliana dell’avvento del migliore dei mondi possibili – è la posta che veramente conta nel gioco di cui la guerra a Saddam Hussein non è che una mossa contingente. Chi, pur pretendendo di opporsi alle storture del modello di società oggi vigente in Occidente – alle sue ingiustizie, alla sua pratica quotidiana dell’egoismo e dell’utilitarismo come norme di vita, al suo materialismo, alla sua sordità alle esigenze dello spirito, alla sua arroganza omologante, al suo ostracismo verso le identità collettive, alla sua incapacità di conferire senso all’esistenza – non sa capirlo e si lascia sedurre da chi gli assicura che “insieme [gli Usa e l’Europa] siamo invincibili” e che “se l’Occidente rimane unito, per molti anni ancora darà al mondo le proprie regole, che sono quelle della democrazia liberale”[10], è atteso da pesanti delusioni. La logica e il senso critico impongono oggi scelte di campo nette. L’invito che Alain de Benoist rivolse agli europei più di vent’anni orsono affinché capissero, al di là della mitologia della Guerra fredda, qual era il “nemico principale” del loro continente e, più in generale, della autodeterminazione dei popoli e della vitalità delle loro culture[11], è sempre attuale. E la risposta rimane la stessa, semmai rafforzata da nuovi motivi: quell’avversario temibile sta a Ovest. Così come non abbiamo rinunciato a combatterne il rivale speculare, il comunismo sovietico, in anni in cui non era di moda né di buon gusto farlo, così non intendiamo smettere di opporci oggi ai suoi sogni di egemonia incontrastata. Questo è il nostro modo di intendere e praticare la libertà di pensiero.

NOTE



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[1] Scrive Gawronski: “Nel luglio 2002 gli USA hanno firmato con Nazerbajev un accordo: gli aerei americani operanti in Afghanistan (che dista 500 km) potranno rifugiarsi negli aeroporti kazakhi in caso di emergenza. E, sarà un caso, in luglio è entrata in vigore una legge che in pratica impedisce la formazione di qualsiasi partito di opposizione. Anche per quelli esistenti diventa dura sopravvivere. Prima per formare un partito bastavano 3mila persone adesso ne servono 50mila. Con un minimo di 700 membri in ciascuna delle 14 regioni. È il pluralismo politico alla kazakha, la libertà politica che prevede che tutti i nomi e gli indirizzi degli aderenti ai partiti debbano essere notificati al Ministero della Giustizia. I partiti già esistenti devono riregistrarsi in base alla nuova legge La soglia per entrare in parlamento viene elevata dal 7 al 10 %. Attualmente solo i tre partiti al governo sono in grado di adempiere agli obblighi della nuova legge. Ma l'esistenza dell'opposizione qui sarebbe un miracolo, con qualsiasi legge elettorale, basta ricordare che i due cofondatori del partito di opposizione DVK sono stati condannati a 7 anni di prigione e a multe di migliaia di dollari per «malversazione». Nel 1999 il governo ha manipolato i mezzi di comunicazione e le procedure elettorali per assicurare la rielezione di Nazerbajev e la formazione di un parlamento compiacente formato quasi esclusivamente di fautori del regime, ma le elezioni sono state giudicate irregolari da tutte le organizzazioni internazionali. Una volta eletto Nazerbajev, ha prolungato il suo mandato attraverso il più classico dei referendum plebiscitari di regime” (Kazakhistan, in “La Stampa”, 2 febbraio 2003, pag. 11).



[2] È utile notare come molti dei commentatori che sostengono le ragioni della guerra contro l’Iraq presentino come una prova della bontà dei conflitti voluti dagli Usa l’aggressione della Nato alla Jugoslavia, che – dicono – avrebbe impedito il massacro dei kosovari da parte dei serbi. In realtà, quell’azione bellica rappresentò un’interferenza tra due parti in lotta una delle quali (l’albanese), secondo i criteri vigenti in Occidente avrebbe avuto tutti i titoli per essere etichettata come terrorista: non riconosceva la sovranità statale, attaccava e uccideva poliziotti, occupava armi alla mano villaggi, ecc. In Kosovo era in atto una guerra civile basata sull’ostilità fra due comunità etniche che rivendicavano con opposti argomenti il controllo politico e amministrativo del medesimo territorio: gli uni (gli albanesi) appoggiandosi alla loro maggioranza numerica consolidata da decenni, gli altri (i serbi) rivendicando un diritto storico di lungo periodo: il Kosovo come focolare nazionale, luogo di identificazione nella memoria storica. Curiosamente, gli Usa e i loro alleati, prendendo la parte anti-serba, hanno scelto l’opzione diametralmente contraria a quella preferita invece nel conflitto israelo-palestinese, dove l’insediamento largamente maggioritario di una popolazione non è considerato sufficiente ad autorizzarla a costituire un proprio stato indipendente a scapito di un dominio affermato in nome di un principio di radicamento storico-culturale di lunghissimo periodo. Fra la mitologia della battaglia del Campo dei merli e quella, assai più antica, delle imprese bibliche non viene ammessa, evidentemente, una comune misura, e all’Uck è riservata una considerazione ben diversa da quella spettante al Fatah e alla sue diramazioni.



[3] Cfr. “Il Sole-24 ore”, 2 febbraio 2003, pag. 2.



[4] “La guerra? Un atto morale contro un tiranno sanguinario”, intervista di Alain Finkielkraut a Ulderico Munzi, in “Corriere della Sera”, 20 gennaio 2003, pag. 3.



[5] Ovviamente, il richiamo al fatto che “il petrolio vuol dire la principale fonte di energia, e la mancanza di energia a basso costo rappresenta una delle principali strozzature per lo sviluppo di gran parte del pianeta”, di “importanza strategica per la crescita dell’economia dei Paesi poveri” è usato per attaccare e screditare il movimento no-global, che non attaccherebbe, per “una ragione ideologico-politica”, i “paesi arabi del Medio Oriente, i[l] Venezuela e [le] altre contrade dell’area caraibica, [dell’]Asia e [d]ell’area dell’ex Unione Sovietica” che “da decenni godono di un’immensa rendita di posizione”. Criticare questi paesi significherebbe infatti rinunciare allo “stereotipo che vede solo nell’Occidente e nel suo sistema economico i responsabili del sottosviluppo di una parte del pianeta”. (Ernesto Galli della Loggia, Cari no-global perché non parlate (quasi) mai di petrolio?, in “Sette”, settimanale del “Corriere della Sera”, n. 6/2003, 6 febbraio 2003, pag. 15). Con questo affondo, il polemista coglie insieme più obiettivi e, quel che più conta, fa vestire i panni di Robin Hood agli amati Stati Uniti d’America, che appropriandosi del greggio iracheno, abbattendone il prezzo e affidandone la gestione alle sane e liberiste multinazionali d’Occidente aprirebbero rosei orizzonti di sviluppo a “gran parte del pianeta” (i “Paesi poveri”). Da storico a scrittore e divulgatore di favole, è un bell’ampliamento di orizzonti per un intellettuale già abituato ad audaci cambiamenti di campo (da una sinistra estrema a un conservatorismo decisamente di destra, senza peraltro mai mutare la perentorietà dei toni, come ha fatto efficacemente notare Raffaele Liucci, Il galletto nero, In “Belfagor”, LIII, 1998, n. 2, pp. 225-229).



[6] Così in Dario Fertilio, Se domani la vecchia Europa si risvegliasse senza l’America, in “Corriere della Sera”, 12 dicembre 2002, pag. 35.



[7] In Dario Fertilio, art. cit.



[8] Esemplare, in tal senso, il più recente libro di Zygmunt Baumann, Voglia di comunità, Laterza, Bari-Roma 2003.



[9] Bernardo Valli, Quei leader sconfessati dalle piazze, in “La Repubblica”, 17 febbraio 2003, pag. 16.



[10] Beppe Severgnini, L’America, l’Irak e la “sposa” Europa, in “Corriere della Sera”, 12 dicembre 2002, pag. 2.



[11] Cfr. Alain de Benoist, Il nemico principale, La Roccia di Erec, Firenze 1983.